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Il dilemma Rai: privata o lottizzata?

Pubblicato il 14/07/2000 @ 13:19 in Giornali,Il Sole 24 Ore


L’unica ragione per mantenere la manopubblica sulla tv di Stato è garantire il controllo politico

La proverbiale attenzione che il Presidente dell’Autorità per la Garanzia delle Comunicazioni — professor Enzo Cheli — ha per le pre­rogative del Parlamento, ha fatto sì che nella relazione dí ieri nulla si dicesse sugli interventi legislativi in corso. Neppure un accenno quindi ad un tema assolutamente centrale, quale quello della proprietà della Rai, tema che la liquidazione dell’Iri e l’approssimarsi della fine della legislatura riportano in primo piano. Questo giornale ha già ospitato un testo di Antonio Pilati sulle ragioni economiche per procedere verso la totale privatizzazione (4 luglio); e uno di Carlo Sartori sulle ragioni istituzionali per isolare l’emittente pubblica dalle forze di mercato (8 luglio). Ma quelli che la Rai pone sono in primo luogo problemi politici: e qui si intende ragionare dei problemi politici relativi alla struttura proprietaria.

Quella che si è creata con la privatizzazione dell’Iri, e quella che si verrebbe a creare ín base al progetto di riforma del Governo.
La riforma Rai fa parte del Ddl 1138, che ha avuto una singolare storia: presentato dal Governo Prodi nel 1996, venne subito spezzato in due: la prima parte, quella che istituisce l’Autorità, diventò legge nel luglio 1997, in tempo per poter privatizzare Telecom; la seconda parte — 20 ponderosi articoli che trattano di reti locali e reti nazionali, dí pubblicità e televendite, di digitale terrestre e Antitrust — giace in commissione, sotto il peso di 2500 emendamenti dell’opposizione. Per quanto riguarda la Rai, la legge prevede (art. 8) di conferire le azioni già di proprietà dell’Iri (e del Tesoro) a una fondazione di diritto privato, il cui Consiglio di Amministrazione è nominato dai Presidenti di Camera e Senato e dura in carica 7 anni. La Fondazione può vendere quote delle reti di sua proprietà purché mantenga il controllo ai fini del 2359 primo e secondo comma. Contenuto e modalità di svolgi. mento del servizio pubblico sono oggetto di una convenzione su cui ha autorità il Ministero delle Comunicazioni.
Poco appariscenti ma molto significative sono le modifiche che la legge introduce rispetto alla situazione attuale. Scompare la finalità economica: l’Iri era comunque una società per azioni il cui obbiettivo è fare utili; se passa la legge, scopo della nostra maggiore impresa multimediale sarà fare affluire delle utilità nelle casse di una fondazione non profit in vista di eventuali aumenti di capitale. Scompare la figura del direttore generale: era nominato dall’Iri, e costituiva ancora il filtro di indirettezza rispetto all’autorità politica. Aumenta la durata in carica del Consiglio di Amministrazione, dagli attuali 2 a 7 anni.
Tutto il potere alla maggioranza: questo il succo della proposta del governo. Il Consiglio di Amministrazione è nominato dai Presidenti di Camera e Senato: ma essi, ancor più in regimi non consociativi, sono espressione della maggioranza, la loro imparzialità è riferita alla loro funzione istituzionale. È responsabilità del Consiglio di Amministrazione svolgere il servizio «secondo cri teri di completezza e di imparzialità», chi li nomina non può vi spondere del loro operato. Tant’è che a giudicare come tali criteri vengano osservati il disegno di legge pone il Ministro delle Comunicazioni: anch’esso espressione della maggioranza.
A chi conviene politicamente una tale soluzione? Se il centrosinistra dovesse perdere le elezioni, questa legge costituirebbe un formidabile regalo a Berlusconi. Il diritto della maggioranza a trattare la Rai come cosa propria gli viene consegnato su un piatto d’argento, nessuno potrà più accusarlo di aver occupato l’azienda avrebbe solo attuato criteri dettati dal centrosinistra. (A meno chee l’attuale maggioranza pensasse di nominare in extremis un Consiglio di Amministrazione amico per 7 anni: ma in tal caso non po­trebbe lamentarsi se qualcuno li equiparasse ai «conti di Ciampino», nominati da Umberto sulla scaletta dell’aereo che lo portava in