Il comando di quelli che sanno

febbraio 9, 2013


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Un pamphlet indica il lato nascosto delle elezioni italiane: basta la volontà popolare a governare la democrazia in un mondo complicato o servono élite e competenza? Due chiacchiere aspettando Sanremo.

Chiacchiere al Foglio. Hanno partecipato Franco Debenedetti (già senatore dei Democratici di sinistra, autore de “Il peccato del professor Monti” per Marsilio editori), Sylvie Goulard (parlamentare europea liberale, autrice insieme a Mario Monti di “La democrazia in Europa” per Rizzoli e Flammarion), Rita Di Leo (professore emerito alla Sapienza di Roma, autrice de “Il ritorno delle élites” per Manifestolibri) e il direttore Giuliano Ferrara.

Ferrara. “Il peccato del professor Monti” è un bellissimo pamphlet caduto con tempestività nel conflitto di idee e in una campagna elettorale accesa, scritto con sapienza da libellista anglosassone, nutrito di esperienza politica e culturale, e quindi faccio i miei complimenti al senatore Debenedetti perché questo è davvero un libro di valore. Dopodiché io sono contrario alle tesi di questo libro. Mi sembra fondamentalmente che l’atteggiamento del senatore Debenedetti sia, se posso usare un’espressione mutuata da Elsa Fornero, “choosy”, cioè schizzinoso. Non c’è quell’“anticipo di simpatia”, come ha scritto una volta il Papa nella prefazione al primo volume della sua biografia di Gesù, senza il quale i fenomeni rischiano di sfuggire per la loro essenza. Cerco di chiarire. L’autore del libro dice, e semplifico: il governo Monti, nel momento in cui si trasforma in “Partito Monti” o “Lista Monti” – collocato al centro del sistema politico e imperniato sull’idea di superare l’orizzonte tradizione di “destra” e “sinistra”, poi su quella di candidare un’agenda, cioè idee e proposte di soluzione a problemi di un paese così in crisi come l’Italia – dissimula in realtà una vena tecnocratica, diffidente verso i caratteri fondamentali della politica cioè il consenso, la volontà popolare, la ricerca di una soluzione che non si fonda sulla competenza, ma sulla storia, sulle passioni degli uomini, sulle identità. Il tutto, come ha detto bene Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, in un contesto europeo. Uno dei pregi di questo pamphlet è che non è un banale attacco all’operazione Monti; è un tentativo anche di decrittarla, di capirla alla luce del suo vero quadro di riferimento: quello della costruzione in Europa, come diceva Jean Monnet, di un super-stato fatto un po’ all’insaputa degli europei. Coperto da un meccanismo tecnico-burocratico che gli consente di crescere e di nascere “depoliticizzando” la democrazia, direbbe Nathan Gardels, studioso americano citato nel libro del professor Monti e di madame Goulard. Debenedetti accusa anche Monti e i suoi soci di un progetto di “nation building”, dove “nation building” – lo ricordo ai lettori del Foglio – è la formula con la quale si è interpretato il tentativo di dare seguito alle guerre in terra islamica dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. “Nation building” ha un imprinting un po’ neocoloniale, l’idea che si possa forgiare un popolo prescindendo dalla sua volontà democratica e da istituzioni che la sappiano raccogliere e incanalare secondo la natura storica dello stesso popolo. “Nation building” è un “fare gli italiani”. E al proposito noto che il senatore Debenedetti è piemontese, mentre il professor Monti è di Varese: sono due modi diversi, per rifarmi alla storia di questo paese, di progettarsi e integrarsi con l’Europa. Quello lombardo è più aperto, più spencolato verso il processo europeistico, mentre Torino ha sempre avuto… Però è anche torinese Vittorio Alfieri che disse “fare gli italiani”.

