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Globalizzazione, il falso bersaglio e la voglia di Stato

Pubblicato il 05/10/2008 @ 10:39 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Ma noi, in Italia, oggi, che cosa possiamo fare?
Ormai sulla natura della crisi, dimensione, cause, abbiamo letto tutte le analisi possibili. Lamentazioni sui valori morali perduti, sulle società troppo liquide e le banche troppo poco solide, hanno saturato anche i più esigenti. Sui rimedi che si stanno approntando in USA abbiamo sentito le opinioni di chi è contrario e non li vorrebbe in nome del liberismo, di chi è contrario ma li accetterebbe in nome del pragmatismo, di chi è contrario e vorrebbe qualcosa di più “sociale” in nome del populismo. Ma è un po’ come fare il tifo per le elezioni americane, tanto non votiamo.

È invece il caso di pensare a che cosa possiamo fare noi, noi in Italia. E, per coloro che si dedicano al pavesiano “mestiere” di scrivere, in che senso cercare di orientare l’opinione pubblica.

Se, come è quasi certo, alla crisi finanziaria succederà una grave recessione, le sue ripercussioni immediate dipendono da come siamo oggi, come struttura economica e sociale: e non c’è molto che possiamo fare. Invece come e quando ne usciremo dipende da scelte che ancora possiamo compiere per scongiurare il pericolo di un esito giapponese: 15 anni di deflazione e di crescita piatta, per aver consentito alle banche di non svalutare gli immobili iscritti a bilancio ai valori della bolla, e poi crollati. Quindici anni senza crescita per evitare che meccanismi di mercato turbassero la rete di assetti proprietari su cui si reggono i grandi conglomerati.

Lasciano perplessi i paragoni tra gli interventi del Governo americano e la creazione dell’IRI da parte di Beneduce. In America un fenomeno tipo IRI è impossibile: un paese che difende il diritto di portare le armi non accetterà mai la nazionalizzazione permanente del credito, per non parlare dell’economia. Siamo noi che abbiamo avuto l’IRI, è da noi che c’è il pericolo che si riformi. Là potrà esserci “cattura” della politica da parte del big business, ma da noi c’è stata cattura del business da parte dei partiti politici. E questo con il plauso della maggioranza degli italiani, e, pochi anni dopo l’implosione del sistema, con il rimpianto di tanti: in nome o dell’italianità, o della presunta necessità di disporre di strumenti per la politica economica, o del posto sicuro.

Destano sconcerto le dichiarazioni del presidente Berlusconi, sulla garanzia illimitata estesa a tutti i depositanti, e sulla difesa “a prescindere” dell’italianità delle banche. Queste già garantiscono i depositi fino a 103.000 €, grazie al fondo interbancario finanziato dalle stesse banche. Se invece lo stato dà garanzia illimitata, regala alle banche italiane un’assicurazione, per giunta di costo crescente, dato che i clienti delle banche straniere si precipiteranno ad aprire un conto da noi: come si sta verificando in Irlanda. Quanto alla difesa dell’italianità, se una banca fosse in difficoltà, e ci fosse un investitore in grado di acquistarla, perché vietarlo? Quale alternativa ci sarebbe? Dato che è improbabile che un eventuale appello del Capo del Governo agli imprenditori italiani ( e neppure la sollecitazione ai propri figli) reperisca capitali adeguati, perché non fallisca dovrebbe intervenire il Tesoro, magari con la Cassa Depositi e Prestiti: dove rimarrebbe per sempre.

Soprattutto preoccupa la saldatura “no global” tra Governo e opposizione. Qui sì che possiamo, dobbiamo fare qualcosa. Manca la politica, ha scritto giovedì su Repubblica Ezio Mauro: ma è forse colpa della globalizzazione, se in America c’è un presidente a fine mandato e al minimo di consensi, e due candidati sulla cui capacità di individuare la soluzione e disporre della leadership per sostenerla, è lecito nutrire dubbi; mentre in Inghilterra anche il Labour e Gordon Brown sono alla fine di un ciclo? La bolla immobiliare americana, è dovuta alla globalizzazione, o alla volontà politica, il Community Reinvestment Act del 1977, poi ribadito nel 1992? Fanny Mae e Freddy Mac non erano, fin nella qualifica, parte dello Stato? Il “nuovo disordine mondiale” è prodotto dalla finanza internazionale che scavalca gli stati nazione , o non piuttosto dalla incapacità di questi di eliminare i dazi in agricoltura, di superare le divisioni in Europa, di sedare i Kosovo che spuntano un po’ ovunque, di venire a capo del terrorismo islamista? La tecnologia informatica, delle comunicazioni, dei media, dei trasporti, ha rivoluzionato il modo di lavorare: questo certamente richiede una rivisitazione del patto sociale. Ma è la finanza internazionale che ne ostacola la riscrittura, o le corporazioni sindacali, il piccolo mondo antico che abbiamo visto in Alitalia? Chi demonizza la globalizzazione, se è di destra vuole dare protezionismo, se di sinistra ricevere protezione: entrambi vogliono più Stato.

In questi giorni succede di pensare che cosa si lascerà ai propri figli. Non in termini di ricchezza, anche se la deflazione dei valori gonfiati toccherà un po’ tutti, ma nel senso delle idee condivise che gli consegniamo e del sistema sociale in cui li vivranno. In questi anni abbiamo creduto possibile avere meno ingerenza dello stato, meno tasse, più riconoscimento del merito, più incentivi a intraprendere. E se da noi si è fatto obbiettivamente pochino, si deve riconoscere che nel mondo è comunque molto meglio che 20 anni fa. E io voglio fare quanto posso perché i miei figli abbiano questa prospettiva e possano vederla realizzarsi.

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