I social non sono la “nuova barbarie”. Contro la retorica intellò

giugno 29, 2021


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


L’articolo risponde a quello di Bernard-Henry Lévy, pubblicato su La Repubblica del 19 giugno 2021

È di Claude Lévy Strauss un libro fondamentale nella mia formazione, “Tristi tropici”: l’empatia per i Nambikwara mi fece capire la necessità di svestirsi del proprio background culturale per comprendere un nuovo mondo lontano dalle categorie etnocentriche di un occidente globalizzante e annullatore di qualsiasi forma di diversità culturale. Per questo credo che avrebbe criticato “La nuova barbarie digitale”, l’articolo in cui Bernard-Henry Lévy, su Repubblica 19 giugno, descrive gli effetti di “imbarbarimento collettivo dei social” (tutti) sui membri (tutti) della specie homo sapiens: infatti egli chiamava “metafisica da donnette” queste speculazioni spiritualistiche astratte e lontane dalla concretezza delle scienze sociali.

Bernard-Henry Lévy sostiene invece che i social, “con il pretesto della connessione” sottolineano la “rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità”, che ci “desocializzano nell’uniformità dei like e dei follower”. Ma di quale appiattimento parliamo, quando hanno il loro indirizzo Facebook e magari abitano nella stessa città sia una persona che non si permetterebbe mai una frase salace, sia una famiglia che fa venire dal Pakistan i parenti per ammazzare una ragazza rea di rifiutare le nozze forzate?

E’ tutto il contrario: “anche se la tecnologia digitale diffonde dei meme culturali comuni, rende più facile alle comunità esprimere le loro distinte differenze culturali ed etniche. Le piattaforme digitali rendono possibile alle diaspore di ritrovarsi su simboli di differenze etniche oppure di respingere i simboli della globalizzazione”: lo scrive Gillian Tett che, nel suo recente “Anthrovision”, proprio alla mancata considerazione di retaggi antropologici riconduce fallimenti (e successi) di politiche commerciali altrimenti inspiegabili.

Le prime a rendersene conto sono state proprio le grandi aziende del digitale. Intel, il grande fabbricante di semiconduttori, dapprima li vendeva per i computer da ufficio; quando, a fine i anni 90, prese a crescere la richiesta di computer personali, a Intel si resero conto di dover capire questi nuovi utenti, non occidentali, soprattutto se donne (i tecnici Intel erano tutti maschi). Incominciarono quindi a assumere antropologhe, al fine di conoscere la rete di significati che la gente dava agli oggetti. E Microsoft diventò una delle più grandi concentrazioni di antropologi al mondo.

Dopo la prima accusa di BernardHenry Lévy – assenza di mediazione -, dopo la seconda – la rottura di ciò che rendeva coese le comunità – la terza è “l’atrofizzazione della memoria”. Anche a me dispiace che i miei nipoti crescano senza avere in mente la “fatal quiete”, i “cipressetti miei”, la “cavallina stoma”. Ne daremo la colpa a “una tecnologia che ci consente di recuperare a nostro piacimento frammenti di ricordi”? La nostra memoria, scrivono Daniele Gatti e Tomaso Vecchi, è frutto di un processo adattativo durato centinaia di migliaia di anni, in cui si è evoluta non come sistema di ritenzione, ma come sistema difensivo di previsione. Quindi è utile che dimentichi e che distorca, ha bisogno di poche conoscenze flessibili (ecco perché dimentica) e sempre aggiornate (ecco perché distorce). Non c’è nessun rischio di perdere la memoria per colpa delle macchine: i computer vanno a coprire una parte – quella del ricordo preciso – che la nostra memoria non può e non deve svolgere”. E’ il solito errore di antropomorfizzare, pensare che ciò che avviene al di sotto di tastiere, mouse e dietro agli schermi corrisponda a quello che avviene dentro la nostra testa. Al contrario, l’uomo ha costruito il computer perché facesse qualcosa che lui non è in grado di fare: memorizzare accuratamente le informazioni. “Le funzioni pratiche delle due memorie – quella tecnologica e quella umana – sono orientate diversamente, al passato la prima e al futuro la seconda”. Essere diventati “una profusione oscura e assordante dove la verità di ognuno vale quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi, pure violenti e financo feroci, atti a imporre la propria legge”; aver creato “un clima di giustizia popolare assetata di chiacchiericcio, una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato”: sono queste le due ultime accuse di Bernard-Henry Lévy ai social network. Vien da chiedersi quali siano le sue frequentazioni internettiane. Perché, al contrario, la natura interattiva di internet, la sua sostanziale gratuità, lo sconfinato numero dei suoi utenti, l’interscambiabilità della relazione tra utente e fornitore di informazione fa sì che globalmente i social abbiano capacità di disinformare inferiore a quella di qualsiasi mezzo unidirezionale di comunicazione.

