Il candidato Debenedetti: «Io, i Bot, e Bertinotti…»

febbraio 27, 1994


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica


intervista di Ettore Boffano


C’è un operaio, un o­peraio in tuta blu nelle fantasie e­lettorali di Franco Debenedetti, 61 anni, ingegnere, ex manager dell’Oliveti; e fratello di Carlo, l’Ingegnere di Ivrea. Un operaio torinese che, la mattina del 27 marzo, dovrà decidere se sce­glierlo come senatore progressi­sta scartando Valerio Zanone, I’ ex sindaco liberale passato al Pat­to di Segni, e Gipo Farassino, l’ex chansonnier oggi luogotenente di Bossi all’ombra della Mole.

Ingegner Debenedetti, il suo problema elettorale sembra proprio questo: può un ex imprenditore convincere un ope­raio a votare per lui?

«I miei problemi, in realtà sono due. Convincere l’estrema sinistra e convincere il centro. Il nuovo sistema fa si che il voto coinvolga sia lo schieramento che la persona. Io devo convincere il centro ad accettare il mio schieramento, mentre devo con­vincere la sinistra ad accettare la mia persona».

Cominciamo dalla sinistra. Che cosa direbbe a quell’ope­raio in tuta blu?

«Che, questa volta, non ha un comunista da scegliere. Può vo­tare per Zanone, per Farassino oppure per me. E vorrei dirgli che io porterò in politica la mia esperienza su un tema priorita­rio: sviluppo e occupazione. È la stessa cosa che vuole quell’ope­raio. Parlo di Torino, del suo fu­turo: non possiamo arroccarci su una linea difensiva, e fare con­correnza alla Malesia e alla Cina sul costo del lavoro. Dobbiamo invece produrre cose che gli altri non sanno fare. Allora, a quell’o­peraio, mi sento di dire che io cre­do di avere più competenze, più rapporti e più idee di uno chan­sonnier. Non c’è altra scelta».

Basterà? Oggi, quell’operaio sente soprattutto i discorsi di Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista e anche lui candidato per la Ca­mera a Torino. Parole molto di­verse dalle sue.

«Siamo nello stesso schiera­mento, ma quanto alle scelte i­deologiche non abbiamo nulla in comune. Questo voglio dirlo con chiarezza; Bertinotti è uno che, sul nostro fronte, guarda al passato. Come capita d’altronde anche a Berlusconi. Quando ab­biamo posto la questione di Rifondazione a Occhetto, con la let­tera firmata da tredici intellet­tuali torinesi, volevamo dire pro­prio queste cose. Ma poi non c’e­rano soluzioni diverse, non ave­vamo candidati da proporre in al­ternativa a quelli di Rifondazio­ne. Gli intellettuali non sono scesi in campo e secondo me hanno fatto bene: il loro ruolo re­sta quello di coscienza critica. Ora però, conta l’unità. E se poi qualcuno vuole andare a Cuba, lo faccia pure. Oggi non è questo l’importante».

Che ne pensa della proposta di Bertinotti di tassare i Bot?

«Mi sembra una follia. Qualcu­no, poi, ha detto che ci può essere un metodo anche nella follia. In questo caso, però, io vedo molta follia (che sui Bot vuol dire terro­rizzare la gente) e pochissimo metodo (che dovrebbe essere l’e­quità fiscale). La ricerca dell’e­quità fiscale, questo si, è invece un obiettivo irrinunciabile dei progressisti».

Ma dopo il voto? Bertinotti sarà ancora li, con le sue idee…

«Se saremo maggioranza, sarà un problema più di Bertinotti che mio. Sarà lui a dover spiegare se accetta una politica non ideo­logica, ma realistica».

Resta il problema Zanone: insomma, la necessità di pesca­re voti al centro.

«Si, Zanone è una persona se­ria e, quando discuto con lui, non trovo molti punti di contrasto. È stato sindaco di Torino, ma se n’è andato senza convincere troppo i torinesi di questa sua scelta. È stato segretario di partito e anche ministro della Difesa, occupan­dosi di una vicenda drammatica come quella di Ustica. A lui vor­rei dire che in politica, come nel­l’industria, quando cambiano le strategie e le situazioni bisogna cambiare anche gli uomini».

