Il match pari tra economia e storia

settembre 8, 2010


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di Riccardo Sorrentino

Sembrava una questione superata. La crisi, che spinge a recuperare molti sentieri interrotti delle discipline economiche, ha però riproposto anche la polemica tra storia e teoria, che aveva animato il dibattito già a fine 800.

Suo animatore è stato Niall Ferguson, che fin dal libro “Soldi e potere nel mondo moderno. 1700-2000″ aveva in sostanza contestato lo schema storiografico – legato al nome di Karl Marx, ma in realtà figlio dell’illuminismo francese e scozzese – che, rischiando un po’ la caricatura, si può chiamare “determinismo economico”: l’idea che sia l’economia a condizionare società, diritto, politica e magari anche la cultura.
Ferguson è andato anche oltre.

«Anche un gatto può guardare in faccia a un re – ha scritto a maggio 2009 Ferguson, citando un proverbio inglese, nel corso di una lunga polemica con il Nobel Paul Krugman – e a volte uno storico può sfidare un economista». Il cuore della discussione era la possibile evoluzione della crisi alla luce di quanto è avvenuto negli anni 30.
Da allora il dibattito non si è placato, intrecciandosi con una più ampia contestazione della pretesa della macroeconomia di prevedere il futuro. Un compito ormai diventato anche prezioso, almeno per il breve termine, e che il padre del monetarismo Milton Friedman aveva posto al centro dell’attenzione per distinguere una buona da una cattiva teoria. Sottovalutando forse alcune obiezioni del filosofo Karl Popper sull’impossibilità, per le scienze sociali, di guardare nel futuro.

Il tema sulle previsioni è stato ora di nuovo raccolto da Gideon Rachman del Financial Times, che ha criticato l’invito di Joseph Stiglitz a trovare «un nuovo paradigma» in modo da restituire agli economisti il trono da cui la crisi li ha spodestati e, più in generale, la pretesa di poter costruire una scienza esatta come la fisica o la chimica. L’unica soluzione, secondo il giornalista, è la storia. La polemica potrebbe sembrare un po’ superficiale: gli economisti sanno bene di vivere nel tempo. «L’econometria – spiega Carlo Favero dell’Università Bocconi – si rende conto che le leggi da lei stimate sono diverse da quelle della fisica: i parametri, e anche le variabili, non sono stabili, variano. Riconosce quindi il problema e cerca di tener conto di questa instabilità strutturale dei parametri». L’economia quindi guarda oggi più alla meteorologia, o alla biologia evoluzionistica, discipline non a caso a loro agio con la complessità e l’idea di caos deterministico. Si è sicuramente resa conto di aver “semplificato troppo”: i modelli matematici che sono falliti, ricorda Favero, si erano dimenticati del ruolo del sistema bancario e di come questo risponda alla politica monetaria… La teoria tenta allora di elaborare analisi sempre più complesse. Fino agli studi di frontiera sugli agent-based model, in cui gli operatori economici e le loro interazioni – ridotte al minimo nei modelli macro oggi in voga (o, al contrario, contestati) – vengono moltiplicate usando le potenzialità dei computer e il rigore della matematica.

Per evitare le semplificazioni si torna insomma, e in modo nuovo, alla microeconomia (non toccata dalla crisi), e non senza motivo: «Una variabile “macro” non agisce mai direttamente su un’altra variabile “macro”, perché ogni azione avviene attraverso relazioni “micro”», spiega Richard Wagner della George Mason University in uno studio su Knut Wicksell; e questa è una considerazione metodologica che può insegnare molto agli stessi storici che a volte, in nome della sintesi o di un malinteso approccio qualitativo, immaginano relazioni poco fondate.

Storia e teoria economica non possono infatti che camminare insieme, invece di lottare per una malintesa “superiorità”: «Il laboratorio dell’economia è la storia – ricorda Gianni Toniolo, storico all’Università di Roma – Io userei entrambe le discipline per fare domande intelligenti, anche sul futuro». La storia non guarda avanti, «non è maestra di vita, serve piuttosto a porre problemi». È utile per avere una visione d’insieme, che manca, e a ricordare la complessità della realtà: «Gli economisti devono diventare molto più umili: ognuno di loro studia un piccolo angoletto di mondo», dice Toniolo. D’altra parte, continua, «nulla vieta che la scienza possa guardare anche al futuro». Purché si ricordi delle ipotesi avanzate, che ne vincolano i risultati.

Non si possono così sottovalutare – a meno di voler aderire a una forma di storicismo assoluto, à la Benedetto Croce – il ruolo importante che ha assunto la statistica economica (e non solo) nella storia, dopo che Fernand Braudel le ha aperto la porta. Almeno quando si affrontano fenomeni generali, e non eventi singoli o casuali. Molte regolarità sono state individuate, anche nei lunghi periodi. Si pensi, per fare un esempio che riguarda proprio le crisi, al libro di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart This Time is Different: Eight Centuries of Financial Folly. E la cliometria, l’approccio storiografico “quantitativo” di Robert Fogel e Douglass North, ha insegnato quanto sia utile l’integrazione tra le due discipline.
Gli economisti sembrano quindi in grado di resistere alla tentazione di sopravvalutarsi. Altri meno. Nel 2006, da poco uscito dalla Fed, Gregory Mankiw di Harvard aveva sottolineato quanto poco pratici fossero, per un “ingegnere dell’economia” quale pensava di essere stato da banchiere centrale, i modelli macroeconomici e quanto superiori fossero state le politiche… di Alan Greenspan, quelle stesse che poi hanno travolto l’economia, malgrado i mille allarmi di storici ed economisti. L’arroganza, qui, è doppia ed è politica: quella di immaginare una forma di engineering economico, e quella di non usare tutte le conoscenze a disposizione, che quella crisi avrebbero potuto evitare.

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