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Gestione della complessità: tanti luoghi comuni, una prospettiva

Pubblicato il 28/10/2011 @ 20:29 in Convegni



Il lavoro perduto e ritrovato
a cura di Gianni Vattimo, Pasquale Davide de Palma, Giuseppe Iannantuono
Edizioni Mimesis, 2012
pp. 259



Intervento di Franco Debenedetti

E’ opinione corrente che il contesto in cui opera l’industria della conoscenza sia caratterizzato da un aumento della complessità, in misura tanto cospicua, qualitativamente e quantitativamente, da rappresentare una discontinuità rispetto al passato; e che questa discontinuità debba essere affrontata con una corrispondente discontinuità nei metodi di gestione dell’impresa. Nella lettura che qui si propone, è rispetto al proprio presunto ordine, che le organizzazioni percepiscono come disordine, l’irrompere dei lavoratori della conoscenza. Invece di scrivere un altro capitolo di luoghi comuni delle teorie gestionali, si delinea una prospettiva che usa la conoscenza stessa per superare la complessità.

Conviene partire dal mercato: perché è sul mercato che il lavoro affronta la sua sfida, ed è nel mercato che il management fa i conti con la complessità. Il mercato, secondo Friedrich von Hayek, è un processo attraverso il quale gli individui e le imprese, competendo gli uni con gli altri, scoprono i prezzi, i bisogni dei consumatori, le innovazioni, le migliori tecnologie e le migliori pratiche commerciali: nel mercato gli agenti acquisiscono quanto basta di informazioni per poter cooperare. Le scelte umane hanno natura soggettiva, mutamento e incertezza sono caratteristiche intrinseche della realtà economica. La conoscenza esiste in forma transeunte e dispersa nel mercato: la scienza economica non può quindi avere natura predittiva, la centralizzazione della conoscenza è impossibile. Le decisioni vengono prese in un contesto di incertezza non riducibile a calcolo probabilistico. L’azione imprenditoriale ha carattere speculativo: ogni imprenditore è uno speculatore e ogni soggetto economico è, potenzialmente, un imprenditore. Gli errori imprenditoriali producono opportunità, che l’imprenditore volge a proprio favore, comprando quando i prezzi sono “troppo bassi” e vendendo laddove sono “troppo alti”. In un mondo di incessanti cambiamenti nei gusti, nelle risorse e nella tecnologia, il processo di scoperta imprenditoriale crea opportunità di profitto che spingono il mercato verso la condizione di equilibrio (del momento). Senza conoscere esattamente cosa cercare, senza impiegare una tecnica di ricerca ben definita, l’imprenditore – moderno bucaniere – scruta continuamente l’orizzonte in attesa di nuove opportunità di profitto. L’attività imprenditoriale tende a migliorare la conoscenza reciproca dei partecipanti al mercato ed è dunque la fonte della tendenza equilibratrice del mercato.

Queste sono caratteristiche intrinseche dello scambio che avviene nel mercato: solo ex post, per descriverne il continuo divenire, ci avvaliamo di periodizzazioni separate dall’apparire di discontinuità. Così nella storia da fine ‘700 a oggi, parliamo di tre rivoluzioni industriali. La prima, della macchina a vapore, dei trasporti per ferrovia e per mare, della produzione di acciaio e dell’estrazione del carbone per i cannoni e la meccanica pesante. La seconda, del motore elettrico, della meccanica leggera per i prodotti di serie, che ha nella catena di montaggio la sua icona, e nel taylorismo la sua sistemazione teorica. La terza, della conoscenza. Quali sono le discontinuità per cui la distinguiamo dalle precedenti?

La prima globalizzazione, che aveva già ampliato il numero e la varietà dei paesi e delle persone con cui entrare in contatto, era finita con la prima guerra mondiale, e con le guerre tariffarie, conseguenza e causa della grande depressione. La seconda, la mobilità delle persone, delle merci, e soprattutto del capitale, allarga a dismisura le possibilità degli operatori. Con il numero di interazioni, che cresce esponenzialmente con l’aumentare del numero delle persone potenzialmente coinvolte, come i chicchi di grano sulla scacchiera del faraone, aumenta il numero degli scambi possibili. Con gli scambi aumenta la ricchezza, quindi il valore di scambio rispetto al valore d’uso (o almeno così a noi sembra, forse sottostimando il valore di scambio dei monili per gli uomini nelle caverne). Si sviluppa la tecnologia capace di soddisfare la varietà dei gusti: dal one size fits all, al market of one. L’innovazione nelle tecniche di verniciatura annulla il vantaggio competitivo delle Ford modello T, any colour provided it’s black, alle odierne cartelle colori; quella della tintura in capo consente a United Colors di ridurre i magazzini pur soddisfacendo tempestivamente le richieste dei clienti. Cambiamenti resi possibili dal passaggio dall’analogico al digitale: ma la discontinuità che appare confrontando momenti distanti tra loro nel tempo, si rivela all’analisi piuttosto come una continua serie di modifiche incrementali.

