Il buono di Tremonti

luglio 7, 2004


Pubblicato In: Varie


«E noi cosa faremmo?» mi sono chiesto molte volte in questi anni, discutendo insieme ai colleghi di partito sulle manovre di Tremonti. Non credo sia azzardato ipotizzare, supporre, credere, temere (vasta è la gamma di opinioni di cui dispone il Centrosinistra) che avremmo applicato rigidamente i sacri testi, che avremmo descritto la situazione per quello che era, e che avremmo cercato altre entrate per compensare quelle ridotte dalla congiuntura negativa. In altre parole, che avremmo aumentato le tasse.

Tremonti è riuscito – come ho già ricordato in un’intervista da cui prende spunto Franco Grassini per un articolo sul «Piccolo» di ieri – a tirare avanti con invenzioni, alcune brillanti, altre non condivisibili, altre al limite del trucco. Tra le prime – solo per citarne una – metto l’idea che le proprietà dello Stato, come tutti i patrimoni, debbano rendere; e quindi di fare della Cassa Depositi e Prestiti un ente analogo a quelli tedeschi e francese, a controllo pubblico, ma che Eurostat non contabilizza nel bilancio pubblico. La cessione di alcune partecipazioni con istruzioni che impediscano di perderne il controllo potrà essere considerata poco elegante, ma non reca alcun danno alle finanze pubbliche. Tra quelle non condivisibili metto i condoni. E tra i trucchi metto le numerose leggi con copertura finanziaria, per usare un eufemismo, dubbia.

E il trucco massimo, aver promesso liberismo e aver dato colbertismo. Per questo riconoscerlo mi costa: ma credo che, tutto sommato, e tenuto conto della serie di congiunture negative che si sono abbattute sulle economie mondiali dal 2001 in avanti, glielo si debba riconoscere, con un voto positivo.
Il voto positivo glielo ha dato anche l’Europa. E quanto al patto, eravamo noi a chiedere che l’Italia si facesse promotrice di una modifica del «patto stupido»: Tremonti, almeno stando a quanto mi disse lui stesso, aveva capito che i grandi l’avrebbero modificato nel senso di maggiore severità per i Paesi ad alto debito, cioè a nostro danno, e per questo fu accondiscendente alle richieste dei Paesi ad alto deficit.

Sulle Fondazioni bancarie, la tesi che non debbano contribuire agli assetti proprietari di banche, assicurazioni e imprese, l’ho sostenuta (con un disegno di legge) da quando Tremonti era ancora un ricercato fiscalista. Che il controllo su fusioni e concentrazioni bancarie debba passare da Bankitalia all’Antitrust idem. Giusti e condivisibili propositi, dunque, traditi proprio dall’arroganza con cui Tremonti ha portato avanti questi temi, e in generale, tutte le sue iniziative.

Ho usato, nella mia intervista al «Corriere», la parola «rigore», e ringrazio per l’occasione, che mi viene data, di poter fare una precisazione. Non si può certo parlare di rigore nella gestione della spesa pubblica: basta ricordare che non solo il costo, ma il numero dei dipendenti pubblici é aumentato, segno che il controllo da parte del Tesoro é stato inadeguato a contrastare le pressioni che vengono da tutti i ministeri di spesa. Parlando di «rigore» lo facevo con chiaro riferimento al vento che spira forte e chiede politiche clientelari, sussidi soprattutto nel Mezzogiorno, posizioni di potere, soprattutto attraverso le aziende di Stato. È lo stesso «rigore» che gli riconosce Franco Grassini, con riferimento ad alcune nomine. Sulla possibilità/volontà di resistere in questa situazione politica, in una continua vigilia elettorale, io faccio previsioni nerissime. È essenzialmente in questo senso che ho detto, e ripeto, che potremmo finire per rimpiangere Tremonti.

Resta la questione delle imposte. Che a rigor di logica neppure c’entra con il giudizio su Tremonti, che questa riforma l’ha solo enunciata, con una legge di principio, ma non attuata. Ma, poiché tanto se ne parla, ho colto l’occasione per ricordare che tagli delle tasse e taglio delle spese non sono due facce della stessa medaglia, sono due cose diverse obbligate a stare insieme dal vincolo di bilancio. Ma diverse restano: una riguarda i comportamenti dei cittadini, che cosa fanno della loro vita, l’altra la capacità dei governanti, che cosa ne fanno dei beni che devono amministrare.
Io credo che il maggior difetto da rimproverare a Tremonti sia la carica ideologica, che l’arroganza rendeva ancora più evidente. Sono difetti da cui non possiamo, onestamente, dirci immuni. Il Paese ha bisogno di governi normali, con molti ideali e poca ideologia, con fantasia ma senza trucchi, con rigore ma senza rigidità; che sappiano liberalizzare; che proteggano chi ha bisogno, ma non dimentichino di premiare chi ha meriti. Quel giorno non rimpiangeremo Tremonti.

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