Il concetto di equità non è un’opinione

giugno 25, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


«Vorrei tanto che tassassero i profitti finanziari dei miei pochi risparmi, perché tasserebbero anche quelle di chi ha grossi capitali investiti: così si aiuterebbe il nostro Paese a uscire dalla crisi in cui si trova». È la voce registrata di una pensionata che ha dato l’avvio alla puntata di mercoledì scorso di “Tutta la Città ne parla”, rubrica di Radiotre in onda la mattina.

Dalla telefonata della signora, dalle discussioni degli esperti che sono seguite, dagli interventi del conduttore Giorgio Zanchini, dagli sms degli ascoltatori, si può ricavare la misura dei guasti che decenni di propaganda hanno lasciato nella cultura politica ed economica di questo Paese: è per questi guasti che sembra così difficile uscire dalla crisi che stiamo attraversando.
Non mi riferisco a quanto (poco) di specifico è stato detto in trasmissione sulla tassazione delle rendite finanziarie. Su quel tema si registrano posizioni varie: il giorno prima, il presidente di Assonime Luigi Abete si era dichiarato a favore di un’aliquota unica per i vari cespiti che rientrano in quella categoria, al fine di rendere socialmente accettabile una sua generale riforma fiscale, in costanza di gettito, che sarebbe meno distorcente delle decisioni degli operatori, e più incentivante per la crescita. La mia personale opinione è che, posto che le tasse sono sempre distorcenti e disincentivanti, è probabile che la diversità di aliquote sia peggio ancora, ma che questo non sia il momento giusto per parlarne: finché i tassi di interesse sono così bassi, tale sarebbe anche il gettito, e con le turbolenze indotte dalla crisi greca, l’ultima cosa che dovrebbe fare un Paese con un debito della nostra entità è tassare chi lo sottoscrive. Come il Governo si è affrettato a precisare.

E ci sono anche quelli per cui l’aumento delle aliquote appare un investimento neppure eccessivamente costoso per assicurarsi un posto al sole per quando sarà arrivata la rivoluzione proletaria, e così denunciano come un furto la propria stessa proprietà.
Mi ha colpito che nessuno abbia messo in dubbio la questione fondamentale: serve proprio, per uscire dalla crisi, aumentare il prelievo fiscale? Che sia così, sembra un assunto dato per valido a priori. Sembra essere pacifico che lo Stato è povero e noi, se non ricchi, siamo benestanti, e quindi dobbiamo aiutarlo. A che cosa dovrebbero servire i proventi di quelle tasse, se a ridurre il debito, ad aumentare le pensioni, o a finanziare la Torino Lione, nessuno se lo è neppure chiesto. Non gliel’ha chiesto il conduttore, che equiparava la tassazione delle rendite finanziarie alla “famosa Tobin tax”, assunta come certificato di garanzia di equità; non chi mandava gli sms in trasmissione, tutti una lode alla povera vecchina, assunta come simbolo di civiche virtù.

Perfino l’unico esperto critico verso la riforma – il politically correct prevede la messa in scena della par condicio – lo era per ragioni di efficienza e di utilità, e neppure lui si chiedeva se, per la “soluzione della crisi”, fosse meglio aumentare o diminuire le tasse.
C’è stato perfino chi ha sostenuto che, aumentando grazie a questa misura il grado di equità, ciascuno sarebbe più indotto a compiere il proprio dovere fiscale: che è come sostenere che pagare di più riduce l’evasione. Non uno che suggerisse di risparmiare qualcosa su ciò che si spende, non uno che fosse sfiorato dal dubbio se noi si sia in crisi perché lo stato non può spendere abbastanza, oppure se sia perché noi non guadagniamo abbastanza, dato che in dieci anni abbiamo perso 20 punti di produttività rispetto alla Germania. La crisi del Paese è sul lato della spesa, e il buon cittadino soccorre il suo Paese: mistero della fede.

Il concetto di equità non è univoco. C’è quello per cui equo è che ognuno paghi la sua parte per sostenere lo stato, perché solo lo stato ci può fare uscire dalla crisi. E c’è quello per cui equo è che ognuno possa utilizzare le proprie risorse per realizzare i propri progetti, e che se lo stato ci assicura questa possibilità, si riesca a tirare fuori dalla crisi noi, e lo stato con noi. È questa la sola speranza che abbiamo.

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