esilio). Peggio ancora sarebbe, sempre nell’ipotesi che ilcentrosinistra perdesse le elezioni, se la legge in questa legislatura avesse solo iniziato il suo iter parlamentare: Berlusconi potrebbe riprenderla, identica e dunque inattaccabile per quanto riguarda la Rai, modificata a propria convenienza per quanto riguarda i tetti pubblicitari. Bisogna distinguere tra conflitto di interessi — che è quello che investe Berlusconi come leader politico a cui fanno capo interessi in numerosi settori economici, ed in particolare in un grande gruppo mediatico — e posizione dominante che si creerebbe se, come capo di una coalizione vincente, avesse anche il controllo sulla Rai. Il 1138 non si occupa del primo problema: ma dà il marchio di qualità alla soluzione del secondo.
Il 1138 rappresenta un rischio che il centrosinistra non può correre. Deve quindi disconoscere la paternità di quella proposta e avanzarne subito una nuova: se il controllo deve essere politico, che almeno non sia posto nelle mani della sola maggioranza. Si eviti di scaricare sulle spalle delle istituzioni — la seconda e terza carica dello Stato — compiti di presunta e sottintesa imparzialità, non definita perché non definibile e non verificata perché non vericabile. Se la Rai deve essere governata dal pubblico, allora che lo si faccia in modo palese; i diritti dell’opposizione non siano affidati a oscuri bilanciamenti, ma tutto sia alla luce del sole: i vertici della Rai siano nominati dal Parlamento con voto di lista, e du­rino in carica quanto íl Parlamento che li ha nominati.
Assurdo? Certo, ma non più del sistema proposto con il 1138, rispetto al quale risparmia infingimenti e falsi pudori. Così almeno risulta chiaro quello che tutti sanno e cioè che è il mantenimento del controllo politico l’unica ragione per mantenere la proprietà pubblica della Rai. Il controllo politico, non la volontà di «tenere conto delle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali, religiose» o di «rappresentare l’immagine e la realtà del Paese valorizzando la produzione culturale italiana e europea». Se quesri principi, enunciati dal Ddl, sono definibili, possono essere oggettodi un rapporto contrattuale: e il controllore che vigila che siano rispettati non può far capo allo stesso soggetto che nomina anche il vertice del controllato. Principi che invece restano indefi­niti e inverificabili nel contratto di servizio firmato in questi gior­ni: un documento che merita di essere fatto oggetto di attento esa­me e di valutazione politica.
Carlo Sartori dà voce in modo esemplare alla contraddizione in cui incorrono quelli che sostengono la proprietà pubblica in nome della «qualità»: prima denuncia come intollerabile la situazione at­tuale, il degrado culturale della TV commerciale, i «contenitori di stupidità e ballerine», gli «sviluppi selvaggi» per cui «le fasce socio­culturali più deboli restano escluse»; solo 50 righe dopo ricorda «il successo economico di tanti prodotti e broadcaster internazionali [privati? N.d.A.] di qualità». Possibile che non gli venga in mente che questa contraddizione sta proprio nella natura pubblico-politi, ca dell’azienda, nel come la lottizzazione piega alle utilità di parte le strategie aziendali, infiltra le strutture, le gonfia a dimensioni ele. fantiache? Io non credo che la causa dei mali della Rai stia nel suo finanziarsi (anche) sul mercato: in ogni caso i risultati prodotti coli il sistema misto con canone non sembrano soddisfare neppure i più intelligenti sostenitori dell’azienda pubblica. Mi sembra assurdo che il settore più dinamico ed innovativo dell’economia moderna debba essere sottratto al mercato, e diventare un «servizio pubbli co», anzi un servizio erogato dal pubblico.
E allora resta un grande interrogativo: perché? Se la proprietà pubblica è negativa per lo sviluppo di un settore industriale fon­damentale (come dimostra Pilati), se non riesce ad assicurare le esigenze di qualità (come lamenta Sartori), se la ricerca di un’im­parzialità nel controllo è un boomerang pericoloso, se la sparti zione tra maggioranza e minoranza è poco presentabile: se tutta questo è vero, allora, di grazia, perché non vendere la Rai?

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