L’altra cosa che non capisco è l’accusa a Monti di non essere stato quello che l’autore avrebbe desiderato, sia pure militando magari nell’altro polo o comunque a prescindere dal suo collocamento politico. Il senatore Debenedetti dice: il dovere di Monti era dare rappresentanza all’Italia di Silvio Berlusconi che ha perso una guida, un’arruffata spinta culturale e un linguaggio con posizioni anti fiscali e in fondo liberali, un’Italia che non può essere sottorappresentata. Non si può governare il processo politico dal centro, secondo il senatore Debenedetti. Anche se l’opposizione di Paolo Cirino Pomicino a Monti, al suo progetto, alla sua lista – e prendo Cirino Pomicino come esemplare del neo centrismo neo democristiano, che proprio su questo ha rotto anche con l’alleato di sempre Pier Ferdinando Casini (Udc) – testimonia che quella di Monti non è un’operazione neo centrista classica tradizionale (l’osservazione, acuta, è di Marco Valerio Lo Prete). Poi certo Monti ha dovuto fare il fuoco con la legna che aveva, e la legna nel nostro sistema politico erano Fini, Casini, eccetera.
Ho riassunto due-tre motivi di critica di questo pamphlet. Al fondo di tutto, naturalmente, la questione è quella della ideologia tecnocratica, di una democrazia a trazione elitaria. Nel mondo globalizzato e complicato sistemicamente dalla rete – e scusate perché “globalizzazione” e “rete” sono due parole che io non vorrei usare mai per ovvie ragioni di stile – insomma nel mondo di adesso, così diverso da quello in cui un po’ rousseauianamente la volontà generale e delle assemblee, la divisione tra “destra” e “sinistra”, erano alla radice di tutto e della storia, in un mondo invece in cui gli elementi di transnazionalità e di vigore del mercato rispetto alla fiacchezza della politica sono piuttosto evidenti, Monti e Sylvie Goulard lo dicono con una certa prudenza, ma c’è l’idea che la politica debba poggiarsi per una parte sul consenso e sulla volontà popolare, ma per un’altra parte sul sapere, sulla formazione, sulla costruzione delle élite di governo dei sistemi complessi, questa cosa qui, la trazione elitaria e la cosiddetta deriva tecnocratica avrebbero meritato una contro-argomentazione più robusta.

Goulard. Prima di tutto, ci tengo a specificare che io non sono Mario Monti e non sono neanche la sua portavoce. Abbiamo iniziato a scrivere questo libro, “La democrazia in Europa” (Rizzoli-Flammarion), quando Mario Monti non era ancora presidente del Consiglio, e ho l’impressione – leggendo il libro di Franco Debenedetti – che questa differenza non viene considerata: la differenza tra quello che c’è nel libro e lo sviluppo di una vicenda interna all’Italia. Il libro non è un libro sull’Italia.
Il secondo punto è che non dobbiamo riflettere solo parlando di noi europei, ma guardando a come si sviluppa il mondo. Il mondo è complesso. Per esempio, l’argomento della “competenza”: non possiamo dire che non vogliamo dare alla competenza una certa importanza. Abbiamo o no, per esempio, un debito pubblico assai elevato in Europa? Vogliamo o no mantenere un certo tenore di vita e dunque rimanere competitivi nella corsa mondiale? Se dunque, alla luce delle politiche fatte finora, dico che bisogna essere competenti nella gestione del debito e dell’economia, in quest’asserzione non vedo nemmeno l’inizio di una contraddizione con il fatto di avere una identità. Io non capisco bene questa contrapposizione permanente tra le élite e la democrazia. Già Montesquieu, ne “L’esprit des lois”, ha dato una definizione della democrazia nella quale il principio fondamentale è la “virtù” della classe dirigente, cioè la sua capacità di prendere certe decisioni, anche difficili. Questo non vuol dire affatto che noi siamo a favore di una “depoliticizzazione”, anche se so che sul Foglio Gardels è quasi più popolare di Tocqueville. Il nostro libro però non è su Gardels e la sua teoria! Non abbiamo neancheusato la parola “depoliticizzazione”, esattamente come non abbiamo mai usato – mi dispiace

Debenedetti – l’espressione “nation building”. Sono assolutamente sicura che in Europa non stiamo creando una nazione, nel senso che conosciamo oggi, ma una cosa nuova, e questa novità è affascinante. Comunque il mondo contemporaneo e il livello di complessità nella gestione dell’economia mi paiono richiedere una certa competenza, che per me non ha nulla di incompatibile con l’identità, con il dibattito politico e via dicendo. Sottolineo poi che l’Europa che descriviamo nel libro non è assolutamente quella di Jean Monnet, e ancor meno quella di oggi che è intergovernativa e spesso bloccata. Proponiamo piuttosto di cambiarla fino in fondo, di svilupparla, di far andare avanti l’Europa sulla via della democrazia.

Debenedetti. Non credo di avere detto che il libro di Goulard e Monti è riferito all’esperienza del governo Monti. Io mi riferisco a quello che il professor Monti ha detto, e io l’ho sentito per la prima volta il giorno della presentazione del suo libro alla Bocconi. Le parole di Monti non sono nemmeno un caso, non sono nuove, perché nell’altro libro a cura di Federico Fubini che veniva presentato quel giorno, e che è una raccolta degli scritti di Monti, si può trovare la stessa impostazione anche negli articoli per il Corriere della Sera: il professore auspica un superamento della dialettica tra “destra” e “sinistra” per consentire il formarsi di una maggioranza favorevole alle riforme.

