Il cervello non ama i suoni stridenti

gennaio 23, 2011


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di Arnaldo Benini

All’inizio del secolo scorso Arnold Schönberg era certo che da lì a cinquanta anni la sua musica sarebbe stata fischiettata per le strade. Anche la musica di Beethoven, diceva, non fu capita fino al successo di Freude schöner Götterfunken. Schönberg è morto quasi sessanta anni fa e la musica dodecafonica sua e di Theodor Adorno, quella concreta di Karlheinz Stockhausen, i collage di rumori di Pierre Henri, le composizioni di Alban Berg, di Pierre Boulez non trovano accesso alla cultura di massa. Se si suona quella musica, hanno scritto i musicologi Christoph Drösser e Alex Ross, le sale si svuotano.

Famoso, in Germania, è uno sketch su un pubblico allibito e disposto ad accettare, senza capirci nulla, qualsiasi non senso gli propini un musicista (www.hapekerlinghurz.de). La musica dodecafonica è nata contemporaneamente all’arte non figurativa, che, in tutte le sue espressioni – anche quelle più sperimentali – ha avuto successo di critica, di pubblico e di mercato. Il critico musicale del «New Yorker» Alex Ross fa l’errore di credere che ciò dipenda dal non aver riservato all’inizio della nuova musica sale per i suoi concerti, analoghi ai musei d’arte moderna. È lecito pensare che quelle sale sarebbero rimaste deserte. Thomas Mann registrava nel diario la musica che ascoltava. Egli lesse molto e parlò a lungo di musica dodecafonica con Strindberg e con Adorno durante il lavoro al Doktor Faustus, e non è inverosimile che l’abbia ascoltata. Di essa nel diario, accanto ai ricorrenti Verdi, Puccini, Mahler, Brahms, Bizet, e altri non si fa cenno. Nel 1954 la radio di Stoccarda trasmise, con un suo commento, la musica che più amava: di Wagner, Debussy, Schubert, Schumann, Beethoven.
I musicisti moderni esprimono la loro intuizione e il loro stato d’animo con suoni che la maggior parte dei cervelli percepisce con fastidio. Questo è uno dei dilemmi che la musica pone al biologo, oltre a quello se essa sia un adattamento evolutivo e un obiettivo della selezione naturale, come il linguaggio, o non piuttosto una tecnologia e una peculiarità incidentali del sistema nervoso, come pensava William James. Il libro di Anniruddh D. Patel, dell’Istituto di Neuroscienze di San Diego in California, è frutto di competenza musicale, linguistica e neuroscientifica e di ricerche interdisciplinari in ambito neuropsicologico, psicolinguistico, di etnologia musicale e di visualizzazione delle aree cerebrali. L’universalità della musica, e la specializzazione del cervello per certi suoi aspetti, non provano che le capacità musicali siano state un obiettivo diretto della selezione naturale, tanto più che la mente – dice Patel – non sembra essere stata particolarmente foggiata per la cognizione musicale. La musica non è un fronzolo dell’esistenza, perché essa appartiene a quelle cose inventate o scoperte dall’uomo per cambiare la vita (il fuoco, i numeri, il gioco degli scacchi, eccetera) delle quali non può fare a meno. La musica (come qualunque esperienza percettiva e mentale) ha la capacità di cambiare l’intima struttura del cervello, allargando certe aree o specializzandole per particolari conoscenze musicali, come le melodie. Le modificazioni del cervello possono avere aspetti inattesi. Una melodia può provocare particolari forme di attacchi epilettici in chi l’ascolta o la suona, un semplice rumore mai. La musica senza sintassi non è riconosciuta e anticipata nelle aree della percezione musicale che suscitano le successioni di emozioni e sentimenti della musica tradizionale. La musica senza sintassi, dopo quasi un secolo dai suoi inizi, non ha accesso alle strutture cerebrali dei centri musicali per la caratteristica che Adorno da lei pretende, vale a dire che non si appelli al “Lustprinzip”, al principio del desiderio di emozioni e di piaceri delle forme melodiche. La musica è universale, anche se il suo linguaggio non lo è: la nostra scala di toni è altrettanto innaturale quanto quella della musica indiana e asiatica, che alle nostre orecchie suona, dicono i tedeschi, schräg, cioè sbilenca, come la nostra alle loro orecchie. Patel si sofferma sul condizionamento che la musica dell’ambiente in cui si nasce esercita non solo sull’artista ma anche sugli unici animali capaci di qualcosa che si avvicini alla musica, che sono gli uccelli e le balene. Negli animali esistono prove sperimentali di tali condizionamenti.
I 12 filosofi, psicologi e sociologi autori del libro curato da M. Nudds e C. O’Callaghan si occupano delle caratteristiche spaziali e psicologiche del suono, del suono del linguaggio e della musica. Anche un semplice rumore può essere ricco di informazioni. Roger Scruton sostiene che un suono musicale non è una proprietà della sua sorgente, ma un evento oggetto di attenzione estetica perché ascoltare musica non significa ascoltare i suoni come tali. Andy Hamilton nega tale dissociazione. Pur senza riferimenti a dati sperimentali, i contributi di vari autori alla fenomenologia della percezione del silenzio, diversa dalla sordità come la visione del buio è diversa dalla cecità, sono quanto di più interessante su questo tema si sia letto negli ultimi anni. A conferma dell’esperienza con la IX sinfonia di Mahler nell’agosto scorso a Lucerna: i quasi due minuti di silenzio che Claudio Abbado ha aggiunto al finale tragico erano espressivi quanto la musica.

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