E poi, quali sarebbero i “rimedi” con cui Bernard-Henry Lévy vorrebbe sconfiggere questa “barbarie digitale”? Non potendo bandire la tecnologia, limitarne le applicazioni? Richiedere l’onere della prova a chi ci si dichiara amico? Pretendere che ogni 100 search si debba mandare a memoria un sonetto del Petrarca (un canto di Dante per l’abbonamento annuale)? Sarebbe troppo tardi: noi non siamo più quelli di prima, è un processo di coevoluzione quello che ha avuto luogo tra noi e la tecnologia. Quando gli utenti si contano a miliardi, il numero dei voyeuristi equipara quello degli esibizionisti. Certo, bisogna smascherare fake news e bloccare hate speach. Ma meglio che a farlo siano i social stessi, se non lo fanno rischiano la loro reputazione: i governi avrebbero poco da perdere. Un futuro distopico è possibile: uno di divieti e censure lo sarebbe di certo. Parafrasando Rosa Luxembourg (e la rivista francese degli anni 50): social ou barbarie.


La nuova barbarie digitale

di Bernard-Henri Lévy – La Repubblica, 19 giugno 2021

Il presidente della Repubblica Macron ha ragione. Esiste sul serio un imbarbarimento collettivo ascrivibile al successo dei social network. E ciò è dovuto a cinque motivi.

Il primo è l’istantaneità dei pensieri che vi si esprimono, il fatto che questi non conoscano più un minimo di distacco, di filtro e, letteralmente, di mediazione. Di conseguenza, i pensieri sui social sono affini a quel linguaggio troppo crudo, troppo presente a sé stesso, troppo intenso che Hegel considerava tra le cause di violenza e ferocia tra gli uomini.

Il secondo è l’inganno di questi social che, lungi dal farci socializzare come starebbe a indicare il loro nome, in verità non fanno altro che desocializzarci, con la conseguente illusione di presunti amici che ci amano con un click, che smettono di amarci con un altro click e il cui incremento è segno, come per i non-cittadini di Saint-Just, del fatto che non abbiamo davvero più amici… Falsa ricchezza di autentiche parole a vanvera che si misura in like e follower che dovrebbero apportare maggior valore alle nostre esistenze e, al contrario, ci confinano in una solitudine senza precedenti. In sintesi, regno di un narcisismo che, con il pretesto della connessione, sottolinea la rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità.

Terzo: conosciamo la storia del famoso vescovo Dionigi, decapitato dai barbari e che nondimeno attraversò a piedi la collina di Saint-Denis tenendo sottobraccio la sua testa mozzata. Con i meccanismi della Rete, assistiamo a un fenomeno dello stesso tipo, ma su scala planetaria e che interessa tutti gli esseri umani. Oggi non si tratta più della nostra testa, certo, ma della nostra memoria. Non la portiamo più con noi sottobraccio, ma nel palmo delle nostre mani, oppure in fondo a una tasca, considerato che sui nostri smartphone ci alleggeriamo dell’attenzione che consente di risalire consapevolmente a informazioni, situazioni e frammenti di ricordi che dimentichiamo tanto più di buon grado quanto più la tecnologia ci consente di recuperarli a nostro piacimento. In questa dislocazione, in questa esfiltrazione, in questo scaricabarile della nostra facoltà di ricordare affidata alle macchine c’è un fatto antropologico che conduce all’inesorabile atrofizzazione di una facoltà della memoria che, dai tempi di Platone, sappiamo essere uno dei legami più solidi tra gli esseri umani e uno di quelli più adatti a scongiurare il peggio.