Nei rapporti sociali che la discontinuità appare più marcata. Nella prima rivoluzione industriale il rapporto capitale lavoro era caratterizzato da aspra conflittualità: sullo sfondo c’era la rivoluzione. La seconda è stata resa possibile da un patto: i sindacati rinunciano a fare la rivoluzione, i padroni rinunciano a vincere con la brutalità. Adesso quel patto si è rotto: il modello fordista di integrazione verticale non funziona più, la catena di montaggio diventa linea robotizzata, i flussi produttivi sono discontinui, il lavoro non è più una certezza e il welfare non più una garanzia. Alla Repubblica fondata sul lavoro è succeduta la Repubblica fondata sul consumo.

Ma anche dove la discontinuità è più evidente, riguarda solo il nuovo che si aggiunge, coesistendo con quanto delle fasi precedenti rimane vivo e attivo: siamo entrati nelle terza rivoluzione industriale, ma non è che non abbiamo più bisogno di altiforni e autostrade, di frigoriferi e televisori. Non solo, ma se si va a guardarci dentro, non è che i processi con cui si costruiscono gli iPhone siano concettualmente tanto diversi da quelli con cui si fanno le automobili; a Scarmagno, i personal computer li facevamo in isole di montaggio, evoluzione fisiologica delle catene di montaggio. Rigide sono le istituzioni e le norme: se il mercato del lavoro ha l’attuale struttura dualistica, sempre meno insider e sempre più outsider, è certo per rispondere alle esigenze nuove, ma soprattutto per il permanere di istituti e regole nate nella precedente fase e che ad esse sopravvivono, mostrando tutta la loro inattualità. In particolare per quanto riguarda la norme relative alla flessibilità in uscita.

C’è discontinuità nella dimensione ottimale di impresa? Le nuove tecnologie applicate alle produzioni tradizionali riducono il numero di persone necessarie. Il famoso quadro di Lorenzo Delleani immortala la nascita della Fiat, attorno a un tavolo in un ufficio della Banca di Sconto: le dotcom nascono nei garage. L’innovazione nasce sovente in imprese di piccole, a volte di minime dimensioni. Le dimensioni ottimali di un’acciaieria, di una fabbrica di elettrodomestici e di un’azienda di SW sono intrinsecamente diverse. Eppure da decenni ci lamentiamo che le nostre aziende medie non diventano grandi, che quelle grandi o muoiono o vengono comprate, e teniamo convegni per capirne le ragioni. Il primo Governo Prodi vedeva tra le conseguenze positive delle privatizzazioni anche il formarsi di una diecina di grandi aziende private: e siccome solo se grandi imprese facessero ricerca e innovazione, questa sarebbe condizione necessaria perché poter competere alla pari con gli altri grandi Paesi europei. Ma la dimensione d’impresa è conseguenza della specializzazione produttiva e del posizionamento commerciale dell’azienda, non è un obbiettivo da perseguire di per sé. Nell’Italia industriale degli ultimi decenni, che globalmente non cresce né come volumi né come produttività, che perde competitività rispetto ai partner europei, sono le industrie battezzate da Giuseppe Turani “del quarto capitalismo” quelle che crescono, esportano, hanno operazioni all’estero. Sono le 5000 “multinazionali tascabili” di R&S di Mediobanca, i 205.000 esportatori, le più di 20.000 imprese che hanno aziende partecipate all’estero e che hanno un tasso di crescita superiore al 4% annuo anche in questa crisi, e che nel loro insieme tengono su il Paese. Che la piccola dimensione della nostra impresa sia manifestazione di debolezza è clamorosamente smentito dai fatti. E la correlazione tra dimensione di impresa e nuova frontiera tecnologica non pare evidente.

