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Fondazioni bancarie. Gradualismo o tempestività nelle dismissioni?

Pubblicato il 30/12/1998 @ 11:13 in Convegni


Fondazioni Bancarie.
Gradualismo o Tempestività nelle dismissioni?
Proposte per il legislatore.

Associazione borsisti Marco Fanno, N. 5, 1998
Interventi di Mauro Agostini, Franco Debenedetti, Mario Draghi, Gianfranco Imperatori, Marcello Messori, Roberto Pinza, Pasquale I. Scandizzo.


Mi ha colpito il fatto che, nel giro di pochi giorni, il te­ma, — annoso ed assai frequentato, ma sempre attuale con la sua irrisolta incombenza — di quella specie di condanna per cui sono così poche le imprese italiane che da piccole diven­tano grandi, abbia ricevuto attenzioni sia pure provenienti da parti così diverse tra loro per collocazione politica e per ruoli istituzionali.

Sergio Romano, sul Corriere della Sera del 4 settembre, conclude la sua analisi con un appello severo e non consueto agli imprenditori perché risveglino il proprio spirito schum­peteriano. Mentre è uno dei temi su cui non si stanca di insi­stere Ciampi quello della fiducia: fiducia che, in questo mo­mento si dovrebbe manifestare privilegiando, per aumentare i profitti, la strada dei volumi e quindi della crescita.

Questi riferimenti sono pertinenti al tema che questa se­ra discutiamo almeno per due motivi. Il primo è che la cre­scita va finanziata, e va finanziata con capitali: e che quindi il modo di provvedervi, direttamente o indirettamente, chiama in gioco le banche, ne mette in evidenza il ruolo centrale ai fini di quella crescita a cui sono finalizzati gli ammonimenti di Romano e gli inviti di Ciampi.

In secondo luogo perché gli imprenditori chiedono certezze, quantomeno sul quadro normativo e politico. La legge sulle Fondazioni Bancarie ha grande rilevanza per entrambi gli aspetti.

Il discorso sulle Fondazioni — lo ricordava il prof. Draghi nella sua relazione introduttiva — nasce da lontano: ormai da un decennio si sono succedute dapprima la legge Amato, poi la 474, poi la direttiva Dini e adesso il disegno di legge del sottosegretario al Tesoro, Roberto Pinza. Dapprima ci si è po­sti l’obiettivo di privatizzare le banche, poi è caduto il vincolo del 51%, quindi si sono introdotti gli incentivi della direttiva Dini e ora gli sgravi fiscali.

Il disegno di legge delega sul riordino delle Fondazioni era volto a privatizzare il sistema bancario, come ha confer­mato anche questa sera il professor Draghi: la realtà tuttavia, non sembra giustificare l’ottimismo che emerge dalle sue pa­role. In questo momento, il dibattito sulla vendita delle ban­che sembra passato in secondo piano: le Fondazioni hanno incominciato a dismettere quote delle loro banche. Restano soci o di riferimento o comunque di determinante importan­za: ma l’hanno fatto per spinta del mercato, non per forza della legge la quale, peraltro, non chiede nulla di più per elargire generosamente incentivi fiscali.

Oggi la questione che appare in tutta la sua urgenza è quella che la volontà del legislatore, prima del fatto compiuto, affermi che cosa si vuole in merito all’impiego del patrimonio delle Fondazioni; in modo particolare in merito alla possibilità che le Fondazioni possano partecipare al controllo di società quotate.

Il San Paolo ha lanciato un programma di privatizzazio­ne interessante, congelando la partecipazione del 20%, e autolimitando il diritto di voto al 5%. Peccato che questo valga solamente nelle assemblee ordinarie — contrariamente a quello che era il progetto originario — e non in quelle straor­dinarie.

La Fondazione Cariplo è azionista di riferimento di Ban­che Intesa. Nel caso del Credito Italiano la situazione è para­dossale; tecnicamente la più privata delle banche italiane non lo è più; dopo la fusione con Unicredito l’azionista più im­portante sono le fondazioni della Cassa di Risparmio di Tori­no e di Verona. Il settore pubblico si espande per sua natura, se non è contrastato da una chiara volontà politica di andare in una direzione opposta; il Monte dei Paschi di Siena studia le offerte da fare alla privatissima Banca Agricola Mantovana ricevendo anche consensi inaspettati.

Questo per quanto riguarda le banche: sul versante Fondazioni, Compagnia di San Paolo e Fondazione Cariplo sono entrate a far parte del nocciolo duro di Telecom e del nucleo stabile dell’INA; la Cariplo possiede una quota impor­tante nell’Azienda Elettrica Municipale e vorrebbe aumentarla; non è stata smentita la voce secondo cui la Compagnia di San Paolo potrebbe andare a far parte del sindacato di controllo della Fiat.

La realtà, dunque, non induce all’ottimismo: nelle grandi banche, le Fondazioni rimangono o azioniste di controllo o azioniste di riferimento; inglobano o cercano di controllare anche banche già privatizzate; si propongono di concorrere al controllo di imprese quotate e di imprese da privatizzare.

