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Il capitalismo non è un’equazione

Pubblicato il 20/05/2014 @ 11:08 in Consigliati e recensiti,Giornali,Il Sole 24 Ore,Libri


Thomas Piketty
Le Capital au XXIème siècle
SEUIL, 2013


Alcune delle formule che hanno cambiato il nostro modo di capire il mondo sono semplici e compatte: quella di Einstein dell’equivalenza di massa ed energia, quella che definisce l’entropia, che Planck scrisse sulla tomba di Blotzmann. La formula della “diseguaglianza fondamentale”, che “in un certo senso riassume la logica complessiva” del lavoro di Thomas Piketty, quanto a compattezza è imbattibile imbattibile: “r>g”. Ma che sia la legge bronzea che spiega il funzionamento del “capitale del XXI secolo” è tutto da vedere.

Nella formula “g” è la crescita, “r” il rendimento del capitale. Quale capitale? Per Piketty capitale non sono solo i mezzi di produzione, ma qualsiasi proprietà che abbia un valore, quindi anche case, terreni; non conta se la proprietà sia produttiva o no, conta il suo valore di mercato. La misura del capitale è finanziaria, non fisica; “r” non indica la variazione delle quantità fisiche ma del valore che ad esso viene attribuito: questo, come sappiamo dall’epoca dei tulipani, si gonfia col formarsi delle bolle e crolla al loro scoppiare. Non c’è nessuna ragione per credere che ci sia una qualche relazione tra valore finanziario e sviluppo economico. Può perfino succedere che una politica volta a consentire a tutti di possedere una casa (e cosi far crescere “g”) produca la bolla del subprime, e il conseguente disastro finanziario (che fa crollare “r”). È la speranza di guadagno del 99% che fa salire i corsi azionari e quindi il valore finanziario degli asset azionari dell’1%. I guadagni dei protagonisti dello star system (calciatori, cantanti, supermanager) sono la conseguenza di strategie (magari distorte) delle aziende per primeggiare nel più vasto “star system” del mercato globale, e lucrare le relative economie di scala.

Mettere tutto insieme, considerare solo gli aggregati statistici, nasconde la realtà del fenomeno: c’è sempre un 1% più ricco, ma in quel club i soci entrano ed escono in continuazione, le persone che ne fanno parte non sono sempre le stesse, perché le loro ricchezze possono aumentare o dissolversi. «I ricchi, scrive Francesco Forte, sono come il fiume Po, che è molto più grande dei suoi affluenti; le sue acque cambiano continuamente, ma tutte finiscono in mare». Il capitale non è una massa omogenea che cresce automaticamente al passar del tempo: i T bills, considerati a rischio nullo, hanno oggi un rendimento netto negativo. Il rendimento è sempre correlato al rischio, un concetto estraneo alla “teoria generale” di Piketty. Il rendimento del 4% – 5% (pre-tasse) Piketty lo desume dalle serie storiche: la garanzia di ottenerlo gli varrebbe il biglietto di ingresso nel club dell’1%. Se la sua preoccupazione è la concentrazione di potere politico nelle mani di pochi, allora ben maggiore attenzione dovrebbe essere rivolta alle grandi public company, che invece non compaiono. Eppure la “r” riguarda anche loro e i milioni di risparmiatori che direttamente o indirettamente, ne detengono quote.

La crescita dei fondi pensione, l’aveva previsto Drucker un quarto di secolo fa, ha fatto dei salariati i proprietari della maggiore quota del capitale dell’industria americana: ma per Piketty la strada dell’uguaglianza passa attraverso una fiscalità confiscatrice, attraverso la redistribuzione del capitale anziché la distribuzione della proprietà. Se si ritiene che il return on asset sia eccessivo, invece che tassare gli asset si può ridurre il return, aumentando i salari minimi, alzando le tasse sui profitti aziendali, favorendo la concorrenza. Se si vuol trovare la ragione dell’aumento della diseguaglianza nei paesi sviluppati, più che al rapporto tra capitale e reddito, conviene guardare all’andamento dei salari, a come su di essi abbiano influito innovazione tecnologica e globalizzazione, due fatti estranei al determinismo di Piketty. Piketty ammette che se guardiamo al mondo le diseguaglianze sono molto diminuite; però poi dice che dobbiamo guardare agli Stati nazionali, sia per una questione di reperibilità e affidabiltà dei dati, sia per una questione politica. E poi propone un’imposta sulla ricchezza che richiede un governo mondiale.

Questo è l’oggetto della quarta parte de Le Capital au XXIème siècle: come “regolare” il capitale. Non basta portare all’80% l’aliquota dell’imposta progressiva sui redditi superiori a 500.000 dollari, bisogna inventare «uno strumento nuovo, adatto alle sfide attuali»: un’imposta mondiale e progressiva sul capitale, che arrivi fino al 5% annuo, accompagnato da una grande trasparenza finanziaria internazionale». Il suo scopo non è finanziare lo stato sociale, ma «regolare il capitalismo». «Utile utopia», la definisce. Per Piketty utopia è la realizzabilità di un simile accordo. Ma in realtà la vera utopia è che sia utile; utopia, ma sarebbe meglio dire fallacia, è pensare che tagliare “r” diminuisca la “diseguaglianza fondamentale”, cioè presupporre che “g” resti costante. Essendo pure utopia, ma sarebbe meglio dire incubo, pensare come il governo gestirà qualcosa tra i 2/3 e ¾ del Pil che dovrebbe far crescere “g”. Tasse confiscatorie contraddicono i principi su cui si fonda una vibrante economia capitalista; «è difficile, scrive Tyler Cowen, trovare esempi di società ben funzionanti che non si basino su un forte rispetto e sostegno legale, politico e istituzionale per i suoi cittadini più di successo».

Piketty non è Rawls; i 115 tra grafici e tabelle e le 1000 pagine del suo libro (nell’edizione originale) non bastano a farne un libro importante. È un libro politico, che ha successo in funzione delle circostanze, perché da anni si ciarla di bonus dei banchieri. Non è lui che fa montare il sentimento anticapitalista, è il sentimento anticapitalista che si illude di aver trovato, tra tabelle e pagine, una solida giustificazione.

Piketty tocca nervi scoperti: negli Usa e nei Paesi europei, nuove tecnologie e mondo globalizzato mettono in tensione i principi su cui si basa la coesione nazionale. Ma la soluzione non è il suo progetto scientista. I modi per produrre maggiore crescita non sono prevedibili a priori, li scoprono gli imprenditori che operano in un mercato libero. Dalla “regolazione” di Piketty inutile aspettarsi crescita.

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