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Il governo del cambiamento non è caduto dal cielo. La sinistra d’opposizione e le sue colpe.

Pubblicato il 27/11/2018 @ 08:48 in Giornali,Il Foglio


Libertà dei mercati, in cui le lobby non la facciano da padroni; mobilità del lavoro e, invece della protezione ad infinitum di imprese decotte, spostamento di risorse da settori e imprese meno produttivi a quelli più produttivi; premi al merito per favorire la mobilità sociale; una tassazione che non penalizzi chi lavora; blocco dei trasferimenti a pioggia a questa o quella categoria che riesce ad alzare la voce più di altre. Dieci anni fa era alla sinistra che bisognava insegnare che liberalizzare fa bene all’economia, e non solo. “Il liberismo è di sinistra”, il libro di Alesina e Giavazzi del 2007, voleva dimostrare che le ricette liberali sono coerenti con i principi cardine della sinistra, anzi sono i soli che li possono inverare.

Il loro libro parlava alla sinistra. Degli elettori che per tre volte mi hanno mandato in Senato, alcuni lo fecero perché confidavano che io avrei seguito quelle indicazioni, altri perché invece si fidavano del partito: ma nessuno pensò che io avrei liberalizzato in quanto di sinistra.
Dieci anni dopo, Alesina e Giavazzi (Corriere della Sera, 19 Settembre 2018), ripropongono la loro tesi. A chi vogliono rivolgersi? A coloro che hanno votato per chi ora ci governa? Certo che in quel campo “la negazione del liberismo è evidente”. Ma i nostri autori sanno bene che non serve rendere evidente la contraddizione tra gli obiettivi che i gialloverdi professano di perseguire e le politiche che dovrebbero raggiungerli, anche a prescindere dal pressapochismo dilettantesco con cui cercano di implementarle. Perché quella che i loro immaginari interlocutori rifiutano è la logica che fa emergere questa contraddizione, la logica delle forze impersonali dell’economia, regolarmente trasfigurata in una cospirazione degli gnomi di Zurigo o simili; logica pagante, perché le forze impersonali dell’economia o non piacciono o non sono comprese.

Neppure avranno pensato di rivolgersi alla sinistra per la presunta affinità tra M5S e una qualche sinistra, e per l’ipotesi di un governo in cui questa valesse a riportare il Movimento nei binari della logica di governo e a mantenerli nella prassi della democrazia, ipotesi di cui quanto è avvenuto in questi mesi è valso a dimostrare l’assoluta inconsistenza. Quando sono in molti a pensare che sia impossibile arrestare le colonne dei lemming verso le rocce della Norvegia, ha senso, addirittura è possibile rivolgersi solo alla sinistra e non anche alla destra? E questo non per ovvie ragioni quantitative, e neppure perché è dubbio che sia ancora possibile, nell’epoca del sovranismo – populismo, leggere la società secondo il cleavage destra – sinistra. Innanzitutto non è affatto scontato che la destra non abbia altrettanto bisogno di una lezione liberista. Ma soprattutto è diventato drammaticamente evidente che la sinistra ha una difficoltà in più rispetto alla destra ad accettare un programma di liberalizzazioni, una difficoltà che direi ontologica. Era ancora sottotraccia 10 anni fa, si è ingigantita, è dilagata e ora occupa il centro della scena politica: la richiesta di protezione. Liberalizzare è cambiare, il cambiamento genera incertezza, e non si può proporre incertezza a chi chiede protezione. La sola condizione perché la proposta possa essere accettata è associare al merito una politica di sicurezza che, per rendere l’idea, direi salviniana.