Ricapitolando:

* l’innovazione è il portato naturale del mercato, attiene alla sua natura di essere una procedura per la scoperta;
* il passaggio dalla seconda alla terza rivoluzione industriale (per usare la abituale terminologia) é segnato da innovazioni incrementali;
* nel mercato del lavoro convivono continuità accanto a discontinuità;
* la ridotta dimensione delle nostre aziende più vivaci ha cause strutturali non direttamente collegabili alla specificità dell’economia della conoscenza.

Emerge dunque il quadro complessivo di un’economia in cui le imprese, grandi e piccole, con tecnologie tradizionali o innovative, vivono fianco a fianco, a volte anche intrattenendo tra loro rapporti di fornitura, sfidano un mondo complesso per tutte, e gestiscono con modelli diversi la risorsa lavoro. La periodizzazione può offrire interessanti prospettive, ma la realtà è molto più variegata degli schemi in cui si vorrebbe ingabbiarla. Prima di cercare di cambiare il mondo, sarebbe bene conoscerlo: per questo i tanti luoghi comuni che si sentono quando si parla di sfide manageriali, di gestione della complessità, destano scetticismo, e le astratte schematizzazioni un’ombra di preoccupazione.

Astratte e incomplete: perché, quando si parla di imprese della conoscenza, che si confrontano con la complessità, di solito non si fa accenno all’industria finanziaria. Eppure essa é stata rivoluzionata dall’innovazione tecnologica, occupa un grande numero di addetti, impiega professionalità pregiate, ad essa va una parte significativa della ricchezza prodotta. Penso ovviamente alle banche che praticano il proprietory trading, il wealth management, che usano algoritmi di alta sofisticazione SW e HW: si pensi da un lato alle migliaia di regressioni che vengono eseguite per costruire prodotti sintetici praticamente senza correlazione tra i suoi componenti e dall’altro alle tecniche di high speed trading, per cui si costruiscono centri di calcolo connessi con cavi posti in cunicoli appositamente scavati, solo per guadagnare qualche microsecondo. E’ per il luogo comune, per cui chi si batte sul fronte dell’innovazione è un cavaliere bianco, ma chi lo fa nella finanza ha la marsina nera?

Per quanto riguarda le tecniche di gestione di impresa, l’imprevedibilità dei sistemi complessi, metterebbe “in crisi tre dei cinque assiomi su cui si fonda il management tradizionale: la modellizzazione, la ricerca di efficienza, e il profitto come fine ultimo dell’azienda e metrica principe per le performance aziendali”. E l’altra caratteristica, quella dell’auto-organizzazione, metterebbe “in crisi i restanti due pilastri, il paradigma del controllo e la riduzione dell’incertezza come modalità per affrontare la turbolenza ambientale.” Quali sono le imprese a cui ci si riferisce? Pensiamo a un campione di aziende formato da Google, Apple, Microsoft, Amazon, la moda e il design, una grande società di SW, Goldman Sachs: un campione di aziende molto diverse tra loro, ma tutte accomunate dell’essere immerse fino al collo nella complessità, tutte alla frontiera dell’industria della conoscenza. Ma in tutte gli assiomi che sarebbero in crisi sono invece fondamentali per la gestione.

* Modellizzazione: per l’industria finanziaria è ovviamente la base. E non è forse un modello l’algoritmo su cui Page e Brin hanno costruito Google?
* Ricerca di efficienza: la precisione con cui Apple riesce a distribuire i suoi prodotti in tutti i Paesi, e Amazon ad avere utili sbalorditivi vendendo e consegnando oggetti di modesto valore, quali un disco e un libro, sono segni mirabolanti di efficienza. Le aziende di SW e sistemi vivono vendendo modi per diventare efficienti.
* Controllo: certo che non è il controllo di bollare la cartolina, o di rispettare i tempi del cronometrista. Ma pensiamo a quale raffinato ed efficace mezzo di controllo del personale devono mettere in atto aziende di SW, delle quali si dice che il capitale dell’azienda tutte le sere prende l’ascensore ed esce dall’azienda!
* Riduzione dell’incertezza: al contrario, per tutta l’economia dell’ICT è vangelo la frase di Andy Grove, fondatore di Intel: only the paranoids survive. E che cosa spinge Microsoft a offrire cifre pazzesche per acquisire Yahoo se non il tentativo di sbarrare la strada a Google e ridurre l’incertezza sul proprio futuro?
* Profitto: l’ho lasciato deliberatamente per ultimo. Le aziende hanno bisogno di capitali: chi investirebbe i propri soldi in un’azienda che non abbia il profitto come proprio obiettivo principale prioritario? E non sembra che perseguire il profitto le porti a impoverire le risorse intangibili dell’azienda, soprattutto le relazioni con gli stakeholders, determinando un abbattimento della capacità competitiva dell’azienda, come vuole il luogo comune. Anzi, come è il caso di Apple, diventata la prima azienda al mondo per capitalizzazione. E quando gli va male, come è stato con Lehman Brothers o con la Nike, quando non muoiono, riconoscono l’errore e ci rimediano. E’ tipico delle aziende a rete di guadagnare solo se si raggiunge una certa dimensione, raggiungendo per primi una posizione dominante: questo può richiedere fiato lungo, una sorta di freudiano differimento del piacere. Differimento, ma mai rinuncia! “The banner is the product”: quanti scuotevano la testa di fronte a certi modelli di business, oggi si mordono le dita.