Debenedetti. Il professor Monti, ripeto, auspica un superamento della dialettica tra “destra” e “sinistra” per consentire il formarsi di una maggioranza favorevole alle riforme. D’altra parte è assolutamente coerente con quello che politicamente ha fatto Monti prima di fare il primo ministro in Italia, e cioè il commissario europeo. Perché questa è esattamente la linea che ha rappresentato Monti e che per alcuni ha costituito le sue credenziali, cioè l’Europa come regolamentazione, l’Europa delle regole. Di lui si ricorda soprattutto, retrospettivamente, la battaglia contro Microsoft, battaglia che poi si è visto come fosse in qualche modo vana, perché il presunto potere di monopolio della società americana non è stato contenuto e rovesciato dalla burocrazia europea e dalla Commissione, ma dallo sviluppo tecnologico.
Quanto al “nation building”, io non ho mai detto che fosse riferito all’Italia. Il “nation building” è un progetto europeo, lo è chiarissimamente nelle parole dei suoi fondatori, dal 1958 in avanti. Non mi sembra che ci sia dubbio quando si auspica che per realizzare la democrazia europea ci vorrebbe l’elezione del presidente della Commissione europea, cioè un’elezione politica per 500 milioni di persone. Non mi sembra che questa sia una novità. Per me comunque è una follia. E la follia, soprattutto, è che noi avremmo bisogno di altro. Perché se noi stessimo parlando in astratto, tutto andrebbe bene. Ma noi abbiamo un paese che non cresce, abbiamo bisogno di mobilitare delle energie e come vuole mobilitarle, lei? Forse eleggendo il presidente di 500 milioni di persone? Dal rapporto politico nasce l’orizzonte politico delle persone. Perché non si investe? La ragione per la quale non cresciamo è che questo paese ha bisogno di un orizzonte politico di certezze e di speranze. Chi glielo dà se non la discussione politica?

Ferrara. Interrompo a questo proposito Debenedetti riportandolo alla questione della schizzinosità. Con una certa amarezza Debenedetti ha preso atto del fatto che una persona che gli è amica e che lui stima, il professore Pietro Ichino, ha fatto una scelta simmetricamente opposta alla sua. Debenedetti critica cultura, teoria e prassi del governo Monti ed estende in modo duro questa critica anche alle idee del pamphlet scritto da Monti e Goulard, Ichino invece è andato a militare nella lista di Monti. Secondo me Debenedetti è choosy. Lei, Debenedetti, non è Stefano Fassina (responsabile economia del Pd), non è il sociologo Luciano Gallino, non è un militante politico con competenza annessa, lei è l’idea stessa che nel fronte progressista possa esercitarsi una guida intellettuale e politica fondata sulla competenza – lei è stato manager, imprenditore, ha studiato i problemi – ed è un’idea che è entrata largamente in crisi. Monti ha molti difetti, come tutti; il suo governo poteva fare meglio; le critiche di parte liberale sono tante: ci sono quelle più radicali di Piero Ostellino che dice che è un governo totalitario o come Salazar, ci sono quelle un po’ più puntuali del duo Alesina-Giavazzi, e poi ci sono quelle del senatore Debenedetti. Però alla fine Monti è un tentativo che non poteva collocarsi né a destra né a sinistra…

Goulard. Posso chiedere una cosa? Perché è così importante, per voi, riflettere nelle categorie del passato? A cosa ha portato davvero la politica all’antica, cioè destra e sinistra, per difenderla così strenuamente? Nel libro di Debenedetti c’è questa idea di fondo: quello che conosciamo è buono – malgrado la prova contraria data dalla realtà – e quello che potrebbe svilupparsi nel futuro è sbagliato. In base a questo ragionamento, una democrazia con 500 milioni di persone non può esistere. Perché non può esistere? Chi lo sa cosa può esistere nel futuro?