Alesina e Giavazzi si rivolgono esplicitamente agli elettori del PD: e questo è fonte di ulteriori problemi. Anche se questa non è l’unica opposizione – quel che resta di Forza Italia lo fa meglio e sulle cose -, anche se il PD fa opposizione accusando il governo di non realizzare le sue promesse come se fossero realizzabili e non denunciandolo perché sono sbagliate, certo che (quello che resta de) la sua organizzazione è comunque una risorsa preziosa. Ma che un PD compattamente (e già questo suona ottimistico) deciso a “costruire un programma liberista” sia il germoglio da cui può nascere un’opposizione in grado di contendere il governo del Paese all’attuale alleanza sovranista – populista, appare per più ragioni impossibile. Non solo per una questione di dimensioni, perché ci sono casi, anche recenti, di crescite travolgenti; e neppure per una questione di cultura e di immagine, che potrebbero anche dare un contributo positivo. Ma per una ragione di fondo che rende questa prospettiva impossibile, una ragione ostativa: i governi di sinistra hanno fatto gli stessi errori che rimproveriamo al governo del “contratto”. Gli stessi non nella misura, in generale molto minore, ma che hanno spianato la strada a chi è venuto dopo. E questo rende non credibili proposte che, al punto in cui siam giunti, devono essere di una diversità non incrementale, ma radicale. Alcuni esempi.

Politica europea. Molti di quelli che diventeranno gli assi portanti della politica antieuropea dei gialloverdi sono stati usati da Renzi stesso. Dalla “pazza idea” , nel gennaio 2016, di riuscire a rinegoziare il trattato che prevede il fiscal compact (Claudio Cerasa, il Foglio 9 Gennaio 2016); al “ fallimento dell’austerity” e alle accuse alla Germania per lo squilibrio delle partite correnti, come se esso fosse pari e patta con lo squilibrio del nostro debito (Maria Luisa Meli, Corriere della Sera, 17settembre 2016); alla sfida, già lanciata da premier (discorso alla Camera, 19 Marzo 2014), vergata di suo pugno tre anni dopo (Sole 24 Ore, 9 luglio 2017), di fare un deficit del 2,9% per cinque anni. Ottenne flessibilità, ma andò in spesa corrente anziché in investimenti per la crescita. E così il maligno trovò il terreno dissodato quando di notte venne a seminar la zizzania. Come si è letto ieri, è proprio il debt report from the Commission a delineare la continuità di politica fiscale tra quella accomodante degli anni renziani e quella prevista dal 2019 in poi.

“Politica industriale”. Sulla banda ultralarga Renzi in persona ha: primo, scelto una tecnologia, FTTH, per dare a tutti i 30 Mb definiti da Bruxelles; secondo, finanziato l’offerta di connessione nelle zone “a fallimento di mercato”; terzo, indotto Enel a installare e CDP a co-finanziare una rete pubblica. E’ stato poi con Gentiloni premier e Calenda ministro dello sviluppo che CDP ha acquistato il 4,5% di TIM, intervenendo nella proxy fight di un’azienda sua concorrente, per giunta quotata, e così fornire a Elliott i numeri per scalzare Vivendi. Qui non è più solo un campo dissodato, sono una strategia e gli strumenti per realizzarla che sono stati predisposti e consegnati al governo sovranista per l’esecuzione. Esecuzione in senso letterale, perché TIM senza rete sarà solo più una rete commerciale, disponibile nel consolidamento di mercato che AGCom vorrà consentire. E’ poi sempre con Gentiloni e Calenda che si è deciso di non cogliere le occasioni – che pur c’erano- di risolvere la vicenda Alitalia, offrendo così a Matteo Salvini gli argomenti retorici per avvolgersi nella bandiera dando alla compagnia il compito di convogliare i turisti stranieri (e la licenza di continuare a drenare i risparmi dei connazionali).

E poi c’è quella che Claudio Cerasa chiama “la sinistra incapace di uscire dal Novecento”.
Pur dando il rituale riconoscimento alla formale alterità e reciproca indipendenza tra sinistra sindacale e sinistra politica, la sostanziale consonanza e l’effettiva convergenza sono di antica data e di palmare evidenza. Vanno quindi rivolte anche alla sinistra politica gli interrogativi che Claudio Cerasa pone alla sinistra sindacale (La sinistra sindacale ha un eroe, si chiama Salvini, 19 Novembre 2018): se essa abbia la legittimità per addossare solo a governo e maggioranza l’avere dato il via a una legge sul lavoro che abolisce il Jobs Act, o in tema di modifica della legge Fornero, di delocalizzazioni, di nazionalizzazioni, di assistenzialismo, di euro, di spesa pubblica in deficit.

