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Il problema del debito pubblico

Pubblicato il 12/07/2018 @ 11:47 in Varie

Sul tema Giovanni Pons ha pubblicato un articolo, a cui ho risposto con un mio testo e con il rimando a un articolo di Carlo Bastasin

L’Italia nel vicolo cieco del debito pubblico. Nessuno sa come uscirne, urgono proposte nuove

di Giovanni Pons – Business Insider, 1 luglio 2018

Non passa giorno che qualcuno, sia esso un politico al governo o un economista con la ricetta in mano, dica la sua su come si può superare l’ostacolo del debito pubblico italiano, arrivato a oltrepassare i 2.300 miliardi di euro e il 132% del Pil (prodotto interno lordo). Ma nessuno sembra avere il bandolo della matassa in mano, la ricetta giusta per rientrare nella normalità e mettere il paese al riparo dalle oscillazioni del suo indice di fiducia, lo spread. Proprio domenica 1 luglio è arrivata l’ultima dichiarazione di Carlo Cottarelli, ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale e dunque parzialmente allineato alla dottrina liberista che ha permeato quell’istituzione: “E’ impossibile ridurre il rapporto tra debito e Pil – ha detto – attraverso manovre espansive. Non esistono precedenti in nessun paese”. Ma poco più in là assistiamo alla visione opposta del sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri che insiste nel proporre una manovra espansiva da 70 miliardi che includa Flat tax, riforma della legge Fornero e Reddito di cittadinanza. E se lo spread balzasse improvvisamente a 500 punti di fronte una prospettiva del genere Siri propone una soluzione inedita e per così dire ‘sovranista’: “Le famiglie italiane che hanno 5000 miliardi di liquidità tornino a riprendersi quelle quote del debito, pari a 780 miliardi, collocata presso investitori stranieri, che sono quelli che fanno girare la giostra dello spread”.

A parte che le cifre indicate da Siri non sono corrette in quanto la quota di debito pubblica detenuta da investitori esteri, secondo gli ultimi dati di Banca d’Italia, ammonterebbe a circa 480 miliardi (e non a 780), la sua proposta in questi termini suona quantomeno generica e basata sul nulla. Se si volesse veramente ‘balcanizzare’ il debito pubblico italiano, cioè metterlo tutto nei portafogli dei residenti, imitando la situazione presente in Giappone, occorrerebbe mettere a punto un piano pluriennale in cui si stimola l’investimento dei privati cittadini, con risparmio a disposizione, ad acquistare ulteriori emissioni di titoli di Stato. A cui dovrà essere assegnato un rendimento maggiore o un beneficio fiscale. Ma come si fa, dopo anni e anni di emissioni aperte sul mercato, a escludere di punto in bianco dagli acquisti gli investitori istituzionali esteri? Il problema dei politici oggi al governo è che continuano a invadere il dibattito pubblico con proposte non ponderate, destinate ad acchiappare il consenso momentaneo della gente ma senza basi concrete per la loro realizzazione.

Sarà forse anche per questa mancanza di soluzioni pragmatiche che al recente vertice europeo di Bruxelles sul tema del debito pubblico italiano si è preferito buttar la palla più in là. Il premier Conte non ha assecondato la proposta franco-tedesca nella parte in cui voleva un rafforzamento del fondo Esm sul modello del Fondo Monetario internazionale e dunque la questione è stata rimandata a un prossimo vertice da tenere a dicembre 2018.

Ma che il problema del debito pubblico sia stringente lo conferma anche il recente intervento della Corte dei Conti, il cui presidente Angelo Buscema nella relazione sul rendiconto generale dello Stato è stato molto chiaro: “Un eccessivo livello di debito limita la capacità progettuale di medio e lungo periodo con riflessi sui tassi d’interesse e sulla complessiva stabilità finanziaria del paese: in definitiva sulle sue potenzialità di crescita”. Buscema avverte la necessità di agire in qualche modo: “Dopo la lunga crisi conosciuta dal nostro paese, la tutela della finanza pubblica si identifica in buona parte con l’esigenza di ricondurre il debito su un sentiero di sicura sostenibilità e di recuperare la crescita in termini di Pil”.