Debenedetti. Guardi che un miliardo e mezzo di abitanti in Cina, allora, è meglio ancora…

Ferrara. Negli Stati Uniti ci sono 310 milioni di abitanti e la democrazia esiste però…

Di Leo. I miei dubbi cominciano dalla centralizzazione del discorso sulla democrazia. Perché nelle ricerche che ho fatto con l’Osservatorio geopolitico sulle élite contemporanee, io metto da parte la questione della democrazia e metto al centro della riflessione scientifica e della ricerca empirica la questione del ruolo delle élite e della politica di riferimento. Distinguo tra le élite della “politica progetto” come élite politico-professionali, le élite della “politica di potenza” come le élite aristocratiche del nostro passato e poi ancora del nostro presente, e infine le élite economiche e finanziarie. Se dobbiamo definire il professor Monti, egli è una splendida figura sociale che esprime la rappresentanza al meglio delle esigenze delle élite finanziarie europee (è stata ricordata la solita dote della lite contro la Microsoft da commissario Ue) e delle élite finanziarie transnazionali (perché sappiamo che appartiene a gruppi finanziari transnazionali). E’ tutto molto legittimo, è nel suo ruolo e lo fa al meglio. Però se dobbiamo riferire questo suo ruolo in rapporto alla democrazia o alla differenziazione tra “destra” e “sinistra” e al fatto di andare oltre questa differenziazione, io penso che certamente questo libro è importante, però credo ci voglia altro per portare avanti un simile salto teorico-scientifico. Io mi limiterei, con molta weberiana pazienza, ad analizzare quello che abbiamo oggi sul tavolo. E oggi abbiamo sul tavolo il fatto che c’è un primato dell’economia, perché la politica come politica-progetto non è più stata in grado di controllare l’avanzata delle élite economiche. Nei miei studi, io porto avanti una delineazione di cosa è successo nella realtà: è grazie alla democrazia e agli strumenti offerti dalla democrazia che le élite economiche sono penetrate nel sistema amministrativo, nel governo delle politiche pubbliche, prima quelle locali, poi quelle regionali, poi quelle statali e nazionali. C’è stata una penetrazione legale e razionale, per essere weberiani, della possibilità che le élite economiche siano andate nei ruoli prima occupati dai politici professionali. Questa è una analisi che secondo me non mette in questione la democrazia, dice piuttosto che oggi la democrazia è al servizio delle élite economico-finanziarie. E’ un giudizio di valore? Dio me ne scampi, non è un giudizio di valore: è una realtà di fatto. Per rimanere al caso italiano: dopo il 1991-92, noi abbiamo avuto il governo Ciampi (aprile 1993-maggio 1994, ndr), il governo Dini (gennaio 1995-maggio 1996, ndr), quindi Prodi e Berlusconi…

Ferrara. Che però non mi sembra un caso di democrazia assoggettata alle élite, casomai è un caso di sventramento delle élite…

Di Leo. Infatti, Berlusconi è Berlusconi. E adesso abbiamo Monti. Ma se voi riflettete, non abbiamo avuto più un politico professionale, e adesso che c’è all’orizzonte Bersani, cosa si dice per legittimarlo? Si ripete che è stato un bravo amministratore in Emilia Romagna, che quando è stato ministro è stato capace di fare le liberalizzazioni, cioè gli si nega il suo ruolo di politico professionale e si esalta invece la sua capacità di gestire l’economia. Questa è la situazione oggi, da registrare con assoluta tranquillità.

Debenedetti. Vorrei rispondere al direttore sul “choosy”, perché io non mi sento “choosy” nei riguardi di Monti. Non credo che ci sia alcuna alterigia nel riconoscere in Monti un peccato. Tra l’altro constatiamo che ci sono tanti Monti. C’è il Monti del governo, c’è il Monti della salita in politica e c’è il Monti che cammina in salita. Ora si vede come la campagna elettorale stia cambiando Monti, il quale cerca la propria strada in modo che forse non farebbe un politico consumato, però Monti sta certamente diventando politico. Monti prova a confrontarsi con le cose che avrebbe voluto negare, quindi la campagna elettorale cambia Monti, e d’altronde quando si scrive di cose che stanno accadendo si corre il rischio di dover lasciar cadere la penna un certo giorno.

