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Googlati ma soddisfatti

Pubblicato il 10/01/2010 @ 11:55 in Consigliati e recensiti,Giornali,Il Sole 24 Ore,Libri

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Come tradurranno Googled, il titolo del bestseller di Ken Auletta? “Googlidi”, cioè quelli affascinati dall’avere ogni cosa a portata di click? Oppure “Googlati”, quelli che temono per la privacy e per il formarsi di posizioni dominanti? In ogni caso, è la “fine del mondo come lo conosciamo”, come recita il sottotitolo: l’irruzione di Google ha in pochi anni ridefinito tutti i settori dei media.

Ken Auletta, che dal 1992 tiene la rubrica Annali delle Comunicazioni sul New Yorker Magazine, ne racconta le vicende umane e ne descrive le conseguenze sociali. Googled è brillante come un romanzo, documentato come un saggio.

Google nasce nel 1998, con l’imprinting di un duplice ottimismo: quello ingegneristico dei suoi fondatori, e quello di Internet, dove tutto ciò che è digitale deve essere “free”, nella duplice accezione di libero e di gratuito. Non è solo ideologia: è anche conseguenza della riduzione, apparentemente senza fine, del costo per trattare e memorizzare l’informazione digitalizzata. Da ingegneri, Larry Page e e Sergey Brin si pongono problemi di efficienza. Nella ricerca, efficienza è risparmiare tempo: l’algoritmo PageRank dispone i risultati di una ricerca in base alla frequenza con cui sono stati aperti dagli utenti. Yahoo, Excite, Alta Vista, Lycos, sono “portali-trappola”, che attraggono e trattengono: la pagina di Google è vuota, per arrivare senza distrazioni in fretta al risultato della ricerca. Nella pubblicità, efficienza è dare informazioni utili, ai consumatori sui prodotti e ai produttori sui clienti. Con gli algoritmi del “costo per click” e dell’asta Vickery gli inserzionisti pagano solo per la pubblicità effettivamente vista e a un prezzo di mercato. I dati che Google raccoglie servono per focalizzare l’offerta: la pubblicità diventa informazione, e Google un’impresa mediatica.

“Internet rende l’informazione disponibile, Google la fa diventare accessibile” cita Auletta. Nessun altro mezzo di comunicazioni ha 2,5 miliardi di utilizzatori, nessuno ha costi di transazione così bassi. I media tradizionali portavano l’audience al contenuto, un cinema, un palinsesto, un DVD. Google News, You Tube portano i contenuti dove c’è l’audience. Giornali, libri, radio, televisione, agenzie di pubblicità, telefoni, tutti i media tradizionali perdono il controllo della catena di distribuzione, e quindi il loro potere di mercato. Se con Google è possibile trovare ogni cosa, parte un gigantesco processo di disintermediazione. È una rivoluzione: ed è irreversibile.

Nascono problemi inediti, e dividono Googlidi e Googlati: per i primi è normale copiare pagine di Internet e condividerle, e ogni ricerca aumenta l’efficienza del database. Per i secondi copiare è un furto, e Google minaccia privacy e concorrenza. Negli USA, Google conclude accordi economici con agenzie di stampa, editori, case cinematografiche. Non con i giornali, sostenendo che Google News “manda traffico ai giornali” reinviandolo sulle loro pagine online.