Nessuna intenzione di entrare nella contesa in corso nel PD per la segreteria, e neppure nelle discussioni se sia il PD il nucleo adatto per aggregare quanti possono essere convinti che liberalizzare sia bene per il Paese. Le storie e il potere evocativo dei nomi, di persone e di partiti, possono sospingere o appesantire. Non si tratta di pretendere facili autocritiche o superficiali abiure, solo per evitare di vedersi rinfacciare dagli avversari passati imbarazzanti. E’ necessario essere intimamente convinti che quello che contrastiamo e contestiamo a Lega e 5Stelle non sono solo virgulti da tagliare, ma che questi hanno radici, ed è lì che bisogna risalire, alle biforcazioni ideologiche, alle dimenticanze colpevoli, agli sbagli strategici. Vengono di lì le fioriture del populismo e del sovranismo. Sono nostre, e nessuno può chiamarsi fuori.




Ecco il liberismo che serve ai deboli
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera, 16 novembre 2018

Un tempo «sinistra» e «popolo» erano sinonimi. Oggi non più. La parola «popolo» è stata fatta propria dai populisti, di destra e di sinistra, in realtà indistinguibili. La domanda però rimane quella che ponevamo dieci anni fa alla sinistra in un libretto intitolato «Il liberismo è di sinistra» (Il Saggiatore). Secondo noi il liberismo è certamente «di sinistra» se per sinistra si intende crescita per ridurre la povertà senza eccessive diseguaglianze, mobilità sociale, attenzione ai più deboli e abolizione di privilegi immeritati. Questa è la riflessione dalla quale dovrebbe partire una forza come il Pd nel momento in cui si avvia verso il proprio congresso. Se per «sinistra» si intende attenzione ai più deboli e all’equità, allora mercati liberi in cui le lobby non la fanno da padroni sono certamente di sinistra. È di sinistra anche favorire lo spostamento di risorse da settori e imprese meno produttive a quelle più produttive per aumentare «la torta», cioè il Pil poi da dividere più equamente, mentre non è di «sinistra» proteggere ad infinitum imprese decotte. Liberalizzare il mercato del lavoro per favorire la mobilità verso la parte più produttiva del Paese, e quindi verso salari più elevati, è «di sinistra». Premiare il merito (e punire il demerito) per favorire la mobilità sociale è «di sinistra». Cercare di offrire pari opportunità il più possibile senza penalizzare chi lavora con una tassazione asfissiante è «di sinistra». Anche bloccare i trasferimenti a pioggia a questa o quella categoria che riesce ad alzare la voce più di altre e «di sinistra».
Nel campo dei populisti invece la negazione del liberismo è evidente. In Italia, ad esempio, Lega e Movimento 5 Stelle dimostrano una fiducia sconfinata nella capacità dello Stato di risolvere tutti i problemi, dalla costruzione delle infrastrutture all’offerta di servizi pubblici locali. Al punto di adoperarsi per vanificare le norme esistenti volte a ridurre il numero delle circa 10.000 aziende pubbliche locali; mantenendo in vita aziende pubbliche prive di dipendenti, con un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti e persino quelle che hanno avuto un risultato negativo per quattro dei cinque anni precedenti.
«Non preoccupatevi», ha detto Di Maio, «aziende come Eni, Enel, Enav non andranno in mani private. Nel nostro piano di dismissioni sono stati previsti solo immobili e beni di secondaria importanza». Un altro esempio è la decisione di riportare in vita la cassa integrazione, un meccanismo che illude i lavoratori che un’impresa che non ha futuro possa ancora garantire loro un impiego, e nel frattempo fa perdere opportunità. E ancora: un continuo trasferimento di risorse dai giovani agli anziani, attraverso pensioni e debito, senza parlare delle pulsioni sovraniste e del rifiuto della globalizzazione.