Di Leo. Mi scusi, ora stiamo valorizzando Monti come politico ma io credo che questa sia davvero l’ultima cosa che si può fare. Quando Monti è andato a Napoli e si è fatto fotografare con il Pulcinella da una parte e la pizza dall’altra è stata una cosa terribile. Io credo che Monti stia dando una pessima visione di sé come politico, poteva rimanere così com’era, e dare agli altri che sono attorno a lui, e ce ne sono attorno a lui di politici, io sto pensando a uno che si chiama Andrea Riccardi…

Ferrara. Ecco, io direi che Monti fa il minimo indispensabile per non apparire un algido professore bocconiano che non ha nulla a che vedere con gli aspetti spettacolari della politica che da 20 anni, dopo Berlusconi, in Italia sono diventati dirimenti. Quindi io gli perdono queste cose che non mi sembrano così rilevanti e sulle quali invece la professoressa Di Leo è molto severa. Il punto però è quando la professoressa Di Leo dice che “avrebbe potuto far fare anche ad altri” e cita Riccardi. Signori, su questo vorrei davvero una risposta, perché è il mistero dei misteri: Monti è solo come nessun altro prima di lui. Berlusconi era l’outsider assoluto e l’establishment italiano – intellettuale, economico, politico – lo ha considerato un estraneo e ha avuto un rapporto molto cinico con lui. L’avvocato Agnelli disse: “Se vince lui vinciamo tutti, se perde lui perde soltanto lui”. Inoltre non è stato dato credito, nemmeno mezza unghia, all’idea che Berlusconi avesse fatto esplodere un tema di democrazia e di liberalizzazione del registro della politica di un paese che era stato dominato dai partiti, e che partiti, per tanti anni. Non gli è stata fatta nessuna “anticipazione di simpatia”, insomma. Poi arriva Monti, che è il contrario di Berlusconi: non è un virtuista alla Zagrebelsky, non è uno che ha costruito la sua carriera personale sul pettegolezzo, ha celebrato “il mio venerato predecessore” e non ha costruito se stesso come un anti-berlusconiano, è un insider per molti aspetti, sta dentro la costruzione dell’Europa, dentro al potere economico-finanziario, fa il suo ruolo – come dice la professoressa Di Leo – e lo fa molto bene. Poi si può contestare che quel suo ruolo possa risolvere le crisi di un mondo come quello di oggi, perché magari invece ci vuole la politica nel senso tradizionale del termine. Tuttavia il punto è che Monti è solo. Cioè, Riccardi non si è candidato, Montezemolo non si è candidato, il Corriere della Sera è gentile con il suo ex collaboratore-editorialista ma niente più che questo, Corrado Passera non si è candidato. Monti è completamente solitario. C’è la signora Borletti Buitoni, ci sono delle liste dignitose… L’establishment è convinto del fatto che la politica è off-limits, sia nella forma del leader democratico populista che dice “cambiamo tutto”, sia con Monti: perché Monti ha una cosa forte e che sconvolge il panorama: Monti è contro la concertazione.

Di Leo. Ma certo…

Ferrara. Se dovessi individuare un nucleo riformatore e rivoluzionario in Monti, sarebbe questo. In tre settimane, infatti, ha avuto mandato dall’alto di governare la crisi italiana e ha fatto una riforma delle pensioni che da Franco Modigliani a oggi tutti reclamavano ma che nessuno aveva fatto, radicalissima, senza discuterla con i sindacati. Queste sono cose che succedono una volta ogni 50 anni nella storia di un paese, perché io che ho 61 anni mi ricordo da ragazzino gli scioperi generali sulle pensioni. Le pensioni sono il paradigma della irriformabilità dell’Italia, e Monti questo paradigma lo ha rovesciato.

Goulard. Vorrei dire due cose, la prima sulla situazione dell’anno scorso. Do una testimonianza da fuori, come straniera. Ho l’impressione, seguendo la campagna elettorale in corso, che gli italiani abbiano la memoria molto corta e forse in Francia accadrebbe la stessa cosa. Perciò il carattere eccezionale della situazione della fine del 2011 adesso non è più in primo piano nella discussione, viene completamente dimenticato. Sembra non si voglia capire perché certe innovazioni istituzionali sono accadute solo lo scorso anno e in un contesto drammatico. Così si discute come se la crisi attuale non fosse una delle più gravi del Dopoguerra, probabilmente la più grave, e come se non avessimo ancora in tutta Europa una situazione estremamente fragile. Non vogliamo vedere che sta avvenendo un cambiamento di lungo termine: anche a me non piace la parola “globalizzazione”, è un concetto spesso usato in modo superficiale, ma è vero che stiamo vivendo una fase – dal punto di vista della demografia, dell’invecchiamento della società, della concorrenza internazionale – che non ha precedenti.
La seconda cosa: mi sembra che la parola “élite” venga dal francese, perfino nella lingua italiana. Cos’è dunque davvero una élite? Per me non è quello che la professoressa Di Leo ha descritto, cioè non coincide con quelli che hanno in mano il potere economico. Ci vuole anche un’altra concezione di élite, quella di una minoranza scelta in base al merito. La domanda chiave è quella: siamo capaci di dare alla gioventù, a quelli che sono disposti a lavorare duramente, accesso al potere e alla responsabilità? Oppure uno deve avere il potere perché è nato in una famiglia ricca o potente? Per me far parte delle élite vuol dire restituire in parte quello che ho ricevuto, dalla scuola o dalla società. Se invece le élite si tramandano il loro ruolo, allora tutto ciò è insopportabile. Mentre se nella società c’è apertura, se c’è possibilità di “salire” nella scala sociale, allora è una cosa completamente diversa. E’ troppo facile dire “élite” senza distinguere tra queste due realtà. Cosa ne pensa la professoressa Di Leo?