Veniamo a Berlusconi, il vero avversarlo dei progressisti. Berlusconi, un nome che evoca dure battaglie per uno che si chiama Debenedetti e che è stato manager dell’Olivetti. L’a­vrebbe mai immaginato che il Cavaliere scendesse in politica e che ottenesse consensi così ampi?

«Che tutto ciò potesse accade­re lo avevano intuito e detto, quando ancora non se ne parla­va, soltanto due persone: mio fra­tello Carlo ed Eugenio Scalfari. Quanto al successo, devo dire, purtroppo, che ero stato un buon profeta. Alle prime avvisaglie, ne parlai con un famoso giornalista che mi rispose. “Gli ho consiglia­to di lasciar perdere: saranno e­letti lui e al massimo, quattro o cinque deputati”. Mi stupisce davvero che tanta gente lo abbia sottovalutato…».

Berlusconi è un imprendito­re come lei. Franco Debene­detti, dunque, è la persona più giusta per contestare la scelta del Cavaliere?

«Il problema non è l’impren­ditore. Quello che mi sembra imperdonabile è di aver chiama­to il suo gruppo ‘polo della li­bertà’. Uno come lui non poteva farlo. lo non gli contesto il dirit­to di far politica, magari restando anche amministratore delegato delle sue società. Il problema, invece, è la posizione domi­nante: politica o non politica, Berlusconi ha cinque reti tv e il monopolio della raccolta pub­blicitaria. Lo statalismo all’ita­liana è stato come una partita tra due squadre dove l’arbitro era anche giocatore. Berlusconi si vanta di garantire, anche lui, la correttezza delle sue reti. Cioè scende in campo da arbitro e da giocatore. E poi c’è qualcosa che non mi sembra di aver ancora letto su di lui: Berlusconi, al di là della sua azienda e della sua atti­vità, dà l’idea di non avere con­tatti con nulla.. Non ha storia, non ha radici, cosi come la sua politica. L’unico suo referente è l’audience, ma come dice Maninazzoli l’audience è il nulla. Esi­ste solo perché esistono le sue a­ziende e non ha nessuna appar­tenenza sociale: ne aveva di più il suo amico Craxi. Berlusconi è cosi, sembra galleggiare nel nul­la».

Non le pare una critica un po’ eccessiva?

«Guardi, chi come Berlusconi racconta che ci sarà subito un miracolo economico, è immo­rale, offende i disoccupati. Ber­lusconi è uno che, per difendere i propri interessi, illude la gente. Infine, c’è l’aspetto politico: questo agitare il fantasma del co­munismo. Uno che si propone in politica in quanto imprenditore e guarda al passato, è un politico strabico, fuori dalla storia: come fa a progettare il futuro se è os­sessionate, dal passato?»

Torniamo a Torino: il suo collegio è quello dove vota il cardinale Giovanni Saldarini, vicepresidente della Cei. Il Partito Popolare lo ha un po’ “tradito”, offrendogli la candidatura del liberale Zanone, un massone «in sonno» che, pro­prio per questo, non ebbe i favori della Curia al momento della sua elezione a sindaco. Poi c’è lei, compagno di strada degli ex comunisti, e il leghista Farassino. Chi dovrà scegliere l’arcivescovo di Torino?

«Sono certo che il cardinale voterà comunque per qualcuno e non farà il Ponzio Pilato, lavandosene le mani. Se potessi par­largli, sono convinto che riusci­rei a persuaderlo e, penso, senza bisogno di ricordargli che ho studiato nel liceo cattolico torinese «San Giuseppe» o che i Cri­stiano-Sociali sono una compo­nente fondamentale di Alleanza Democratica…»

Un’ultima domanda: ma in questa «nuova politica», lei non ci vede un po’ di trasformismo?

«Che il trasformismo si insi­nui è inevitabile, ma la garanzia migliore restano sempre gli elettori chiamati a giudicare e a sce­gliere».

E lei, imprenditore passato alla politica, non si sente un po’ trasformista?

«No, guardi, davvero. Anche perché non saprei dirle da che cosa e in che cosa mi sarei trasformato…».

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