I PVS non “tolgono” il lavoro

febbraio 6, 1997


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


In tutti i paesi industrializzati dall’inizio degli anni 80 si è assistito ad una riduzione di richiesta di lavoratori non qualificati. In USA e Regno Unito, dove c’e’ flessibilità salariale, ciò ha prodotto una forte divaricazione di redditi tra lavoratori secondo il loro grado di istruzione, senza provocare forte disoccupazione; negli altri paesi europei, in cui minore è la flessibilità salariale, l’effetto è stato un forte aumento della disoccupazione.

E’ diffusa l’opinione che la globalizzazione dei mercati sia stata una della cause di tale fenomeno. I paesi in via di sviluppo, si sente ripetere, oltre che sulla tradizionale abbondanza di mano d’opera a basso prezzo, possono contare su apporti di capitali, ormai totalmente mobili, e di tecnologia, diventata un’esternalità facilmente appropriabile. In tali condizioni, come possono i nostri lavoratori competere con chi ha un costo del lavoro che e’ un cinquantesimo del nostro? La concorrenza tra paesi con strutture sociali radicalmente diverse e’ una concorrenza sleale: bisogna mettere dei vincoli, altrimenti gli unici lavori che ci resteranno saranno quelli di distribuire prodotti fatti da altri, è solo questione di tempo.
Opinione diffusa, ma errata sul piano teorico e smentita dall’analisi empirica. Basta chiedersi: perché i paesi del Sud del mondo sono poveri? Se quanto un lavoratore produce fosse uguale in tutto il mondo, i Paesi con basso costo del lavoro dovrebbero avere un prodotto interno enorme: se non è così è perché molto diverse sono le produttività, e queste dipendono dal capitale umano e da quello fisico, le infrastrutture, entrambi legati all’ambiente ed al territorio, e quindi non mobili.
Sono i vantaggi comparativi, non quelli assoluti, che muovono il commercio internazionale: Se la Cina è meno produttiva degli USA in ogni settore, essa trae comunque vantaggio ad esportare i prodotti che può fabbricare relativamente più a buon mercato del resto del mondo, cioè i prodotti che impiegano tecnologie facilmente trasferibili e molta mano d’opera a basso costo. Alcune industrie del Nord nel soffriranno, ma l’economia in generale se ne avvantaggia in termini di prodotti importati a minor prezzo, e di esportazioni di prodotti sofisticati.

La teoria del commercio internazionale dimostra che essa rende i paesi più ricchi, ma non dice:
1) come si ripartisce il vantaggio tra i fattori della produzione, capitale e lavoro
2) l’effetto che ciò ha avuto sulla divaricazione dei redditi tra lavoratori in funzione della loro qualifica
3) gli effetti di lungo termine di un massiccio incremento degli scambi internazionali

A queste domande risponde in modo analitico un approfondito studio di Robert Lawrence (Single World, Divided Nations? Brookings Institution, OECD Development Center).

Negli USA in vent’anni,dal 1973 al 1994, i redditi da lavoro sono aumentati solo del 9% in termini reali. È a causa delle importazioni dai PVS? Lawrence dimostra che ciò avvenne per motivi interni: la bassa crescita globale, innanzitutto, dovuta ad un rallentamento della produttività nel settore dei servizi, meno esposti alla concorrenza. (ed è proprio grazie ad un consistente aumento della produttività nei servizi che nell’Europa continentale negli anni 80 i salari sono mediamente aumentati dell’1-2% all’anno). Né al basso aumento dei salari è corrisposto un aumento dei profitti delle imprese: se i lavoratori USA avessero avuto la stessa quota dei profitti che avevano nel 1979, il loro salario orario sarebbe solo dell’1,8% superiore all’attuale.
Ma il commercio con paesi a basso costo del lavoro potrebbe essere all’origine della divaricazione dei redditi ( e dell’occupazione) all’interno del mercato del lavoro. In USA, dall’80 al ’90, i salari dei lavoratori con titolo di studio superiore sono aumentati dell’83% , quelli di chi ha frequentato scuola dell’obbligo solo del 40%, cioè sono diminuiti in termini reali, i prezzi al consumo essendo aumentati nel periodo del 59%. In Europa, la disoccupazione colpisce maggiormente le fasce meno qualificate.