Di Leo. Volevo chiarire la distinzione che io faccio tra le élite. Sicuramente ci sono le élite aristocratiche e poi ci sono quelle intellettuali, di cui fa parte Goulard.

Goulard. Di questo non sono sicura, ma diciamo di sì!

Di Leo. Le élite intellettuali, non avendo un background aristocratico, sicuramente si sono formate da sole e hanno avuto delle competenze diverse, e hanno delle capacità che sono solo da riconoscere e da valutare. Per quel che riguarda la Francia, per queste élite è forse più possibile emergere: so benissimo che in Francia si comincia a scegliere da bambini il liceo che si può frequentare perché quel liceo ti porta da una certa parte e poi quell’università, eccetera. Perciò io prima parlavo di élite intellettuali accanto ad élite aristocratiche. Le élite intellettuali sono sempre state al servizio di quelle aristocratiche fino a una certa data storica; dopo quella data, le élite intellettuali hanno cercato di stare in piedi da sole e sono diventate élite politiche-professionali. Accanto a esse si sono formate le élite economiche e adesso queste élite economiche sono cresciute fino a diventare élite finanziarie. Cosa fanno gli intellettuali rispetto alle élite finanziarie al confronto di quello che facevano le élite intellettuali a fronte della politica progetto o della politica di potenza? Nel primo caso, cioè quello della politica progetto, le élite intellettuali erano – per usare un’espressione bellissima di Czeslaw Milosz – “mente prigioniera” di queste élite aristocratiche o della politica di potenza. Adesso le élite intellettuali sono “mente acquistata” o “comprata”, e in questo scambio le élite ci possono stare o meno; la cosa interessante che riguarda la figura sociale del professore Monti, che abbiamo visto nascere come élite intellettuale, è che egli parte dalla Bocconi, poi viene mandato da Berlusconi a Bruxelles, e lui a Bruxelles fa un suo gioco con le élite finanziarie che meriterebbe di essere analizzato di per sé. Perché è vero, è interessante quello che ha fatto Monti; ha cercato di andare al di là del suo ruolo specifico professionale, cioè di rappresentante delle élite finanziarie, e in questo libro ha detto: “Io propongo, in quanto dopo tutto faccio parte anche dell’élite intellettuale, di fare un salto in avanti”. A questo punto l’errore grave che ha fatto Monti è stato quello di mettersi in politica, perché se magari continua a scrivere qualche altro bel libro con Goulard o altri, forse ci poteva dire qualcosa di più…
Goulard. Ha usato la parola “acquistata” o “comprata”, giusto? Ho capito bene? Saremmo tutti “venduti” a non so chi? Rifiuto questo argomento.

Di Leo. No, non siamo venduti. Io faccio parte dell’élite intellettuale. Io ho fatto uno scambio con la mia università: io alla mia università do il mio specialismo intellettuale, la mia università mi paga, è una questione di scambio. Non c’era un’inflessione moralistica e censoria nell’uso del termine.

Ferrara. Posso fare un’altra domanda su questo tema delle élite? Riguarda la volontà generale, cioè Rousseau, andiamo alla radice delle radici. Si possono governare oggi le società complesse, nazionali e sovranazionali, con la volontà generale? Oppure la volontà generale deve essere integrata con la competenza e il sapere particolare? Questo è il problema. Le élite contano e diventano un problema perché la volontà non basta. Poteva bastare a decidere sulla redistribuzione del reddito in società semplici, ma è più difficile oggi.

