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Idee per curare il debito pubblico italiano

Pubblicato il 21/04/2018 @ 19:22 in Articoli Correlati


Interventi di Veronica De Romanis, Marcello Messori e Mario Seminerio curati da Maria Carla Sicilia

Veronica De Romanis
Docente di European economics alla Luiss Guido Carli

“L’opinione pubblica è stata sedata da due efficaci anestetici”, scrive Guido Tabellini nel suo articolo, riferendosi alle rassicurazioni della politica sullo stato dell’economia italiana e al Qe della Banca centrale europea. La mia impressione è che negli ultimi anni la realtà sia stata completamente capovolta nel racconto collettivo: si è parlato di austerità quando in Italia l’austerità non c’è mai stata dopo il governo Monti, tanto che dal 2014 a oggi il debito pubblico è ancora cresciuto. Oggi rischiamo di pagare nel momento peggiore il prezzo di una politica espansiva, dopo tre anni di crescita, alla vigilia di importanti cambiamenti economici. Il prossimo ottobre, chiunque sarà premier, si troverà a mettere le mani su una legge di Stabilità che, così com’è, costerà circa 35/40 miliardi. Una cifra da spendere solo per sanare i conti del passato: tra clausole di salvaguardia, circa 12,3 miliardi per il 2019 e 19,5 miliardi per il 2020, le correzioni sul Def che chiede l’Europa, pari a circa 3 miliardi, gli impegni dei precedenti governi Renzi e Gentiloni – pareggio di bilancio, rinnovo dei contratti pubblici e missioni internazionali. Poi bisognerà capire cosa fare da oggi in poi: quanto ci costerà investire nel futuro e nelle riforme?

Per guardare al futuro non si può evitare di affrontare il problema numero uno, il debito pubblico, che ci rende un paese estremamente vulnerabile. I mercati al momento sono rimasti fermi, ma ci hanno insegnato che reagiscono quando meno ce lo aspettiamo. Non dobbiamo dimenticarlo e, se non vogliamo essere vulnerabili, dobbiamo intervenire sul debito pubblico. La strada può essere quella tracciata da Tabellini, portando l’avanzo primario verso il 4 per cento, come hanno fatto in altri paesi che l’autore ricorda nel suo articolo. Tuttavia non sembra quella scelta dai partiti chiamati a formare il prossimo governo. Il programma economico della Lega, secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, prevede un avanzo primario che tende allo 0 e un disavanzo che supera il 3 per cento, immaginando nel contempo un debito pubblico in diminuzione. In generale nei programmi elettorali di tutti i partiti, eccetto + Europa, è prevista una crescita del pil molto ottimista, tramite la quale si intende risanare le finanze pubbliche italiane. Ma riforme e crescita non bastano, serve l’aggiustamento del disavanzo.

Nel medio termine rischiamo di dover fare un aggiustamento costoso in uno dei momenti meno ideale: a ottobre forse il sostegno della Bce non ci sarà più e forse, come diceva Tabellini, l’espansione del commercio mondiale sarà molto più moderata. Il risultato di anni di politica fiscale espansiva e di flessibilità è il forte rischio di una politica fiscale prociclica, che renderà ancora più negativa l’eventuale fase negativa del ciclo.

Marcello Messori
Docente di Economia alla Luiss Guido Carli e direttore della Luiss School of European Political Economy

La diagnosi che emerge dall’articolo di Guido Tabellini rispetto alla situazione economica italiana è del tutto appropriata e ne condivido quelli che mi sembrano i tre punti chiave. Manca tuttavia la proposta di possibili soluzioni, che pure l’autore ha avanzato in altre sedi. Tabellini sottolinea un fatto assolutamente corretto e cioè che un’unione monetaria in cui non vi sia unificazione fiscale, dove manchi quindi una Banca centrale garante nei confronti del debito degli stati membri, è soggetta a vulnerabilità nella gestione dei debiti pubblici nazionali. Per usare le parole dell’autore, è come se il debito pubblico fosse espresso in una valuta estera e fosse quindi soggetto a forti rischi di insostenibilità se raggiunge un peso eccessivo rispetto al Pil.

