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Il feticcio dell’unità nazionale può far male a banche e assicurazioni

Pubblicato il 03/08/2011 @ 09:00 in Giornali,Il Foglio


Orgoglio e pregiudizio, ingannevoli filtri consolatori. Per orgoglio nazionalistico abbiamo rifiutato vendite a soggetti esteri con cui si sarebbe salvato qualcosa: Tirrenia ieri, Alitalia l’altrieri. Per pregiudizio, se qualcuno vuole prendere partecipazioni di rilievo in aziende che consideriamo pilastri della nostra economia, non può che essere per sottrarcele. Ci si accorge che, con questi prezzi in Borsa, mettendo sul tavolo cifre relativamente modeste, si possono acquisire partecipazioni che consentano l’effettivo controllo in grandi banche e assicurazioni italiane, e suona il grido di allarme: attenzione, e se a farlo fossero grandi istituzioni finanziarie straniere? Questo è il pericolo paventato da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera e non solo. Ma esiste davvero? Soprattutto, sarebbe un pericolo?

Facciamo il caso di Unicredito e Generali. Capitalizzano rispettivamente 24 e 20 miliardi; ad assicurare la stabilità del controllo sono, nella banca le Fondazioni, nell’assicurazione Mediobanca più azionisti privati, in entrambi i casi con circa il 15 per cento del capitale. Un soggetto straniero, per esempio un istituto di credito come Deutsche Bank in un caso, un’assicurazione come Axa nell’altro, acquisendo un 15 per cento resterebbero sotto quota Opa (Offerta pubblica d’acquisto che da noi, come quasi ovunque, è posta al 30 per cento) e partendo da lì potrebbero procedere a integrazioni, facendo perdere il controllo agli attuali soci di riferimento. In primo luogo, la cosa non è così semplice: se passasse di mano il 15 per cento del capitale i prezzi salirebbero e l’operazione diventerebbe più costosa; il risultato, quanto a effetti sulla governance, resterebbe incerto. Non parliamo poi di operazioni volte a spogliare l’azienda italiana della sue parti migliori: se mai queste fossero le intenzioni (e non si vede perché), si configurerebbero come trattative con parte correlata, che devono essere approvata dai consiglieri indipendenti o dall’assemblea. Ma soprattutto: perché ad acquistare una quota strategica non è (già stato) qualcun altro, italiano o straniero? Evidentemente perché non c’è nessuno che pensa di avere la capacità di gestire meglio. E qui siamo al punto. Dunque: le operazioni immaginate costerebbero molto di più di quanto si dice, non consentirebbero di spogliare la preda, sarebbero quindi giustificate solo da sinergie vere. Dire che questo è un pericolo, significa quindi dire che è preferibile accettare una performance peggiore di quanto possibile pur di mantenere in Piazzetta Cuccia il controllo dell’assicurazione e in Via Monte di Pietà quello della banca. Ricordiamo che i problemi di governance delle Generali riempiono le pagine dei giornali, e non solo quelle economiche, da più di un decennio; che Unicredito ha dovuto sostituire il proprio ad.
Fatti avvenuti anche in periodi in cui lo spread dei titoli italiani sui Bund non arrivava a 100 punti base, e proprio perché l’attuale struttura proprietaria è considerata modificabile solo con manovre bizantine. Il pericolo vero è, paradossalmente, l’opposto. E cioè che le Deutsche Bank e le Axa del caso ritengano che gli intrecci a sostegno degli attuali assetti di governance siano talmente solidi e inestricabili, da rendere improbabile riuscire a fare adottare anche da noi le scelte strategiche e le pratiche gestionali che in un mercato aperto danno migliori risultati, e che quindi considerino troppo azzardato investire soldi per cercare di modificarli. Così noi continuiamo a tenerci aziende con performance peggiori di quanto sarebbe possibile. A volte è il primo passo perché divengano inferiori a quanto è tollerabile.

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