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Il nazionalismo in azienda è miope

Pubblicato il 01/04/1994 @ 11:07 in Varie


Questo accordo Italtel Siemens rischia di restare coperto dal rumore della campagna elettorale e di non rice­vere l’attenzione che merita. Anche le cose logiche sono per loro natu­ra prevedibili, meno atte dunque a fare no­tizia: ed é logico che sia il cane a mordere l’uomo.

Siemens ha riconosciuto, anche in sede di valutazione economica, il valore delle ca­pacità industriali di Italtel e della sua posi­zione di mercato. Nel governo dell’azien­da la componente italiana ha una posizio­ne di rilievo che dovrebbe garantire che Italiel non sia considerata solo per il peso dei suoi posti di lavoro, da sfruttare nell’assegnazione delle commesse pubbliche (o private?), ma che essa possa venire inse­rita in un contesto industriale in cui i ruo­li nel progettare, sviluppare, produrre, com­mercializzare siano distribuiti secondo lo­giche di efficienza, e non secondo egoismi nazionalistici.

Se guardiamo un po’ più in là della pre­sente congiuntura, appare evidente che si sta formando un grande blocco economico al centro dell’Europa, che ha al suo cen­tro la Germania riunificata, e che attrae nel­la sua orbita gli stati ex-comunisti dell’Est, la Slovenia, la Croazia, un pezzo dell’Eu­ropa del Nord, forse parte dell’ex Unione Sovietica. L’Italia, soprattutto il Nord Ita­lia é di questo spazio economico l’hinter­land naturale: e sarebbe veramente delit­tuoso se perdessimo questa occasione, se il regionalismo venisse lasciato decadere a protezione di angusti confini, se il saldarsi di vari populismi ci isolasse anche politi­camente dal resto dell’Europa.

Ma proprio perché l’accordo Siemens-Ital­tel ci ha evitato altre soluzioni (era proprio eccessivo pessimismo temere esiti autar­chico-nazionalisti, o populistici, o di resa totale?), proprio perché Italtel ha legato i propri destini al grande oligopolio tedesco, diventano nostri i problemi di politica in­dustriale a livello europeo. E si pensa in particolar modo a quelli della competiti­vità europea, e a quello del controllo pub­blico dei comportamenti e delle strategie delle grandi imprese.

Che la competitività europea sia in decli­no da oltre un decennio é un fatto ormai acquisito: la creazione di posti di lavoro é aumentata dall’80 del 18 per cento (in Usa del 36 per cento); la quota europea nel commercio extra-UE é calata nello stesso pe­riodo dal 22 per cento al 18 per cento, e, tra i prodotti esportati, quelli ad alto con­tenuto tecnologico pesano solo per un quin­to (un terzo per gli Usa); il numero dei bre­vetti europei non é aumentato dal 1987 (negli Usa é cresciuto del 30 per cento). Tra le cause di questo declino viene indi­cata la minore esposizione europea alla con­correnza internazionale, soprattutto nell’a­rea delle commesse pubbliche: e la Siemens certamente ha approfittato di questa situazione relativamente protetta. Grazie all’ac­cordo con Italtel, essa aumenta la propria posizione di forza nei mercati europei: é es­senziale anche per noi che essa venga sfrut­tata come punto di partenza per rafforza­re la propria posizione sui mercati mon­diali. Non é un mistero che oggi le grandi aziende americane (ad esempio General Electric) hanno nel mirino più le aziende europee che quelle giapponesi.

L’Italtel ha per conto suo goduto di una posizione assolutamente anomala sotto que­sto punto di vista. Nel piano Delors per lo sviluppo e l’occupazione, la telefonia e la telematica ricoprono un ruolo centrale: la tentazione di usare questa opportunità in chiave protezionistica sarà fortissima, il ri­schio di usare gli standard come strumen­to di discriminazione, perfino indulgendo a certo perfezionismo teutonico, deve es­sere sempre tenuto presente.

Discorso analogo si può fare per quanto ri­guarda il controllo pubblico dei compor­tamenti del management di grandi azien­de private, il tema della cosiddetta corporate governance. Come é noto si confrontano due schemi, quello anglosassone, in cui il controllo é affidato al mercato azio­nario, ed alle decisioni dei grandi fondi pen­sione che sostanzialmente detengono le maggioranze di voto; ed il sistema tedesco, in cui il controllo é esercitato dalle grandi banche nel chiuso dei consigli di amministrazione: in cui però i rappresentanti dei lavoratori hanno un peso rilevante che ha contribuito non poco a disinnescare il ra­dicalismo dei conflitti di classe. L’Italia, co­me é noto, é anche sotto questo aspetto anomala: i grandi gruppi industriali con­trollano una parte importante degli investitori istituzionali, quelli che canalizzano il risparmio alla proprietà delle imprese. Sia il sistema anglosassone che quello tedesco hanno mostrato, anche in occasioni recenti, i loro limiti, e in ogni caso i confronti ri­schiano di essere materia di pura accade­mia: le relazioni tra mercati finanziari cd aziende fanno pane della cultura industriale di un paese, e questa non cambia che in modo lentissimo. Tuttavia, quanto a trasparenza e completezza delle informazio­ni, le aziende tedesche non sono general­mente dei modelli. Ha destato sensazione la sostanziale revisione dei bilanci e degli utili che ha dovuto fare un’azienda conte la Daimler quando ha voluto quotarsi a New York: una lezione per chi ancora cre­desse che quella di redigere i bilanci é atti­vità “scientifica” e che le fotografie die es­si forniscono sono “oggettive”.

Come ben si vede, si tocca qui un proble­ma centrale, quello di una politica industriale a livello europeo. Si é ben consci che quella di “politica industriale” é una locu­zione diventata desueta, che desta immediatamente diffidenza. In Italia in massimo grado, ma anche in Europa, si dovrà imparare a fare di nuovo politica industriale senza che questo componi rigurgiti statalistico-protezionisti, ma al contratto atti­vando le risorse dell’imprenditoria privata ed esponendola alla concorrenza mondiale. L’accordo riserva un ruolo non dì se­condo piano al management italiano: esso dovrà essere usato non solo a protezione del capitale umano e tecnologico dell’Ital­tel, ma anche per contribuire a far evolvere strategie e politiche del gruppo fuori dal­la logica perdente dei national champions. Noi qui, come si soleva dire, veniamo da lontano e l’allievo avrà certo molto da imparare: ma anche il maestro…

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