Il secondo punto che condivido è che per mettere in sicurezza il debito pubblico italiano bisognerebbe avere un avanzo primario intorno al 4 per cento. Questo consentirebbe in una decina di anni di fare scendere il rapporto debito/pil intorno al 100 per cento, posto che vi sia una crescita positiva anche se contenuta. Tuttavia, sarei ancora più drastico di Tabellini su quello che mi sembra il terzo punto chiave, cioè che né economicamente né politicamente questo ripetuto avanzo sarebbe sostenibile in Italia.

Come si esce dunque da questo circolo vizioso, mettendo in sicurezza il rapporto debito pubblico/pil anche senza avere un avanzo primario del 4 per cento? Qualche mese fa alla Luiss School of European Political Economy abbiamo avanzato una proposta (cfr. Bastasin, Messori, Toniolo, ”Il debito pubblico italiano: una proposta“) che permetterebbe di raggiungere tale obiettivo anche realizzando un più sostenibile avanzo primario intorno al 2,5 per cento. La condizione da porre è che l’Esm, il meccanismo europeo di stabilità, si impegni ad acquistare quote proprietarie di un fondo patrimoniale nazionale per compensare la differenza tra l’effettivo aggiustamento annuale del bilancio italiano e quello difficilmente praticabile del 4%.

La questione non può essere rimandata, non abbiamo un tempo infinito per porre rimedio. Senza volere essere profeti di sventura, possiamo ragionevolmente aspettarci un rallentamento dell’economia e un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti. Presto o tardi anche i tassi europei seguiranno il trend, spinti anche dalla fine del quantitative easing. Quale che sia il prossimo governo dovrà affrontare il tema mettendo in sicurezza il debito pubblico prima che la situazione peggiori.

Mario Seminerio
Analista economico, autore del blog phastidio.net

Pur condividendo l’analisi, nutro qualche dubbio sulla via indicata come soluzione da Guido Tabellini nel suo articolo. L’autore non spiega infatti quali impatti depressivi può avere un obiettivo così impegnativo quale è quello di portare l’avanzo primario al 4 per cento del pil: anche ammettendo una riqualificazione della spesa, l’impegno sottrarrebbe comunque risorse al paese. Per sostenere la sua tesi Tabellini riporta l’esempio di paesi come Belgio e Canada. Tuttavia mi pare che si tratti di contesti completamente diversi da quello italiano, a partire dal periodo di riferimento: il pil nominale, tra la metà degli anni Novanta e il 2007, cresceva in maniera piuttosto confortevole aiutando a invertire il rapporto debito/pil. L’Italia invece si misura da parecchi anni con un quadro generale e interno di bassa inflazione e di bassa crescita. I paragoni con altri contesti spazio temporali ci portano fuori strada rispetto alle possibili soluzioni.

Trovare il modo di stimolare la crescita è fondamentale. Se non riusciamo a far crescere il pil nominale più del costo medio del debito, il rapporto di indebitamento non potrà scendere. Un problema da affrontare quando la Bce terminerà il suo piano di quantitative easing. Al di là di tutti i fattori di rischio esterni che pure esistono – dal rallentamento dell’economia mondiale alla minaccia delle politiche protezionistiche – l’Italia presenta un fattore di vulnerabilità propria che si chiama demografia. Tra tutti i paesi più sviluppati, insieme al Giappone è uno dei paesi più anziani al mondo, ma a differenza del Giappone ha un tessuto economico che non sviluppa sufficiente crescita della produttività e del valore aggiunto. Siamo prigionieri di un contesto demograficamente avverso, uno dei fattori più depressivo per il nostro sviluppo economico. Se continuiamo a focalizzarci sull’avanzo primario e su altre misure del genere ci ritroveremo con una nuova crisi del debito. In quel caso non vedo vie d’uscita diverse da un default o da una gigantesca manovra patrimoniale per ripagare il debito pubblico, come già accaduto con il governo Monti nel 2011. Un esito difficile da prevenire, quando la demografia gioca contro non c’è molto da fare. Per stimolare la crescita sarebbe più utile ripensare la pubblica amministrazione, nuovi meccanismi di raccordo tra formazione e mondo delle imprese, politiche di welfare in grado di incidere sulla natalità. Si tratta di interventi di lungo termine, che male si affiancano all’aumento dell’avanzo primario e al taglio della spesa primaria.

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