Quarto, la volontà di verità. Anch’essa crea un legame tra gli uomini. Nel riconoscimento di una verità – il cui amore, se non altro, è condiviso – vi è un’altra ragione concreta che impedisce loro di uccidersi a vicenda. E nondimeno, che cosa è un social network? È la sede di uno slittamento progressivo, di cui non si sono quantificate a sufficienza tutte le conseguenze. Si comincia con il dire: “Tutti hanno pari diritto di esprimere ciò in cui credono”. Poi si passa a: “Tutte le cose espresse in cui si crede godono del medesimo diritto a essere rispettate nello stesso modo”. E poi, ancora: “Se tutte sono rispettabili nello stesso modo, significa che sono tutte valide, importanti e apprezzabili nello stesso modo”. Ecco, è così che, a partire dal desiderio di democratizzare il “coraggio della verità” caro a Michel Foucault e pensando di offrire a tutti il mezzo tecnologico per contribuire all’avventura della conoscenza, si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione per l’ignoranza. Si tratta di un ritorno, quasi ricalcando l’eleganza greca, di quei celebri sofisti che sostenevano che quella che un tempo chiamavano “la” Verità è un’ombra indistinta in una notte in cui tutte le illusioni sono grigie. E, in questa profusione oscura e assordante in cui si sono trasformati i social network, la verità di ognuno vale quanto quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi – assolutamente tutti, fossero pure violenti e financo feroci – atti a imporre la propria legge.

E, infine, quinto. Ricordiamo tutti la struttura panoptica teorizzata per le prigioni dal filosofo utilitarista inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham, basata su un osservatorio collocato in una torretta centrale che permetteva alle guardie di osservare senza essere viste e ai detenuti, sistemati in celle individuali poste a raggiera attorno a essa, di vivere sotto il loro sguardo. L’originalità dei social consiste nel fatto che quell’occhio non si chiude mai, sorveglia i corpi e penetra nelle anime, viola la loro interiorità rendendola evidente a chiunque e non è più l’occhio di una guardia, di un superiore, di un padrone, bensì di ciascuno di noi. La novità è che questo progetto consistente nel voler vedere tutto, sapere tutto e penetrare nello spirito e nell’intimità altrui è alla portata di qualsiasi nostro vicino in Rete. Nella misura in cui permette ai superiori di spiare i sottoposti, ma anche ai sottoposti di spiare i superiori, e indifferentemente a tutti di controllare o condannare chiunque altro, questo meccanismo neobenthamiano crea un regime politico nuovo che non si può definire né seriamente democratico né distintamente autocratico; che si sarebbe tentati di chiamare scopocratico, in ragione di questa teoria dello sguardo e del voyerismo gaudente a cui esso dà vita; e che viola una delle leggi più antiche della Storia, enunciata dai tempi dei tragici greci a Epidauro e Olimpia: “Uomini, non andate a guardare troppo da vicino – con il rischio di essere accecati o, peggio ancora, imbrattati dal loro sangue – da quel lato dello specchio che è il corpo animale dei vostri simili.” I tragici greci non avevano torto. Da questo furore scopocratico, infatti, nasce depredazione. Una rabbia accusatrice osservata di rado nella storia del genere umano. Un clima di giustizia popolare che viaggia alla velocità della luce virale di una Rete che funziona a pieno regime e crea un’umanità assetata, come gli dèi di Anatole France, non di sangue ma di chiacchiericcio. E, al termine di questa mischia – in cui a ogni istante, o quasi, un’altra testa cade nella cesta panoptica dei nuovi corvi – è in corso una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato.
Come uscire da questo incubo? Lo ignoro.

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