Se si hanno davvero a cuore le sorti dei più deboli si lasci ai populisti il rifiuto della globalizzazione, le tariffe, l’arroccamento entro i propri confini, la supponenza sovranista stile l’«America First» di Trump. La crescita del commercio internazionale ha ridotto come non mai la povertà nel mondo. La proporzione di persone che vive con meno di 2 dollari al giorno è scesa dal 60% per cento negli anni 80 a meno del 40 per cento oggi, un miglioramento mai visto prima. La diseguaglianza nel mondo è scesa enormemente perché i Paesi più poveri, inclusi quelli africani, sono cresciuti più di quelli ricchi ed hanno recuperato un po’ delle enormi differenze. Sarebbe di sinistra ricacciare questi poveri nella miseria? Certo la globalizzazione ha creato problemi di aggiustamento nei Paesi ricchi, ma questi hanno le risorse per compensare i perdenti facilitando le trasformazioni necessarie, senza chiudersi in se stessi. 
Aiuta forse i più deboli moltiplicare leggi, leggine e regolamenti che hanno il solo scopo di proteggere questa o quella categoria avvantaggiando gli imprenditori più abili nell’aggirarsi nei ministeri? È forse dalla parte dei più deboli tassare sempre di più i giovani per finanziare pensioni sempre più generose per gli anziani? È forse dalla parte dei più deboli lasciare un debito enorme ai nostri figli e nipoti? È forse dalla parte dei più deboli tassare chi produce, lavoratori e imprenditori, per sostenere uno stato sociale che scoraggia a trovare un lavoro (tranne nell’economia sommersa) chi il lavoro non l’ha? È forse dalla parte dei più deboli spendere denaro pubblico per sussidi a pioggia a chi non lavora invece che per mettere in sicurezza scuole fatiscenti? È forse dalla parte dei più deboli pagare tutti gli impiegati pubblici allo stesso modo indipendentemente dal costo della vita nella regione in cui vivono, della loro professionalità e del loro impegno? È forse dalla parte dei più deboli pagare uno scienziato trentenne in traiettoria per il premio Nobel meno di un professore sessantenne che non pubblica da decenni, solo perché quest’ultimo ha accumulato più anni di anzianità?
A noi pare che la risposta a tutte queste domande sia «no». Ma allora chi vuole difendere i più deboli e per questo si ritiene di sinistra, il Pd, è a un bivio. Una strada è quella di rincorrere i populisti facendo loro concorrenza sul medesimo terreno. L’altra è quella di costruire un programma liberista. La prima strada potrebbe dare qualche vantaggio nel breve periodo. Ma si trasformerà in un fallimento quando il populismo si infrangerà, da noi e altrove, contro il muro dei suoi errori. Speriamo che accada prima che il populismo consumi in pieno i suoi fallimenti, come è accaduto tante volte in Sud America. La seconda strada non sarà facile nel breve periodo, ma sarà vincente con un po’ di pazienza. Purtroppo questa non è una virtù dei politici.




La sinistra del Medioevo ha un inconfessabile eroe: si chiama Salvini
di Claudio Cerasa, Il Foglio – 19 novembre 2018

Matteo Salvini lo ripete spesso. Lo ha ripetuto il 13 novembre, dicendo che “da sinistra mi dicono che sono troppo cattivo”. Lo ha ripetuto il 12 novembre, dicendo che se “da sinistra mi attaccano con cortei e insulti è segno che siamo sulla strada giusta”. Lo ha ripetuto il 10 novembre, dicendo che mentre “sinistri e centri a-sociali sanno solo odiare e insultare, le persone normali mi dicono di andare avanti!”. E poi lo ha ripetuto negli ultimi mesi, solo sui social, il 7 novembre, il 6 novembre, il 4 novembre, il primo novembre, il 29 ottobre, il 28 ottobre, il 23 ottobre, il 22 ottobre, il 6 ottobre, il 7 ottobre, il 6 ottobre. “Come rosicano a sinistra per la fiducia degli italiani in me”. “Cari criticoni, professoroni e giornalisti di sinistra, me ne frego dei vostri insulti, penso agli italiani e continuo a lavorare!”. “Gli italiani non si bevono più le panzane della sinistra”. “Ma quanto rosicano a sinistra?”. “Dopo le chiacchiere della sinistra, il nostro è il governo che aiuta davvero gli imprenditori”. E così via. Sinistra, sinistra, sinistra, sinistra. Matteo Salvini, lo avrete capito, agita la parola “sinistra” non per criticare semplicemente il Pd, ma per rafforzare l’idea che la presenza della Lega al governo sia in fondo l’unico argine esistente in Italia per evitare un possibile ritorno dei neo comunisti al governo.