Eppure l’analisi di Lawrence conclude che, nei paesi dell’OCSE, il commercio con i PVS può spiegare al massimo il 10% dell’aumento del differenziale salariale tra lavoratori in funzione del loro livello di scolarizzazione.
Ma è questo solo l’inizio di un fenomeno destinato ad avere effetti disastrosamente più marcati in futuro? Tra il 1980 ed il 1993 i volumi di esportazione della Cina sono cresciuti del 13% all’anno; molti paesi asiatici hanno sostenuto per oltre 10 anni crescite superiori al 10% l’anno, mentre la stima di crescita per le economie occidentali è del 2,5% l’anno.
Molti temono un futuro in cui i salari dei lavoratori non scolarizzati dei paesi ricchi saranno schiacciati verso il basso da quelli dei loro colleghi dei PVS.Ma il teorema sulla egualizzazione dei fattori di costo presuppone un mercato unico in cui tutti dispongano delle stesse tecnologie e producano gli stessi beni: in tal caso anche i salari diventerebbero uguali, il libero movimento delle merci essendo un sostituto al libero movimento delle persone. Ma se i paesi specializzano le loro produzioni, il nesso tra salari e prezzi internazionali dei prodotti si rompe: al limite, per un paese non producesse tessili, il livello dei suoi salari non sarebbe influenzato dal prezzo internazionale dei tessili.
Per evitare la concorrenza con i bassi salari i paesi industrializzati si specializzeranno in produzioni che in PVS non fanno: ma, e qui sta il timore di molti, con quali conseguenze per i salari dei lavoratori non qualificati? Lawrence osserva che già oggi negli USA le grandi industrie che hanno più del 50% dei dipendenti con livello scolastico superiore sono quelle cui si deve il 75% delle esportazioni verso i PVS, mentre nei settori da base, dove si concentra il 60% delle importazioni dai PVS, i lavoratori qualificati sono meno del 35%.
Immaginiamo che in un periodo di 15 anni gli USA rimpiazzino completamente le produzioni delle industrie di base con importazioni, e le compensino con un aumento di pari valore delle esportazioni di prodotti ad alto contenuto di specializzazione. Ciò ridurrebbe i salari relativi ed assoluti dei lavoratori non qualificati, ma tale riduzione sarebbe- secondo i calcoli di Lawrence- al massimo del 2,5% in termini reali, meno dello 0,16% all’anno. E ciò senza contare che in tal modo il costo dei beni importati diminuirebbe, di fatto aumentando il potere d’acquisto soprattutto delle fasce di popolazione meno abbiente.

Si dimostra quindi che il commercio con i PVS anche in prospettiva è vantaggioso non solo per alcuni, ma per tutti i cittadini dei paesi sviluppati.

Sono stati dunque fattori interni -il cambiamento tecnologico, in particolare nelle tecniche produttive e, per quanto riguarda gli USA, il declino di produttività del settore dei servizi- quelli che hanno svantaggiato, a partire dalla metà degli anni 70, i lavoratori meno qualificati in tutti i paesi dell’OCSE.
Gli scambi con i PVS hanno avuto un effetto assai modesto. Di conseguenza imporre ai paesi emergenti standard minimi di lavoro – giustificati in alcuni casi sul piano umanitario – sarebbe sostanzialmente ininfluente sia sulla disoccupazione sia sulla disparità dei salari nei paesi industriali. Certo, il protezionismo avrebbe l’effetto di redistribuire il reddito: ma sarebbe un modo inefficiente, perché le tariffe distorcono le decisioni degli investitori e dei consumatori; meglio sarebbe, ove ciò fosse considerato socialmente desiderabile, redistribuire il reddito con trasferimenti finanziati da tassazione.

Ma meglio ancora sarebbe non ostacolare ma favorire la specializzazione, e quindi investire in formazione. Ciò in parte avverrà automaticamente, per meccanismi di mercato: se aumenta la richiesta di lavoro qualificato, aumentano gli incentivi a qualificarsi.
Tuttavia là dove è meno forte la correlazione tra redditi da lavoro e qualificazione – come in Giappone e nell’Europa continentale- minori saranno gli incentivi personali ad investire per riqualificarsi. E comunque, poiché il mercato del capitale umano non funziona perfettamente, ci sono quindi ottime ragioni perché la formazione sia promossa e incentivata. Il miglior mezzo per promuovere l’uguaglianza sociale è di concentrarsi a fornire formazione ai meno qualificati.

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