Ma anche gli economisti non hanno le idee molto chiare, a giudicare dal livello delle polemiche delle scorse settimane sempre tema di debito pubblico. Per far capire meglio ai lettori di cosa si sta parlando ecco una sintesi delle varie posizioni in campo.
Basta far crescere il Pil
Cominciamo prendendo spunto da una appassionata intervista rilasciata qualche giorno fa dall’economista Michele Boldrin al giornale online Linkiesta nella quale invita a concentrare l’attenzione sulla capacità dell’Italia a servire il proprio debito pubblico lasciando perdere il suo valore assoluto, che può addirittura risultare fuorviante. Se vi fosse crescita sostenuta in Italia – è la tesi di Boldrin insieme a un nutrito schieramento di economisti della scuola liberista che anni fa avevano sostenuto il movimento ‘Fare per fermare il declino’ – nessuno si preoccuperebbe dell’alto livello assoluto del debito pubblico. “Se io ho tanto debito e ti prometto che farò reddito futuro, e quindi gettito fiscale – dice Boldrin – divento credibile”.

Su questo punto credo che tutti possono essere d’accordo, è piuttosto sul come si possa produrre reddito aggiuntivo e quindi gettito fiscale in presenza di un debito così elevato che le teorie divergono e, dico io, dove le fondamenta liberiste vengono incrinate dalla dura realtà del caso italiano. Boldrin getta infatti ‘alle ortiche’ le proposte che hanno contrassegnato la recente accesa campagna elettorale, cioè la Flat tax e il reddito di cittadinanza, quali elementi di una politica economica che può portare crescita nel breve periodo. Constatando, giustamente, che “ridurre le aliquote crea comunque una riduzione del gettito. Non c’è maniera di discutere di riduzione complessiva del carico fiscale in Italia se non si discute di riduzione della spesa, perché altrimenti l’unico effetto che hai è che crei un buco di bilancio di 2-3 punti percentuali e lo rendi strutturale”.

Ecco che il cerchio comincia a stringersi. Per produrre più crescita in Italia (dato l’alto livello del debito pubblico) secondo i teorici delle riforme e del rigore occorre prima di tutto tagliare la spesa pubblica, il grande moloch dell’economia italiana. Con una controindicazione: se tagliando le spese si tolgono soldi dalle tasche dei cittadini, siano essi pensionati, dipendenti pubblici o fruitori di servizi sanitari, i consumi si contraggono e difficilmente si produrrà una maggiore crescita. Ecco perché in molti suggeriscono di concentrare i tagli solo sugli sprechi, come sostiene da anni il professore bocconiano Francesco Giavazzi. “Comincino a tagliar la spesa per davvero, dai forestali alle pensioni”, tuona Boldrin.

Sembra facile, ma solo a parole. Il problema è che ci hanno provato in molti negli anni passati tra coloro che si sono avvicendati al governo, ma nessuno vi è riuscito. Dal professor Cottarelli al suo successore dottor Gutgeld nessuno, per ragioni diverse, ha centrato l’obbiettivo. Gutgeld ha anzi sostenuto che in Italia non si può pensare di ridurre seriamente la spesa pubblica senza licenziare i dipendenti pubblici e tagliare le pensioni. Due provvedimenti molto impopolari che nessun governo ha sinora voluto mettere in agenda.
Un’altra strada è possibile
Tuttavia il taglio della spesa pubblica non è l’unica strada per risolvere il problema del debito. Secondo un altro gruppo di economisti (Giovanni Dosi, Marco Leonardi, Tommaso Nannicini, Andrea Roventini) che recentemente hanno scritto una lettera a otto mani al Corriere della Sera, bisogna avere il coraggio di dire che “l’austerità ha fallito, non solo in Italia ma in tutta l’area euro, e che la quasi stagnazione rende il peso del debito insostenibile nel lungo periodo in diversi paesi del’area euro”. Abbattuto il muro del rigorismo resta da dire quali sono le ricette per uscire dalla morsa. Tra le possibilità, secondo i quattro economisti ‘innovatori’, ci sarebbe l’utilizzazione del “Fondo Salva Stati come veicolo per l’assicurazione dei debiti nazionali con l’obbiettivo di far convergere le curve dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i paesi e reinvestire i proventi derivanti dai premi di assicurazione nei paesi che li hanno pagati”. Di questa proposta ha scritto anche l’economista della Consob Marcello Minenna sulle nostre pagine e un suo intervento al riguardo è stata pubblicato dal Financial Times Alphaville e commentato da KPV O’Sullivan dell’University of Cambridge. L’obbiettivo sarebbe quello di giungere a una progressiva mutualizzazione dei rischi sovrani tra i paesi che aderiscono all’euro, archiviando il dossier spread e passando a un debito pubblico federale dell’area euro.
La spallata da 300 miliardi
Un terzo gruppo di osservatori, riuniti nei mesi scorsi sotto le insegne della fondazione ResPublica (che vede nelle sue fila anche l’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti), ritiene invece che non sia sufficiente, anche qualora vi si riesca, far fronte alla montagna del debito pubblico solo con una maggiore crescita del Pil. E propone una ricetta che si potrebbe definire ‘del buon padre di famiglia’: quando hai troppi debiti, non c’è verso, li devi ridurre vendendo qualcosa. Dunque l’Italia dovrebbe dare una spallata al debito pubblico riducendolo drasticamente, di almeno 300 miliardi. La manovra permetterebbe di innescare un circolo virtuoso dato che l’abbassamento dello spread conseguente al taglio andrebbe a determinare una minor spesa per interessi sul debito liberando risorse che possono, adesso sì, essere reinvestite nella crescita o in misure socialmente utili (reddito di cittadinanza?) con l’obbiettivo di rilanciare i consumi.