In verità la sinistra veterocomunista di cui parla Salvini fatica a dare grandi prove di vitalità – nei sondaggi Leu è stato superato anche da Potere al popolo – ma il ragionamento che vi vogliamo offrire oggi prende spunto da un problema che riguarda un paradosso inconfessabile di cui è protagonista il leader della Lega: la dissimulazione di un tratto importante della sua identità, che al fondo è un’identità in cui è presente in modo copioso quella sinistra che vorrebbe combattere. Spesso l’abbinamento tra la parola “Salvini” e la parola “sinistra” viene utilizzato per ricordare i trascorsi del Truce al Leoncavallo di Milano. Ma in verità il tema è più sottile e la narrazione salviniana relativa all’urgenza di bloccare la sinistra in Italia presenta un punto di debolezza che riguarda un dato difficile da ammettere sia per chi si sente oggi rappresentato dalla parola “Lega” sia per chi si sente oggi rappresentato dalla parola “Sinistra”. Il dato è questo: per quanto possa sembrare difficile da credere, se mettiamo da parte il tema dell’immigrazione e della sicurezza, il nemico giurato della sinistra che non c’è, ovvero il nostro Truce, è diventato il politico che in Italia è riuscito a far proprie alcune delle battaglie più importanti portate avanti nel passato dalla sinistra incapace di uscire dal Novecento. E non è un caso che quel piccolo pezzo di sinistra ancora legato alla cultura sindacale, compresa Susanna Camusso, compreso Maurizio Landini, oggi sia incapace di criticare la Lega quando parla di economia.

In fondo pensateci bene. Può davvero la sinistra sindacale rimproverare Salvini per aver fatto saltare i conti dell’Italia intervenendo sull’età pensionabile? Impossibile: quando la Cgil presentò le sue firme per abrogare la legge Fornero lo fece andando a braccetto proprio con Matteo Salvini. Può davvero la sinistra sindacale rimproverare per aver dato il via a una legge sul lavoro che ha cominciato a distruggere posti di lavoro? Impossibile: l’abolizione del Jobs Act è da anni una priorità tanto della Lega quanto della Cgil e basta ricordare cosa successe nel gennaio del 2017 quando la Corte costituzionale dichiarò inammissibile il quesito del referendum sull’articolo 18. Ricordate? Vi rinfreschiamo la memoria. Prima dichiarazione: “Dalla Consulta una sentenza politica, gradita ai poteri forti e al governo, come quando bocciò il referendum sulla legge Fornero”. Seconda dichiarazione: “E’ stato dato per scontato l’intervento del governo e dell’Avvocatura dello stato, non era dovuto, è stata una scelta politica”. La prima dichiarazione è di Matteo Salvini, la seconda dichiarazione è di Susanna Camusso, ma il fatto che le parole dei due siano in sostanza intercambiabili ci fa capire bene la dimensione della questione e della svolta della Lega se pensate per esempio al semplice fatto che quando l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati riempì il Circo Massimo in difesa dell’articolo 18 il ministro del Lavoro all’epoca era il leghista Roberto Maroni. Le pensioni e il lavoro non sono però gli unici temi sui quali esistono sovrapposizioni tra la sinistra medievale, che Salvini sostiene di combattere, e lo stesso Salvini, che la sinistra medievale sostiene di combattere.