Debenedetti. Ritornerei per un istante, se mi è consentito, alla parola “choosy”, perché coglie un punto importante. Io non me la riconosco, semmai uno che decide di fare tre legislature con il centrosinistra potrebbe essere accusato di essere populista più che choosy, soprattutto se lo fa ritagliandosi un ruolo di entrismo nella sinistra. Allora era una scelta legittima. Io ricordo che quando Giuseppe De Rita (presidente del Censis, ndr) ha presentato il rapporto del Censis, ha fatto anche lui una osservazione sul governo Monti, dicendo: a Monti manca il rapporto con il paese. E faceva il confronto con Aldo Moro e con Bettino Craxi. Anche Moro era algido; le metafore di Moro erano altamente intellettuali, Moro era un grande intellettuale e non un capopopolo. Il peccato iniziale del professor Monti è quello che ha fatto quando è stato nominato. Perché lui ha detto: “Noi duriamo fino alla fine della legislatura”. Ora, però, un governo d’emergenza che dice di voler durare, da un lato implicitamente ammette che l’emergenza dura, dall’altro perde potere rapidamente col passare del tempo. La riforma Fornero delle pensioni – che è l’unica grande riforma che ha fatto – nasce in questa sospensione iniziale della dialettica politica. In questo il governo Monti si differenzia radicalmente dal governo Dini. Dini cosa aveva detto? “Intendo fare cinque o sei cose, quando le avrò fatte me ne vado”. Un governo d’emergenza che vuole durare, vuole invece transitare o traghettare, e questo gli spunta le armi principali che aveva per fare le riforme. Tanto è vero che, fatta la prima riforma, tutte le altre sono finite male, inclusa la seconda riforma Fornero, quella del mercato del lavoro che è stata essenzialmente evirata dal passaggio in Parlamento e dal condizionamento della Cgil. La ragione del peccato non è quindi un fatto di snobberia intellettuale, ma è perché penso che non possa funzionare. Faccio un esempio storico per chiarire, visto che contano anche le esperienze personali. Nel 1945 io avevo 12 anni, la fabbrica di mio padre era stata distrutta e io ho vissuto i cinque anni successivi vedendo come si faceva la ricostruzione in Italia: so che c’era una visione del futuro, un insieme di volontà, identità ed entusiasmi che si trovano soltanto nella polarizzazione politica, non nella polarizzazione elitaria o tecnica. Ed è per questo che io credo che l’Italia abbia bisogno di una proposta politica.
Inoltre, quando il direttore dice che la borghesia italiana non prende parte, non si spende, non si compromette. Intanto, nel caso specifico della lista Monti, bisognerebbe vedere: nel senso che è vero, non si sono candidati i suoi ministri, ma si sono candidati moltissimi della cosiddetta – parlando con il “pardon”, come si dice in Piemonte – società civile. Occorre poi prendere in considerazione l’attenuarsi della dialettica tra borghesia e proletariato in quella che secondo Marx è la terza fase del capitalismo, cioè quella del capitalismo finanziario che diventa capitalismo anonimo, dove la borghesia perde i valori morali sui quali si fondava la sua legittimazione. Forse il governo Monti e le sue pretese democratiche si inquadrano in questa situazione.

Ferrara. Madame Goulard, mi sembra che il senatore Debenedetti abbia detto una cosa un po’ pascaliana: le ragioni del cuore che la ragione non comprende. Ha fatto un riferimento alla sua giovinezza, alla ricostruzione di questo paese. Nel pamphlet del senatore Debenedetti è molto forte questa convinzione, implicita – anche se con un approccio più weberiano – nel pensiero di Rita Di Leo: con la competenza, con lo specialismo, con la capacità di maneggiare i numeri eurocratica non si va da nessuna parte, perché la storia è fatta di passioni umane, di profili culturali, che sono sull’asse destra-sinistra, e quindi bisogna scegliere e far vivere il bipolarismo.