Domanda retorica che si porranno in molti: e come si fa ad abbattere il debito pubblico di 300 miliardi? I banchieri ed economisti di ResPublica hanno individuato una serie di beni dello Stato che potrebbero essere dismessi attraverso procedure finanziarie lineari volte ad attrarre quei risparmi degli italiani che sono ingenti (gli attivi dei privati sono nell’ordine dei 5000 miliardi senza gli immobili) ma che negli ultimi anni hanno preso la via dell’estero per mancanza di buone occasioni di investimento. In pratica una sorta di nuovo mega programma di privatizzazioni ma indirizzato principalmente a cittadini e risparmiatori italiani. Non c’è motivo per cui lo Stato non possa vendere agli italiani le sue partecipazioni in società quotate e non quotate, gli immobili posseduti dallo Stato o dagli enti territoriali, le concessioni, i crediti verso Equitalia o verso gli Stati esteri, o anche una parte dell’oro della Banca d’Italia. Il progetto è sicuramente ambizioso e proprio per questo richiederebbe una volontà politica molto forte e determinata nel portarlo a termine. Elemento che nei precedenti governi è mancato.

Ecco, questo è lo scenario entro il quale ci stiamo muovendo e si sta discutendo, anche molto animatamente, e nel quale sono coinvolti non solo gli economisti ma anche i banchieri (il ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina ha parlato spesso della necessità di ridurre il debito pubblico) e alla fine tutti i cittadini italiani perché il debito grava su ognuno di noi e sulle prossime generazioni. Ma gli spazi per agire, come visto, non sono ampi e qualsiasi proposta o suggerimento che permettessero uno scatto in avanti sarebbero benvenuti.

Per questo motivo apriamo le pagine di Business Insider Italia a chi vuole commentare o fare una proposta attinente agli argomenti di cui si è parlato qui sopra.

Il vicolo è cieco se non si affronta il problema della produttività

di Franco Debenedetti

Provo a riassumere le proposte:

1. Manovre espansive. Lapidaria la sintesi di Cottarelli: impossibile, non esistono precedenti in nessun Paese
2. Obbligare gli italiani a comprarsi il debito non ancora in loro mani:. (Armando Siri). Soluzione sovietica: per fortuna la credo politicamente neppure proponibile. Oltretutto presuppone (anzi è mirata al) la monetizzazione del debito, che significa uscire dall’euro
3. Crescita dell’economia: Boldrin. Perfetto, ma come fare a crescere? Certo non facendo quello che propone il Decreto Dignità, non respingendo la soluzione Arcelor Mittal per l’Ilva, non nazionalizzando Alitalila. Ma in positivo, caro Michele, che cosa fare?
4. Ridurre la spesa: Boldrin. Certo, qualcosa è stato fatto, ma solo per contenere l’aumento del deficit.
5. “L’austerità ha fallito”: Dosi, Nannicini, Leonardi, Roventini. Non è vero, noi non abbiamo avuto austerità. Tra il 2015 e il 2018 ci è stata accordata flessibilità di bilancio per € 29,7 mld. (Ultimo rapporto Uff Studi Confindustria).
6. Mutualizzazione dei rischi sovrani (Minenna): Perotti giustamente si chiede perché mai il contribuente tedesco dovrebbe accettare. Se lo si obbligasse, alle prossime elezioni avremmo un governo AfD a Berlino: ci conviene?
7. “Un colpo e via”: vendere qualcosa (Tremonti, o in una versione più sofisticata, Ruggero Magnoni). È l’ennesima variante del piano Guarini, sulla scena da 10 (?) anni. Perché non è stato fatto né da Governi che hanno privatizzato tanto, né da Governi comunque favorevoli all’economia privata? E si pensa che possa farlo un governo che vorrebbe far di CDP una banca di investimenti pubblici? Che vorrebbe mettere le mani (pubbliche) sulla rete TIM? Ma se c’è ancora chi dice che la privatizzazione di Stet è stata un errore, di che cosa parliamo?