Quale il futuro per i giornali nell’epoca del web? Questo il problema su cui più si discute, e, ovviamente, si scrive. I giornali italiani accusavano la televisione commerciale di sottrargli pubblicità, così minacciando la democrazia. Con il web é necessario rendersi conto della profondità dei cambiamenti. È cambiato il modo con cui si attingono le informazioni: il tempo di attenzione si riduce, si segmenta con il multitasking, l’interattività modifica il modo di raccontare e di leggere storie. In USA già nel 2005 il 40% di chi ha la banda larga legge le notizie online. Il calo di vendite e di ricavi pubblicitari segue un trend di lungo periodo, che il web ha solo accelerato. Oggi ai giornali va il 20% delle spese per advertising, e solo l’8% del nostro tempo, mentre Internet si prende il 29% del tempo e solo l’8% dell’advertising: l’attenuarsi di questo squilibrio renderà ancora più critica la situazione. Per i giornali appare offensivo che un algoritmo faccia il ruolo di un editore; ma i giovani li leggono meno. Chi esce dalla scuola di giornalismo della Columbia University va a lavorare nei giornali online. Eppure il consumo di notizie non è mai stato così grande, e i costi – di stampa e di distribuzione – continuano a calare. Il NYT online attira 20 milioni di lettori unici al mese, ma il prezzo degli annunci pubblicitari è meno di un decimo dell’edizione cartacea. Anche drastiche cure di smagrimento non sembrano produrre uno stabile equilibrio economico. Si sperimentano resistenze alla riproduzione di articoli, ma la gratuità dei bit è inevitabile.

Il giornalismo è insostituibile, offre ai lettori, oltre alle notizie, le informazioni che neppure pensano di volere, necessarie per essere cittadini informati di una democrazia. Se Internet è una copiatrice che produce informazione gratuita, la soluzione è offrire cose che non possano essere copiate. In primo luogo la fiducia: fiducia nel “pensare differente “ di Apple, nel gusto della Coca Cola, nella sicurezza di una Volvo, nei prezzi di Wal Mart o di Southwest Airlines. O nell’informazione del NYT.

Finiremo tutti “googlati”? Non tranquillizza Larry Page, quando afferma che “se sai risolvere una ricerca, sai risolvere qualsiasi problema, puoi fare qualsiasi cosa.” Con i suoi milioni di computer, Google ha messo in piedi un meccanismo moltiplicatore: ogni minuto scarica su YouTube 15 ore di video, l’equivalente di 86.000 film alla settimana. Ma posizioni che appaiono inattaccabili risultano difficili da mantenere. Google sa di doversi guardare da Microsoft e Facebook, da editori, pubblicitari, televisioni e telefoni. Ma è all’interno il nemico più temibile: la sua cultura ingegneristica, una sicurezza che rasenta l’arroganza.

Lo stesso modello di ricerca e di Google è oggetto di critica, in quanto aggrega dati e lascia che sia l’utente a decidere quale gli è utile. I social network, dove i partecipanti si scambiano informazioni potrebbero risultare più affidabili. Un sistema di ricerca che fornisce 5 milioni di risposte a una domanda, è abbastanza primitivo. Secondo Google, se aumentano le informazioni sugli utilizzatori un algoritmo potrà dare un’unica risposta. Il rischio è un feedback che riproponga amplificate le nostre stesse preferenze, che imponga omogeneità alla eterogeneità di Internet. Temevamo che i computer potessero pensare come noi: più reale è il rischio che siamo noi a pensare come un computer.

Oggi Google sembra imprendibile. Ma così sembrava AOL quando si fuse con Time Warner: 10 anni dopo Jerry Levine si scusa per quel disastro costato 164 miliardi di $. IBM aveva il 70% del mercato dei mainframe, e per 10 anni la giustizia USA cercò di incastrarla per abuso di posizione dominante: furono i ragazzi dei garage e i PC a spazzar via problema e processo. IBM lasciò che fosse Microsoft a disegnarne il sistema operativo, che sembrò imprendibile fino all’emergere di Linux.

Googlidi, che guardano agli orizzonti dischiusi da un processo di ricerca sempre più ampio e mirato, Googlati, che temono che proprio questo riduca la varietà e freni la creatività, possono concordare sull’osservazione finale di Auletta: in nessuna dei 3 miliardi di ricerche eseguite da Google ogni giorno, o nei 24 quadriglioni di bit memorizzati, o nei più di 20 milioni di libri che intende digitalizzare, si può trovare un’azienda che abbia fatto irruzione nel mondo dei media con tanta travolgente rapidità.

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