C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di delocalizzazioni? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di nazionalizzazioni? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di assistenzialismo? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di euro? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di politiche della spesa? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla di politiche in deficit? C’è davvero una differenza tra la linea della Lega e quella della Cgil quando si parla del giusto ruolo che dovrebbe ricoprire una “moderna” Cassa depositi e prestiti?
Nella bella chiacchierata tra Giuliano Da Empoli e Steve Bannon pubblicata qualche settimana fa sul Foglio, l’ex braccio destro di Donald Trump ha offerto ai nostri lettori un punto utile su cui riflettere. Giuliano Da Empoli ha chiesto a Bannon come vede il futuro della politica in America, se vede un fronte populista che si divide in due, la destra dei Trump e dei Salvini contro la sinistra dei Sanders e dei grillini, o se vede invece un bipolarismo tra populisti uniti da un lato e globalisti dall’altro. Risposta di Bannon: “Qui torniamo alla ragione per la quale l’Italia è il centro di tutto. Da voi i populisti di destra e quelli di sinistra hanno accettato di mettere da parte le loro differenze e di unirsi per restituire il potere al popolo italiano contro i poteri stranieri che l’avevano usurpato. Se funziona in Italia, può funzionare dappertutto, per questo siete il futuro della politica mondiale. Il modello è questo, al cento per cento: sovranisti contro globalisti”. Quello che anche un pezzo di sinistra moderna non riesce ad ammettere fino in fondo è che il governo del cambiamento oggi è rappresentato da due partiti che non possono essere definiti in nessun modo, come abbiamo spesso ricordato sulle colonne di questo giornale, come il simbolo di una “nuova destra” da combattere a tutti i costi, ma che sono qualcosa di molto più complicato, qualcosa di molto più profondo, qualcosa di molto più pericoloso di un semplice governo di estrema destra. Non è così e non può essere così. C’è molta sinistra medievale e giustizialista nel Movimento 5 stelle e c’è molta sinistra medievale e sindacalista nella Lega di Salvini. E se è vero quello che dice Bannon, ovvero che “i populisti di destra e quelli di sinistra hanno accettato di mettere da parte le loro differenze e di unirsi”, e se non può essere solo un caso che in Francia a tifare per il governo Salvini e Di Maio siano contemporaneamente Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen, forse sarebbe il caso finalmente di capire che chiunque voglia costruire una buona opposizione al governo dell’estremismo più che del cambiamento dovrebbe partire da qui, dalle nuove coordinate della politica, e dovrebbe avere il coraggio di dire alcune cose chiare. Che Salvini ha tradito il nord che aveva scommesso su Salvini e che quel nord bisogna avere la forza di rappresentarlo archiviando per sempre le politiche assistenzialiste. Che Salvini ha tradito gli elettori di centrodestra facendo proprie le battaglie dei sindacati, e dimenticando le battaglie liberali sulle tasse, solo per ottenere un po’ di campo libero sul tema della sicurezza.
Il prossimo Congresso del Pd e forse anche il prossimo giro di valzer della Cgil, più che pensare a come rappresentare la nuova sinistra, dovrebbero essere in grado di partire da qui. Dall’urgenza di trovare un messaggio nuovo per occupare con forza lo spazio creato dalle nuove coordinate della politica italiana. C’è un nuovo bipolarismo in Italia. Gli sciocchi pensano che sia quello che esiste oggi tra i due azionisti del governo. I meno sciocchi capiscono invece che il bipolarismo del futuro è quello che può nascere tra le idee di chi oggi si trova al governo e quelle di chi un domani riuscirà a trasformare dall’opposizione la nuova divisione del mondo non in un punto di debolezza ma finalmente in un punto di forza. Lo spazio c’è, il tempo pure, l’occasione è ghiotta, l’autostrada è libera, il partito della fuffa potrebbe essere costretto a fare i conti con il partito dei fatti prima di quanto si possa credere, ma nulla di tutto questo sarà possibile se gli oppositori di Salvini non diranno la verità sul governo del cambiamento: non è il peggio della destra, ma è il peggio dell’estremismo, e in quell’estremismo c’è anche il peggio della sinistra.

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