Page e Brin, appena Google raggiunse una certa dimensione, assunsero come CEO Eric Schmidt, che era responsabile dello sviluppo SW alla Sun Microsystem, con l’incarico di “building the corporate infrastructure needed to maintain Google’s rapid growth as a company and on ensuring that quality remains high while product development cycle times are kept to a minimum”. Tanto per dire controllo. E quanto all’incertezza, questa è sempre ex ante, dipende dalla natura stessa del mercato: la scienza economica non può avere natura predittiva. Negi anni in cui l’Olivetti sviluppava il sistema operativo del proprio personal computer, Apple stava spendendo risorse molto maggiori per sviluppare il proprio, nome in codice Lisa. Lisa fu un fallimento, ma diede origine al MacIntosh, da cui il Mac. Ex post quella Apple di Steve Jobs, appare con una storia lineare, iTunes, iPod, MacAir, iPhone, iStore, iPad, iCloud,. Se Apple appare un treno che va su binari diritti è perché dei binari morti non si ricorda nessuno e i binari vincenti hanno, come la massa gravitazionale di Einstein, incurvato il paesaggio sicché essi appaiono diritti.

Inevitabilmente quando si parla di management saltano fuori i luoghi comuni dei “riferimenti etici” la “responsabilità sociale di impresa”. L’attenzione all’ambiente culturale in cui opera l’azienda, è una delle variabili esterne di cui un manager deve tener conto: ovvio che, in un mondo complesso, aumenta il numero delle variabili da controllare e quindi la difficoltà di trovare una sintesi in cui conciliarle tutte: ma non c’è nulla che la complessità cambi radicalmente. L’eticità dell’azienda sta ancora e sempre nel fare profitti, nel produrre occasioni di guadagno per azionisti, dipendenti e fornitori attuali, e per pagare le pensioni di quelli precedenti.

Ma allora, se in una prospettiva evolutiva vediamo più continuità che discontinuità; se criteri per gestire, e vincoli di cui tener conto appaiono un’evoluzione adattativa di principi già presenti nella aziende “classiche”, sarà il caso di abbandonare i discorsi generali che si fanno sulla gestione delle imprese della conoscenza, e che fanno riferimento ai temi quali la complessità, l’incertezza, l’innovazione tecnologica e la capacità di produrla. Dovremo darci un obbiettivo più modesto, e un approccio più operativo: concentrarci su un solo problema, ma comune ad aziende tanto diverse tra loro. Anzi alla sola parte che per prima si presenta quando lo si deve affrontare. Nella società dell’informazione c’è una maggiore richiesta di prodotti il cui valore è prevalentemente immateriale e conoscitivo, prodotti destinati sia immediatamente al consumo, sia mediatamente per la “produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza”. E quindi c’è una richiesta di lavoratori della conoscenza. Il problema manageriale su cui vogliamo concentrarci consiste nella loro gestione.