Goulard. Prima di tutto c’è da dire che la giovinezza è sempre il momento più bello della vita, dunque il senatore cita il gioco democratico e il dibattito politico della sua giovinezza, ma forse c’è in questo, oltre all’analisi, anche un po’ di nostalgia. Parlando più seriamente: c’è una passione molto artificiale nel dibattito quando la realtà viene dimenticata. Succede in Italia in questo momento, esattamente come in Francia l’anno scorso durante la campagna elettorale. Io non vorrei dire che questa è una visione elitaria, della “competenza” che si oppone al “popolo”, e lo dimostro parlando del caso francese. Quando l’anno scorso uno come Nicolas Sarkozy diceva: “Usciamo dagli accordi di Schengen”, François Hollande rispondeva: “Con me il nuovo trattato sulla disciplina di bilancio, il cosiddetto Fiscal compact, andrà rinegoziato”: questo era un tipico confronto tra destra che giocava sulla paura dell’immigrazione e sinistra che gioca sul rifiuto della disciplina fiscale, eppure conteneva soprattutto delle bugie. Cosa è successo dopo? Hollande è stato eletto presidente della Repubblica e ha ratificato il Fiscal compact, e ha fatto bene perché si trattava di mantenere la parola della Francia con i partner. Ciò non vuol dire che io creda che la vita si riduce alla competenza e alla tecnica. Tuttavia è affascinante quello che Debenedetti ha detto. Ora stiamo qui a discutere sul fatto se Monti abbia o meno posto un limite temporale al suo operato, ma negli ultimi mesi del 2011 si temeva la distruzione della zona euro, della moneta unica e dell’Europa. Era quella la sfida, e io rendo omaggio al presidente della Repubblica italiano, Giorgio Napolitano, perché chiamando Monti a Palazzo Chigi, con l’appoggio delle principali forze politiche del Parlamento, non ha fatto solo una cosa per l’Italia, ma ha fatto una cosa che rimarrà nella storia dell’Europa. Ha dato Monti all’Italia e all’Europa con una missione essenziale: ridare credibilità al paese, stabilità all’euro, e dunque era cruciale dire che sarebbe rimasto al potere “per tutta la durata della legislatura”, anche perché in ogni caso non si trattava di 5 anni ma di circa 15 mesi. Questo dibattito è troppo centrato sull’Italia, così come in Francia abbiamo dibattiti solo su di noi, mentre la sfida vera è molto più larga, è la credibilità dell’Europa, dell’euro. E l’euro non è solo una roba da tecnici: l’euro aiuta le imprese ad esportare, dà lavoro. Certo sarebbe bello non dover lavorare e non doversi occupare dell’economia…ma non è così.
Torno adesso sulla “volontà generale”. La volontà generale è una cosa bellissima ma, in un mondo in cui siamo tutti interdipendenti, dobbiamo capire che la nostra volontà deve essere compatibile con quella dei tedeschi, degli italiani, dei cinesi e via dicendo. Non abbiamo un governo mondiale, e dunque dobbiamo sempre prendere decisioni politiche tenendo conto dell’interdipendenza. Se le prendessimo senza tenere conto della realtà, le stesse decisioni non sarebbero nell’interesse del popolo. Questo non è elitarismo ma egoismo della classe politica che non prende in considerazione gli interessi veri delle future generazioni. I demagoghi, i nazionalisti, danno l’impressione di essere vicini al popolo ma spesso non agiscono nell’interesse del popolo. Noi possiamo fare queste campagne dove si mangia la pizza o si accarezzano i cuccioli, poi però c’è la realtà, molto dura, quella che vede una società invecchiare molto rapidamente e che vede gli altri paesi impazienti di prendere i nostri posti dentro il Fondo monetario internazionale e nelle altre organizzazioni internazionali. E’ questa la realtà di oggi, dobbiamo vedere dunque il mondo come è, durissimo, e in questo contesto la costruzione dell’Europa è un processo piuttosto utile e bello, anche per le future generazioni.

Di Leo. La necessità di avere una nuova volontà generale è legata molto alla capacità che l’élite finanziaria transnazionale riesca addirittura a produrre un suo progetto che metta insieme l’Europa e gli altri paesi che stanno facendo tutto quello che vogliono senza che nessuno possa intervenire. Io non credo che per quel che riguarda la volontà generale, e cioè il desiderio che l’élite finanziaria sia in grado di farsi una sua politica progetto e quindi di esprimere una realtà generale, si parta dal nulla. Faccio un esempio: il fratello del senatore Debenedetti, Carlo, ha raccontato pubblicamente che il giorno prima dell’11 settembre 2001, a cena con l’élite del gruppo Carlyle, attorno a un tavolo c’erano George W. Bush padre, due fratelli di Osama bin Laden, c’erano francesi, tedeschi, arabi, c’era cioè l’élite transnazionale. Dobbiamo accettare che noi oggi siamo nelle mani delle élite transnazionali. E’ bellissimo pensare che l’Europa ce la faccia a superare la crisi attuale, e dobbiamo avere l’orgoglio in quanto europei per quello che abbiamo dato al resto del mondo e per il fatto che da qui possa venire una nuova idea, ma al momento c’è un’élite transnazionale alla quale noi partecipiamo come europei ma tra i tanti. Questa è la cosa che ci deve fare più male come europei, non tanto come italiani.

 

 

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