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Il film di Amelio falsifica la storia

Pubblicato il 01/11/1998 @ 10:55 in Varie


Il cortile di palazzo Paesana di Torino è il protagonista di un breve episodio di “Così ridevano”, il film di Gianni Amelio premiato con il Leone d’Oro a Venezia. Un pugliese appena sceso dal treno del Sud vaga per la città alla ricerca dei parenti, la moglie un passo indietro, un figlio per mano e uno in braccio: «qui deve abitare il padrone di Torino, esclama ingenuo ed estatico. Nel bel palazzo di Gian Giacomo Plantery giunge per caso, le indicazioni per orientarsi nella città sono indecifrabili. Il cortile è vuoto, Torino si offre passivamente, ha sistemato la sua storia sotto un lindo restauro: ma nel palazzo non abita nessuno.

Con la grande immigrazione degli anni 60 – sembra volerci dire Amelio la cultura del Sud contadino e borbonico si è incontrata con quella del Piemonte industriale e sabaudo, ma l’incontro è stato sterile di frutti, nessuna delle due si è veramente arricchita. L’una resta con le sue piccole furberie, l’altra con la sua sostanziale ottusità. «Dovevamo aspettare tanto per un capellone?: il padre della torinese scipita e sciupata che Giovanni finisce per sposare, gli dà figlia e campi ma non ne capisce la cultura, si rifugia nella banalità del luogo comune: brava gente, cristiani come noi.
Perfino la scuola è luogo non di socializzazione, ma di inganno: Pietro, il fratello minore, all’esame ripete pappagallescamente, si pavoneggia infantile: e gli esaminatori sorridono indulgenti. L’esame è stato comprato, ma allievo e professori sembrano averlo dimenticato, o forse davvero non lo sanno più, per entrambi la cultura é meccanica ripetizione, l’inganno è sostanza di vita.
Lo studio è memorizzazione, non si elabora in memoria: logicamente per Pietro la poetica del fanciullino consiste nella trasposizione dei ricordi del fanciullo.
Più che integrare, Torino avrebbe inglobato l’ondata migratoria degli anni ’60: tesi discutibile. eppure non priva di interesse, che sarebbe valso la pena approfondire. Dopo appena una generazione. sono un ricordo i conflitti, le incomprensioni, le discriminazioni, le crudeltà di quegli anni; ma insieme ai conflitti pare essersi allentata anche la tensione intellettuale, Torino sembra culturalmente meno viva di allora. L’immigrazione ha reso possibile una stagione di crescita economica impetuosa: ma la scolarità degli operai di Mirafiori e Rivalta resta tanto bassa che la Fiat le sue fabbriche moderne va a farle altrove.
Ma questa non diventa la tesi del film, il “dialogo impossibile” tra il palazzo e l’immigrato resta un episodio, l’attonita luminosità in cui si svolge resta un’eccezione; nel film prevalgono gli interni scuri, le scene notturne, in una Torino battuta dalla pioggia, oppressa da un’umidità corrosiva che ricorda la Los Angeles di Biade Runner.
Amelio punta diritto ad una tesi più radicale, più frequentata. Nel film la lotta di classe finisce in un drammone rusticano (Giovanni uccide per liberare la sua donna dal protettore): analogamente l’analisi della cultura meridionale a cui appoggia la sua storia è quella del familismo amorale già descritta da Banfield. Una cultura arcaica che non conosce l’autorità, che non riconosce la legge: manca la figura paterna, i due fratelli ne surrogano entrambi l’assenza, i loro abbracci sono incestuosi.
Una cultura proiettiva, che non riconosce l’alterità dell’altro. I due fratelli sono in realtà la stessa persona: hanno la stessa donna, si incolpano dello stesso omicidio, quando Pietro lascia cadere i libri, è Giovanni che li raccoglie e se li porta appresso.
Una cultura senza capacità relazionale: quando i due fratelli salgono per caso sullo stesso tram vuoto, non si vedono e non si riconoscono. Anche il desiderio, alla fine, di spiegarsi, di parlarsi, è solo velleitario: Giovanni si è integrato e perde il treno del sud; per Pietro la presa di coscienza coincide con il silenzio con cui si avvia al suo destino senza speranze.
