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Garton Ash: meno eurogollisti, più transatlantici

Pubblicato il 03/06/2005 @ 16:30 in Articoli Correlati


di Luca Savarino
L’Occidente è in crisi. Una crisi paradossale, perché dovuta al suo successo: nata con la fine della guerra fredda, silenziosamente covata sotto le ceneri per tutti gli anni Novanta ed esplosa con fragore solo dopo l’11 Settembre, quando, di fronte alla sfida del terrorismo internazionale, le nazioni occidentali si sono divise in modo plateale.

L’ultimo libro di Timothy Garton Ash – Direttore dello European Studies Centre al St. Anthony College di Oxford e senior fellow presso la celebre Hoover Institution dell’Università di Stanford – tenta di comprendere che cosa è strutturale e che cosa è contingente della crisi che attraversa l’Occidente. Il suo Free World. America, Europa e il futuro dell’Occidente – edito da Mondadori e da pochi giorni in libreria – non è uno dei tanti libri d’occasione di cui è popolata la letteratura post 11 Settembre, ma una riflessione seria e documentata che, con occhio rivolto al passato, intende far luce su un difficile presente.
L’elemento strutturale della crisi emerge nell’ora del trionfo: con il crollo del muro di Berlino, viene a mancare il nemico comune che costituiva “il cemento delle relazioni transatlantiche”. Dopo la fine della guerra fredda, l’Europa deve nuovamente fare i conti con l’indeterminatezza di un’entità geografica che, per dirla con le parole di Jacques Le Goff, “si chiama così da 25 secoli, ma è ancora in fase progettuale”.
La parte migliore del libro è proprio quella relativa all’identità europea: nel momento della crisi – è questa la tesi di Garton Ash – rinasce la tentazione di definire la propria identità “in negativo”, in opposizione alla figura di un “altro”. E’ il caso dell’Appello per la rinascita dell’Europa, promosso nel 2003 da Jürgen Habermas e Jacques Derrida: l’idea di fondo era non soltanto che i valori, i sistemi sociali ed economici, la politica estera di Europa e Usa fossero tra loro diversi e irriducibili, ma che l’identità europea dovesse fondarsi proprio su queste differenze, che la renderebbero migliore degli Stati Uniti. Una tesi speculare al ragionamento con cui Robert Kagan ha giustificato una guerra sbagliata e la politica unilaterale dell’amministrazione americana. Una tesi “empiricamente falsa”, che tuttavia si trova a fondamento di quella visione dell’identità europea che Garton Ash definisce “eurogollismo”: gli eurogollisti, Chirac in testa, vogliono una grande nazione europea, una superpotenza che sappia tener testa agli Stati Uniti in un mondo multipolare. La politica europea di Chirac – una semplice variante del nazionalismo tradizionale – ha avuto come conseguenza quella di spaccare l’Europa a metà. Il recente referendum sulla costituzione europea – si potrebbe aggiungere – ha dimostrato che la stessa Francia è spaccata a metà: non a caso, si levano le voci di coloro che, come André Glucksmann, addebitano l’esito referendario alla politica neogollista e parlano di “chiracchismo senza Chirac”.
Il merito di Garton Ash è di non fermarsi alle generalizzazioni. Europa e America non sono entità monolitiche: vi sono quasi altrettanti contrasti in seno all’Europa e all’America, di quanti ve ne siano tra Europa e America. La divisione in Europa non corre lungo i confini nazionali: all’interno di ogni Stato è in atto una contesa tra la visione eurogollista e quella euroatlantica, incarnata dal premier britannico Tony Blair, ma molto diffusa anche tra le nuove democrazie dell’Europa centrorientale. Anche gli Stati Uniti sono un paese profondamente differenziato: su tutte le altre, spicca la contrapposizione tra l’America conservatrice del Midwest e del Sud e l’America liberal delle due coste. Se i contrasti tra Europa e Stati Uniti sono determinati da vincoli storici, da differenze di sensibilità e di attitudine, nel lungo periodo i loro interessi sono destinati a rivelarsi “comuni, coincidenti o quantomeno compatibili”. E’ interesse USA comprendere di non poter governare da soli un mondo globalizzato: sarebbe più utile una politica estera che favorisca l’integrazione europea, senza limitarsi a scegliere gli alleati, di volta in volta, tra i singoli Stati, secondo un principio simile al tradizionale divide et impera. Al tempo stesso, l’Europa deve prendere coscienza che le sue aspirazioni si realizzeranno solo all’interno di una comunità transatlantica più ampia: se la recente svolta nella politica USA si spiega con la necessità di mettere da parte l’unilateralismo, è interesse europeo collaborare attivamente all’obiettivo della democratizzazione del Medio Oriente, elaborando una politica estera comune.
La storia, a volte, accelera bruscamente: oggi, forse, è uno di quei momenti ingenerosi verso opere troppo ambiziose. Gli eventi degli ultimi giorni rendono più remota la prospettiva di quell’Europa allargata che Garton Ash auspica. Resta attuale il tema di fondo: l’Europa non può essere antiamericana, ma deve essere transatlantica. Una tesi scevra da accenti trionfalistici, nello spirito di un libro che mette in discussione un’immagine convenzionale dell’Occidente troppo spesso dipinto come la marcia lineare e irresistibile di una serie di valori – libertà, diritti umani, democrazia – che vanno “da Platone alla Nato”. Al contrario, ciò che ha reso la storia europea e americana diversa da quella di altri popoli sono state le incessanti divisioni interne, testimonianza della sua vitalità. Parlare di “crisi” dell’Occidente non significa pronosticare la sua fine, ma auspicare che la comunità delle liberaldemocrazie sia in grado di riappropriarsi della propria missione: la lotta per l’espansione della libertà. Una libertà minima, “elusiva, rischiosa, ardua da definire”, ma reale: “chi non è libero sa esattamente che cosa sia la mancanza di libertà”.

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