Gas, una liberalizzazione a ostacoli

febbraio 25, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Coglie il cuore del problema il Presidente del Consiglio quando, nel suo scritto pubblicato dal Sole 24 Ore il 20 Febbraio, individua nella complessità e nella incisività i due parametri in base ai quali valutare il disegno di riassetto del settore del gas.
C’è una complessità oggettiva, la difficoltà di liberalizzare un sistema a rete; e c’è una complessità soggettiva, la resistenza del monopolista ad accettare la concorrenza.

Distinguere tra le due complessità è essenziale per dare un giudizio sulla incisività dell’azione del Governo. Distinguere tra i due tipi di complessità è quello che cercavo di fare nel mio articolo (Meglio senza rete, Sole 24 Ore del 15 Febbraio). Questa la tesi che vi sostenevo: per la liberalizzazione la mossa decisiva è la separazione proprietaria della rete ad alta pressione; le difficoltà addotte dal monopolista sono strumentali.
Il sistema del gas consta di segmenti in cui c’è concorrenza (a monte, la produzione di gas; a valle, la vendita), e di segmenti in cui non c’è o perché non ci può essere ( la distribuzione capillare all’utente finale), oppure perché difficile da duplicare ( la rete dei grandi tubi di distribuzione e i giacimenti di stoccaggio).
Liberalizzare significa introdurre la concorrenza là dove è possibile, e la regolazione là dove non si può. Per avere più concorrenza tra produttori di gas si può dare la possibilità agli utenti finali di scegliere da quale produttore acquistare; e regolare le fasi di trasporto e stoccaggio con prezzi uguali per tutti, e garanzia di accesso a tutti i produttori per portare il proprio gas ai propri clienti.
Non appena il regolatore riduce i prezzi di trasporto rispetto a quelli praticati in regime di monopolio, il monopolista cerca di rifarsi ostacolando l’accesso ai concorrenti. Se il regolatore pone dei limiti alla quota di mercato a cui si deve ridurre il monopolista, questi cercherà di favorire l’accesso ai concorrenti che praticano prezzi più elevati; la strategia migliore per lui sarà di cedere egli stesso gas ad alcuni concorrenti. Il regolatore può intervenire per limitare gli abusi di posizione dominante o i comportamenti collusivi, ma non può mai eliminarli completamente: l’ex monopolista ha molte più informazioni e un forte incentivo a cercare di evadere i limiti del regolatore. Inoltre non solo non ha alcun interesse ad aumentare la sua capacità di trasporto, ma anzi ha un forte incentivo a razionarla.

Questi non sono comportamenti “perversi” dell’ex monopolista, al contrario sono comportamenti normali dell’impresa, e quindi si verificano regolarmente. I valentissimi economisti che Massimo D’Alema ha voluto accanto a sé a Palazzo Chigi gli possono fornire una sintesi della letteratura che dimostra, in base a considerazioni teoriche ed esperienze pratiche, che per dare a un paese tutti i benefici della concorrenza la separazione societaria non basta (al limite potrebbe perfino essere controproducente) e che è necessaria la separazione proprietaria: chi fornisce il gas non deve essere proprietario della rete primaria ( e dello stoccaggio). Vendere i tubi: la norma non è di per sé risolutiva; ma è necessaria per godere dei vantaggi della liberalizzazione.

Il decreto non prevede invece la separazione proprietaria. Al momento di mandare il mio pezzo al giornale, erano le 9 di sera, il contenuto del decreto non era ancora noto: ma non fu un azzardo ipotizzare che di separazione proprietaria non si parlasse e per questo criticarlo. Come se fosse difficile conoscere il potere del monopolista; i suoi rapporti, consolidatisi nei decenni, con le forze politiche e sindacali; il precedente Enel (dove pure la gestione della rete è formalmente separata); soprattutto l’avversione nazionale alla vera competizione, e la preferenza per soluzioni di compromesso, che si chiamino concertazione o accordi commerciali tra concorrenti.
Il Presidente del Consiglio si “dispiace” dei miei “rilievi critici”. Io mi dispiaccio che il mio Governo, dopo l’esperienza insoddisfacente della liberalizzazione elettrica – e a dire che di concorrenza ce n’è poca sono stati sia Amato che Tesauro – anche sul gas non abbia il coraggio di andare oltre un prudente recepimento della direttiva comunitaria.
Certo, neppure un recepimento “minimale”: Industria e Palazzo Chigi questa volta si sono spinti oltre il minimo indispensabile. Ma poco rispetto a quel che si poteva e si doveva. Facendosi troppo condizionare da possibili effetti sul titolo ENI: che forse l’indomani avrebbe perso qualcosa rispetto a oggi, per risalire però più energicamente a fronte di nuovi margini di efficienza e prospettive di contendibilità.

Perché le ragioni avanzate dall’ENI non reggono. Non regge la pregiudiziale di reciprocità con gli altri paesi; non la sicurezza degli approvvigionamenti, né la difesa dell’occupazione, né l’insufficiente ampiezza della delega al governo. O sono insostenibili: come quando l’ENI sostiene che solo la proprietà della rete le darebbe il know-how per costruire pipeline all’estero, come se mezzo secolo di monopolio non fosse un tempo sufficiente per apprendere quel mestiere. O per esprimere l’intero valore di quel business: per cui è falso che sostituire “i tubi” con il loro controvalore indebolisca l’ENI.
Il professor Gros Pietro ha affermato recentemente ( Corriere della Sera del 17 Febbraio) : “Gli interessi degli azionisti a cui il Governo ha venduto titoli ENI e gli interessi più generali che si tutelano con la liberalizzazione sono inconciliabili”. Io al contrario credo che sia contrario all’interesse degli azionisti attribuire all’azienda ruoli impropri di sicurezza strategica, perché così verrebbe eternato il controllo da parte del Governo, dunque la non contendibilità. Credo che non si crei valore per gli azionisti nel tenere del capitale immobilizzato per cogliere finché si può i profitti del monopolio, anziché investirlo nel futuro e usarlo per crescere.
Su questa presunta “inconciliabilità” può nutrire qualche dubbio il presidente dell’ENI; ma è il Governo che dubbi in proposito non può permettersi di averne. L’accusa a Palazzo Chigi, di essere una merchant bank, è ingiusta; ma sarebbe intollerabile se il Tesoro potesse essere accusato di essere una holding di partecipazioni.

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