Il futuro dell’informazione non è un gioco d’azzardo

maggio 30, 1995


Pubblicato In: Varie


Ed ora, i referendum, dopo le elezioni regionali e prima di quelle generali. I referendum (e mi riferisco a quelli sulla TV) hanno valenze politiche ancora maggiori: direttamente perché toccano il cuore degli avvenimenti che hanno tenuto la scena nell’ultimo anno e mezzo; indirettamente perché influen­zeranno l’assetto del sistema delle comunicazioni in Italia. L’informazione è potere e la politica è comunicazione, da ben prima che esistesse la TV. Berlusconi è diventato un leader politi­co perché ha le televisioni. Forse per proteggere il suo impero televisivo, certo perché solo il possesso di un grande strumento di comunicazione di massa rendeva possibile aggregare un consenso tale da entrare in competizio­ne con partiti organizzati da anni su tutto il territorio nazionale.

Comunque si vogliano giudicare gli esiti, le promesse e i pericoli della “discesa in campo”, è indubbio che senza Berlusconi il quadro politico oggi sarebbe ancor più somigliante ad una riedizione della prima repubblica: e senza il controllo della TV questo cambiamento non sarebbe stato possi­bile. Ma lo strumento televisione da necessario (per prendere i voti) è diventato a un certo punto contropro­ducente (per governare).

Questo era il problema politico princi­pale che Berlusconi doveva affrontare: consolidare il potere, o governare? Il potere televisivo come strumento ecce­zionale, o come passaggio alla telecra­zia? Conosciamo la risposta di Berlusconi: mantenere il proprio impe­ro TV, anzi usarlo per completare l’oc­cupazione del potere.

“Venda le sue TV…” così consigliai a Berlusconi sin dal mio primo intervento al Senato, quello sulla fiducia al suo governo. La mancata soluzione del problema del conflitto di interessi gli ha procurato cali di credibilità e diffi­denze in campo internazionale, l’ha indotto ad ambiguità ed errori in quello nazionale. La sua reputazione di uomo del fare e del decidere ne è uscita fortemente scalfita: prima ha invocato la normale garanzia delle istituzioni, poi ha incaricato i saggi di una proposta fatta cadere nel dimenticatoio, poi ha sostenuto di aver deciso di vendere una quota, o di mettere in Borsa le sue aziende. Il “capolavoro” è stato l’incre­dibile proposta di un accordo Fininvest, Stet e Telecom.

E anche questo in modo ambiguo: solo per vendere gli impianti? O per vende­re tutto? O per scambiare Fininvest con una posizione importante nel nucleo duro di Stet privatizzata? (Evento che sembrò a molti un paradosso quando lo previdi, ben 8 mesi fa). E adesso la decisione (definitiva?) di giocarsi tutto sui referendum. Con buona pace di quelli che vorrebbero che problemi come il conflitto di interessi, la compa­tibilità tra proprietà TV e cariche di governo, l’assetto della TV via etere e di quella futura via cavo e via satellite, la privatizzazione della RAI, i rapporti tra le TV e le telecomunicazioni liberalizzate, non venissero risolti con un giro di roulette, ma progettando sere­namente il futuro del paese. Quelli che non vogliono mortificare (ed ancor meno punire) l’iniziativa privata di cui anzi si avrà grande necessità, pur rico­noscendo che solo l’orologio dei refe­rendum sembra sia stato capace di accelerare il processo, dubitano che la scure referendaria sia idonea a risolve­re problemi così complessi.

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