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Gli equivoci delle fondazioni

Pubblicato il 10/07/1998 @ 17:42 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Cosa accadrebbe se la proposta di legge sulle fondazioni bancarie non venisse modificata?

Molto si é fatto con la riforma Draghi per rendere più efficaci le regole di governo societario, per aumentare la trasparenza del mercato dei diritti di proprietà e la contendibilità nel controllo. Oggi c’è il rischio di fare un passo indietro, introducendo invece elementi di opacità e di inefficienza. E’ quello che accadrebbe se la proposta di legge sulle fondazioni bancarie, di cui inizia la discussione in Senato dopo un travagliato passaggio alla Camera, non venisse modificata.

Il sistema degli incentivi, in cui questa legge confida, e’ uno strumento debole per ottenere che le fondazioni dismettano le loro banche fino a perderne il controllo. Tuttavia non e’ sulle dismissioni in quanto tali che si incentra oggi il dibattito, ma piuttosto su che fare dei proventi delle dismissioni. E in effetti quanto è successo nel frattempo nel mondo delle casse di rispamio, per un verso in S. Paolo, Cariplo, Banca di Roma, Casse di Torino e Verona, per un altro a Napoli ed in Sicilia, lo si deve al mercato, non alla legge. A questo punto ciò che rileva non è la libertà per le fondazioni di scegliere i propri fini, ma la discrezionalità nell’uso dei mezzi finanziari; non come destinare il reddito del patrimonio ma come impiegare il patrimonio stesso.
Compagnia di San Paolo e Fondazione Cariplo sono entrate a far parte del nocciolo duro di Telecom ed INA; si legge del progetto di fare entrare la prima nel sindacato di controllo della FIAT, si sente parlare di far partecipare la seconda a quello di Pirelli, e nel nocciolo duro di AEM.
A chi obbietta a tali partecipazioni da parte delle Fondazioni, vengono date o giustificazioni volte a minimizzarne la portata o spiegazioni volte a legittimarne la scelta. Investimenti fatti in ottica puramente finanziaria, si giustifica: ma partecipare ad un nucleo stabile in ottica finanziaria é una contraddizione in termini. O, ancora, investimenti di modesta entità: ma nella legge non v’é nulla che vieti partecipazioni più consistenti. La spiegazione legittimante invece prende le mosse dalla carenza di investitori istituzionali, e intende supplirvi attribuendone la natura alle fondazioni: “Ego te baptizo piscem”.

Qui sta l’errore di fondo, l’equivoco che occorre dissipare. Le fondazioni non sono investitori istituzionali: non possono esserlo per la loro stessa natura. Non lo sono perche’ il patrimonio e’ strumentale all’obbiettivo, non oggetto stesso dell’attività. Non lo sono perché nessuno ha diritti sul patrimonio delle fondazioni: per conto di chi dunque investirebbero? Non lo sono perché gli enti no profit non devono rispondere ad azionisti, basta loro garantire il mantenimento del patrimonio, anche se il suo rendimento è inferiore a quello medio di mercato.
Non essendo stimolate ad agire efficacemente in attività che generano profitto, intervenendo in proprio nel mercato per i diritti di proprietà, le fondazioni producono effetti di distorsione e spiazzamento Per dirla nel linguaggio tecnico della Consob, audita in proposito in Senato: “ non giova al mercato che ci siano soggetti che operano sotto la frontiera di efficienza nella combinazione rischio-rendimento.”
Da queste considerazioni discende la necessità di introdurre nell’attuale proposta di legge una modifica in assenza della quale l’intreccio fondazioni-banche-industrie getterebbe un’ombra rilevante sul sistema finanziario e di imprese italiano. Occorre esplicitamente prevedere che le fondazioni non possano investire in società quotate se non attraverso il velo di un investitore professionale che si assuma lui il compito di lavorare lungo la frontiera efficiente (fanno ovviamente eccezione le partecipazioni proprie banche, fino all’auspicata dismissione).
Alle fondazioni si deve garantire massima libertà di iniziativa. Ma questa libertà trova un limite invalicabile nell’esigenza di non interferire nel controllo delle società quotate. Questa esigenza dovrebbe essere condivisa sia dalla Destra che dalla Sinistra. Dalla Destra, perché corrisponde a principi liberali di trasparenza e di accountability; e perchè in questo divieto sta la vera protezione della libertà delle fondazioni, che altrimenti diventeranno, come in passato, oggetto di desiderio da parte dei politici.
Dovrebbe essere condivisa dalla Sinistra, soprattutto da quella parte che ha combattuto il potere irresponsabile di razza padrona, poi quello non trasparente degli intrecci azionari, delle scatole cinesi; ma sono poteri, e lo si è visto, comunque soggetti, prima o poi, al vincolo del mercato e del profitto, mentre le fondazioni, é la Consob a ricordarlo, non sono neppure soggette a quelli.
Qui non si tratta di esprimere giudizi su questa fondazione o su quella società. Il rischio é che un’orma di fondamentale rilevanza e di lunga durata si imprima sull’architettura complessiva del sistema delle imprese.
Di fronte a questo rischio il Governo dovrebbe assumersi l’onere di una posizione netta: meglio scontare diversi esiti parlamentari che trovarsi poi, di fronte alle conseguenze di un silenzio inopportuno, a rammaricarsi di aver sottovalutato un punto sul quale fare ordinata ed efficace giustizia di decenni di polemiche sulla indeguatezza di quello che nella vulgata prende il nome di “sistema Cuccia”.
Sarebbe intollerabile se una battaglia incominciata otto anni fa per restituire al mercato le banche e sottoporle alla disciplina della contendibilità, terminasse con le fondazioni che partecipano, incontrollate, al controllo delle grandi imprese. In quel caso non ci sarebbe da interrogarsi sul perché di una sconfitta, ma da preoccuparsi del perché di una vittoria.

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