Nemmeno uno che parli dell’unica cosa che conta: il recupero di produttività, senza di che non c’è crescita. Si legga l’editoriale di Carlo Bastasin sul Sole24Ore del 26 Giugno, che per comodità allego: non saprei fare meglio.
La caduta della produttività italiana è dovuta a fattori ben precisi: Bastasin li elenca e li riassume sotto tre capitoli, rigidità del mercato dei prodotti, del mercato del lavoro e debolezza della pubblica amministrazione. Metterci le mani richiederebbe investimenti dell’ordine di 5 punti di PIL, che potrebbero essere finanziati con fondi europei: ma presuppone che si decida di convergere invece di isolarci in Europa.

Il problema della riduzione del debito non è tecnico, è politico. Parliamo di quello.

La scelta (in apparenza) facile tra isolamento e convergenza

di Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2018

L’avvicinarsi del Consiglio europeo del 28-29 giugno ha portato alla luce il dibattito sulle riforme dell’euroarea. Sul tavolo ci saranno le proposte già avanzate dalla Commissione Ue a dicembre e ora ridefinite dalla “Dichiarazione di Meseberg” di Macron e Merkel.

Per l’Italia non si tratta tanto di accogliere o rigettare alcune proposte (tra cui quella controversa sulla ristrutturazione del debito), ma di capirne la logica complessiva e di scegliere tra isolamento e convergenza. Le posizioni negoziali dei diversi governi e le proposte delle istituzioni europee rispondono infatti a tre diverse logiche politiche:

1. trovare un equilibrio tra la riduzione e la condivisione dei rischi;

2. perseguire la convergenza strutturale tra i Paesi, necessaria ad avvicinare l’unione monetaria a un’area ottimale;

3. ispirare le regole a un obiettivo di più stretta integrazione politica, indispensabile ad altre aree di esercizio della sovranità condivisa, tra cui sicurezza, politiche migratorie e politica estera. In relazione alle tre logiche del negoziato, l’Italia arriva al vertice di fine giugno in una condizione eccentrica:

1. è il Paese che ha maggiore pressione dal lato della riduzione dei rischi;

2. ha la minore convergenza strutturale rispetto alla media delle altre economie;

3. dalle ultime elezioni ha il peggior equilibrio tra esigenze di cooperazione nelle politiche di sicurezza e la propria disponibilità a condividere la sovranità relativa necessaria. L’anomalia della posizione italiana restringe le strategie disponibili. L’Italia non può chiedere la condivisione dei rischi (possibile solo in un contesto di fiducia e coerenza con gli impegni europei) senza aver prima avviato una riduzione del debito. Inoltre, poiché ha assunto programmi politici sovranisti, cioè opposti alla condivisione dei poteri con i partner, non può nemmeno chiedere una riforma dell’euro-area meno “fiscale” e più “politica” (tra l’altro il Fiscal compact è di fatto già sparito dalla governance). L’unico punto di contatto tra le posizioni italiane e quelle delle istituzioni e dei partner europei è l’esigenza di facilitare la convergenza della struttura economica.

Nelle proposte più recenti di Macron, Merkel e della Commissione Ue si fa riferimento a fondi di sostegno alla convergenza attraverso le riforme strutturali e gli investimenti, il cui livello è caduto nel corso delle ultime recessioni. Roma dovrebbe cogliere l’opportunità dei due nuovi strumenti di sostegno per le riforme e per gli investimenti nei Paesi divergenti. Riforme e investimenti sono esattamente ciò che è richiesto al nostro Paese per ridurre la sua divergenza strutturale. La produttività totale dei fattori italiana, il maggior determinante della divergenza, comincia a distanziarsi dalla media europea all’inizio degli anni Ottanta, molto prima dell’euro, e viene aggravata dopo la crisi del 2010 proprio dal rischio che l’euro si rompa. Nelle economie avanzate, la produttività dei fattori influisce sulla crescita più della dotazione di capitale e di lavoro, ed è correlata alla qualità delle istituzioni, per esempio l’elasticità dei mercati dei prodotti e del lavoro.