In una parola, una cultura mafiosa. Giovanni rifugge dallo “sfruttamento” del lavoro organizzato nella fabbrica, diventa lui sfruttatore dei suoi conterranei, prima con il piccolo strozzinaggio poi col caporalato organizzato. E quando uccide per “motivi d’onore”, tocca al fratello incolparsi del delitto, in quanto minorenne.
Il riscatto non è possibile. Si può trascendere la propria condizione materiale, ma non si riesce a fare i conti con il passato, si perde solo la propria identità, dal volto di Giovanni, sistemato e sposato, finiscono per sfumare i caratteri magrebini. E se, come in Pietro, si perviene alla presa di coscienza, questa coincide con il silenzio e la morte.
Torino in quegli anni ha conosciuto il razzismo, la discriminazione nel lavoro e nelle case; i letti affittati a turno, sei in una stanza; le fatiche di un lavoro durissimo e le sofferenze della lontananza. Le scene iniziali del film, che raccontano questa realtà hanno il tono della verità, seppure straziante. Ma se davvero le frodi, i furti, la prostituzione, il caporalato su larga scala, i delitti e la mafia fossero stati non fenomeni risolti ma la realtà dominante dell’immigrazione, se la cultura mafiosa avesse regolato la vita degli immigrati e i rapporti con le genti del Nord, non si spiegherebbe perché questi fenomeni non si sono
radicati e diffusi, perché nel giro di una generazione a Torino il razzismo verso i meridionali è praticamente inesistente, confinato nella ripetizione di stanche battute: “come fanno a starci quattro elefanti in una 600?”
La Torino di quegli anni non è uno sfondo qualsiasi alla storia di due fratelli siciliani immigrati: tra le vicende di Giovanni e Pietro e Torino negli anni 60 i rimandi sono continui, insistiti, emblematici. .Si prenda la scena della mensa in fabbrica, gli operai stilizzati, ordinatissimi nelle loro tute blu immacolate. O quella della manifestazione sindacale, con la bandiera rossa a sfiorare il volto di Giovanni, che la scosta infastidito.
Resta così senza risposta l’interrogativo di fondo. Se, come è evidente, Amelio non esita a ricorrere ai più scontati stereotipi razzisti, ad evidenti deformazioni della realtà storica, in nome di che cosa lo fa?
La spiegazione “di sinistra” per cui solo la fabbrica poteva essere il luogo il cui il mezzogiorno apprendeva insieme la cultura materiale dal lavoro organizzato e la cultura politica della lotta di classe, resta un’allusione, confinata in episodi marginali.
La spiegazione “francofortese” allora, il rifiuto della società della produzione intensiva e dei consumi di massa, così radicale da negarne in radice tutti gli esiti, fossero pure quelli di un’integrazione appiattita verso il basso, ma comunque con un basso livello di conflittualità? Un po’ datato, anno 1998.
L’immigrazione meridionale come metafora di quella extra-comunitaria, questa sì con il suo carico di criminalità organizzata, di sfruttamento e di delitti? Ma i due fenomeni sono radicalmente diversi: diversa è la rilevanza quantitativa della dimensione criminale nell’immigrazione magrebina. L’immigrazione meridionale è stata richiamata da un’economia basata sulla produzione industriale, quella extra-comunitaria preme su un’economia che si sta terziarizzando. Diverso è il percorso dell’integrazione possibile tra le culture: facile arrivare a considerare anche loro -Brava gente” da far lavorare; quasi impossibile dargli in sposa la figlia. “Cristiani come noi”? c’è un abisso tra l’islam e un cattolicesimo barocco e bigotto, tra il chador e uno scialle nero.
L’interrogativo resta senza risposta. Eppure, in un film così chiaramente emblematico, la questione dell’adeguatezza dei simboli diventa essenziale. Tanto essenziale che da storico – politica diventa estetica. Per leggere in un modo nuovo i drammi delle integrazioni passate, o per guardare con occhi nuovi le difficoltà di quelle a venire, falsificare in modo così evidente la storia non serve. Alla fine, a suonare falsa é anche la parabola di Giovanni e Pietro.

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