C’è un bellissimo testo di Sebastiano Bagnara, dal titolo “Trasformazione e complessità dei lavoratori della conoscenza” a cui attingo liberamente. L’identità dei lavoratori della conoscenza, dice Bagnara, non è ancora definita nella percezione sociale diffusa e neanche nei lavoratori della conoscenza. Anche questa è una storia di trasformazione piuttosto che di improvvisa comparsa: appaiono nuovi per la tumultuosità della loro crescita e per il loro numero, pari ormai al massimo raggiunto negli anni Cinquanta dalla società industriale allora al suo apice. I lavoratori della conoscenza non lavorano manualmente, ma mentalmente, manipolano simboli, oggetti immateriali pensati piuttosto che oggetti fisici. Sono impegnati nei processi di ideazione e produzione di novità e di emozioni, nell’anticipazione dei bisogni e dei desideri delle persone, nella cattura della loro attenzione. La continua rincorsa verso la novità produce una naturale instabilità delle organizzazioni, che dovranno non privilegiare nessun elemento rilevante, ma essere capaci di cogliere qualsiasi elemento rilevante. I lavoratori della conoscenza hanno bisogno di avere continuo accesso alle tecnologie della comunicazione; non appartengono a un’impresa perché nessuna impresa assicura stabilità; hanno relazioni sociali deboli perché mimano le caratteristiche di una tecnologia in cui nessun legame tra i nodi è identico al precedente e se questo si ripete la rete è debole; hanno identità deboli, episodiche, in continua riconfigurazione; vedono il lavoro non come fatica, ma come realizzazione di sé, regolano il lavoro non in base ai tempi di affaticamento, ma dal successo aspettato e dalla domanda del cliente. Nelle aziende che impiegano i lavoratori della conoscenza il sindacato tipico è assente, perché questo focalizza la sua offerta di rappresentanza sui tempo della fatica e della sua remunerazione.

La gestione dei lavoratori della conoscenza richiede quindi metodi e sensibilità affatto diverse da quelle tradizionali. La proposta che si vuole avanzare, riguarda solo una parte del complessivo problema della gestione, quella iniziale: la selezione. L’imprenditore o il manager, ammesso che abbia chiare in testa le caratteristiche della figura professionale che ricerca, non ha a disposizione nomi definiti con cui connotarle: ne darà un’idea composita, con alcuni punti fermi e molte variabili. La stessa cosa vale per il lavoratore intellettuale che si presenta sul mercato: anche lui non può contare su nomi disponibili per rappresentare se stesso, non sa quale delle sue caratteristiche sia quella che potrebbe essere di volta in volta richiesta. L’impresa sa che cosa vuole, ma non sa come descriverlo. Il lavoratore conosce se stesso, ma non sa come rappresentarsi. La risposta è per l’una come per l’altro, la “profilatura”, delle esigenze dell’una e delle caratteristiche dell’altro: l’uomo, quello che si cerca e quello che si offre, a molte dimensioni. Anche questo è un processo di scoperta, un processo che usa la conoscenza per ridurre la complessità che essa stessa ha prodotto.

Profilare le persone è quello che fanno i motori di ricerca, e chi pratica il commercio online: lo fanno in modo grezzo che si tratta ovviamente di raffinare.

O che magari è già in corso. “Oggi, scrive Albert-Lászlo Barabási in Lampi, quasi tutto ciò che facciamo lascia briciole digitali in qualche database. [...] Certo, l’esistenza di queste registrazioni solleva questioni enormi legate alla privacy, un problema di estrema importanza. Ma crea anche un’opportunità storica, offrendo per la prima volta dati oggettivi con un livello di dettagli senza precedenti sul comportamento non di un singolo, ma di milioni di individui. Negli ultimi anni questi database sono finiti in laboratori di ricerca di vario genere, dove informatici, fisici, matematici, sociologi, psicologi ed economisti hanno potuto analizzarli con l’aiuto di potenti computer e di una vasta schiera di nuove tecnologie.” Barabasi va oltre, e quello che prospetta è sconcertante:

“i dati dimostrano in modo convincente che la maggior parte delle nostre azioni è guidata da leggi, schemi e meccanismi che in quanto a riproducibilità e capacità predittiva uguagliano quelli individuati nelle scienze naturali. [...] Seguendo le tracce di queste scoperte arriveremo a considerare i ritmi della vita come segni di un ordine più profondo che caratterizza il comportamento umano, ordine che può essere esplorato, previsto e senza dubbio sfruttato. [...] Più a fondo le esamineremo, più sarà evidente che le azioni umane seguono schemi semplici e riproducibili, governati da leggi di vasta portata. Dimenticate il lancio dei dadi e le scatole di cioccolatini come metafore della vita. Pensatevi come un robot sognante guidato dal pilota automatico e sarete molto più vicini alla verità”.

Se così fosse, il cerchio si chiuderebbe in un modo paradossale: avremmo risolto il problema della complessità, ma non ci sarebbero più i lavoratori della conoscenza.

Convegno “Il mercato del lavoro nella strategia europea 2020″
di Gianni Vattimo

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