Per l’Italia, uscire dalla trappola della non-convergenza richiede quindi non solo interventi sulla quantità di capitale (in questa ipotesi, finanziabile dai fondi Ue), ma soprattutto sulla qualità delle istituzioni. Se non si migliora la qualità delle istituzioni, la semplice aggiunta di risorse, anche consistenti, non porterebbe a una crescita stabile, perché risulterebbe in una cattiva allocazione di risorse su larga scala, come è avvenuto in Grecia dopo l’introduzione dell’euro. Dietro la caduta della produttività italiana ci sono tre fattori:

1. la rigidità del mercato dei prodotti (oneri burocratici; piccola dimensione delle imprese con insufficiente capacità manageriale di assorbimento della tecnologia; deficit di corporate governance; scarsa competizione nei servizi professionali; cattivo funzionamento della giustizia);

2. rigidità dei mercati del lavoro (struttura di tassazione che pesa troppo sul lavoro; protezione degli insider);

3. debolezze della pubblica amministrazione (corruzione, deficit nell’amministrazione fiscale e degli appalti pubblici). Non appena arrivata una crisi abbiamo visto le conseguenze strutturali di queste debolezze: riduzione di circa quattro punti del livello degli investimenti dalla media 2001-2010 a oggi; drastica riduzione del tasso di risparmio delle famiglie, compensato solo dai tagli delle pubbliche amministrazioni; aumento tra il 2007 e il 2017 della quota di occupati nelle professioni meno qualificate a fronte di una riduzione per quelle a media e alta qualifica. Uno sforzo di riforma mirato a riqualificare il capitale umano e quello fisico-tecnologico è necessario a ritrovare la crescita dell’economia e l’aumento dei redditi delle famiglie.

Questi sforzi, che richiedono investimenti materiali e schemi di incentivo, per gli individui e le imprese, possono essere sostenuti da fondi europei nell’ordine dei cinque punti del Pil italiano. Questo dovrebbe essere il punto di arrivo di una riforma dei rapporti tra Paesi dell’euro-area che intenda superare la divergenza in atto. Riforme di questa natura tuttavia possono avere successo solo se affrontate con cura alle specifiche microeconomiche, soprattutto in un’economia con caratteri regionali molto differenziati. Ugualmente, l’impiego di fondi deve essere controllato rigorosamente. L’esperienza molto negativa con l’impiego dei fondi regionali europei deve dar luogo a un sistema diverso di erogazione e controllo. In uno studio pubblicato su www.sep.luiss.it, Marcello Messori ed io abbiamo provato a distinguere tra le posizioni europee che si prefigurano al Consiglio europeo e a definire i margini di manovra italiani.

Se si sceglie la strada di non isolarsi, bensì di convergere, è necessario rafforzare la funzione di controllo dell’impiego dei fondi europei per le riforme e per gli investimenti attraverso alcuni passaggi:

Verifica della Commissione europea del rispetto del Patto di stabilità e del piano di riforme nazionali, concordati nell’ambito del Semestre europeo con l’obiettivo di migliorare la qualità istituzionale del Paese.

Se la verifica sulla qualità delle istituzioni è soddisfacente, la Commissione europea può varare un “Progetto di riforma Italia” con linee d’azione e specifici interventi “micro” concepiti e indicati dalle autorità italiane, finanziabili attraverso i fondi di riforma e quelli di investimento che saranno proposti al Consiglio europeo.

Monitoraggio sistematico e rigoroso dello stadio di realizzazione delle riforme e degli investimenti e del connesso appropriato utilizzo dei fondi da cui dipende l’erogazione di ulteriori fondi.

Rafforzamento della vigilanza europea sul sistema bancario nazionale, inclusa la possibilità di reperire informazioni sulla tracciabilità dei fondi e una partecipazione alle verifiche fiscali. Non si tratta di un pranzo di gala, ma pur sempre di una rivoluzione che può far convergere l’Italia con le economie più forti. L’alternativa è l’isolamento di un Paese sempre più povero. Non è una scelta difficile.

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