Per la loro stessa natura le Fondazioni non sono, non potranno mai essere, investitori istituzionali; è per la loro na­tura che è bene per il mercato finanziario, che non lo siano. Lo ha spiegato in modo esemplare la Consob nel parere che ha reso noto alla Commissione Sesta del Senato.

«Il legislatore, sostiene la Consob», non caratterizza le fondazioni come un investitore istituzionale. Esse, infatti, «perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale»’ ( art. 2, co.1, lett. A). Ulteriori considerazioni portano alla medesima con­clusione.

In particolare:

1 — il patrimonio è strumento per il raggiungimento dell’obiettivo, non oggetto stesso dell’attività.

2 — a differenza degli investitori istituzionali tradizio­nali ( fondi pensione, fondi comuni) le fondazioni non hanno obblighi di erogazione di prestazione o di cessione delle quote.

3 — (…) la stessa mancanza di titolarità dei diritti sul capitale delle fondazioni esclude che la fondazione possa es­sere considerata un investitore istituzionale. Per conto di chi, infatti, investirebbe?»,

Queste le argomentazioni di tipo giuridico: ma ancora più rilevanti sono quelle di tipo operativo, perché riguardano proprio la materia che la legge assegna alle attenzioni della Consob.

Le fondazioni, qualora venissero considerate investi­tori istituzionali, danneggerebbero il mercato finanziario. « La capacità delle fondazioni di contribuire al miglioramento dell’efficienza del mercato finanziario», prosegue infatti il testo consegnato da Consob al Senato, « è legata a una puntuale separazione delle funzioni che verranno loro attribuite, ossia quella di enti erogatori e di ente che amministra partecipazio­ni. Si tenga presente a questo proposito che la teoria econo­mica ha indicato che gli amministratori degli enti non profil non sono stimolati ad agire efficientemente quando operano direttamente in attività che generano profitto perché “non de­vono rispondere ad azionisti titolari del diritto di appropriazione degli utili residui (…). Non giova al mercato che ci sia­no soggetti che operano sotto la frontiera efficiente della combinazione rischio-rendimento. Sotto questo profilo sareb­be auspicabile che gli impieghi di risorse che non rispondes­sero al suddetto requisito dell’efficienza fossero finanziati a valere su uno speciale fondo da iscrivere nel bilancio delle fondazioni».

Sono dunque due le ragioni per non far diventare le fondazioni investitori istituzionali a tutti gli effetti: la prima ri­guarda l’efficienza, la seconda la trasparenza del mercato.

Intendo porre, a questo proposito, due domande al Go­verno. La prima riguarda l’efficienza: vuole veramente il Go­verno dare vita a un sistema bancario interamente soggetto alle regole del mercato? La questione è strettamente legata alle condizioni del nostro sistema bancario — quello meridionale come quello settentrionale — ai suoi costi, alla sovrabbondan­za di personale a cui si dovrà porre rimedio, magari attingen­do ancora una volta alle casse dello stato. E sopra ogni cosa, al peccato di fondo che il professor Draghi ricordava, la più volte dimostrata incapacità di essere vicino alle dinamiche del mercato.

La seconda domanda riguarda la trasparenza; il Governo può tollerare che si dia luogo a una situazione che sia la prosecuzione in peggio del regime precedente? Perché se le fon­dazioni da azionista unico diventano azionista di riferimento o azionista condizionante, la trasparenza della struttura pro­prietaria è ancora minore di prima. Questo Governo ha pro­dotto la legge Draghi, sicuramente un passo avanti decisivo verso la trasparenza degli assetti proprietari: come può entra­re in contraddizione con se stesso, come può fare marcia in­dietro proprio nel settore che è a monte e che è quindi paradigmatico per il sistema tutto, quale quello delle banche. Le fondazioni non rispondono a un soggetto avente diritto, a qualcuno che sia in grado di valutare i risultati e sanzionare i vertici, che pretenda la massima efficienza nel rapporto rischio-rendimento.

Non si risparmiano le critiche a Mediobanca: ma almeno lì si sa chi c’è in Consiglio e cosa rappresenta.

Per queste ragioni — e qui mi ricollego a quanto affer­mava in precedenza l’on. Agostini — ho presentato emenda­menti al testo del disegno di legge in discussione in questi giorni al Senato. Occorre prevedere che le Fondazioni possa­no investire il proprio patrimonio in società quotate unica­mente attraverso il velo di un investitore professionale. Solo se si è chiari su questo punto, si può garantire alle fondazioni la massima libertà di iniziativa: fissato questo limite non c’è più bisogno di essere prescrittivi; inutile diventa quella auto­rità di controllo e vigilanza, che alcune Fondazioni giusta­mente temono possa essere lesiva della loro libertà. La libertà delle fondazioni si radica e si afferma proprio con questa se­parazione tra i loro scopi di «utilità sociale» e le decisioni di impiego dei loro patrimoni, nel fatto che esse non partecipino al controllo di società quotate.

È certo legittimo criticare i nostri imprenditori, invitarli a comportamenti più aggressivi, sollecitarli a esibire le proprie virtù imprenditoriali. Ma bisogna essere coerenti: non si è le­gittimati a farlo quando non si dà vita ad un sistema finanzia­rio soggetto agli stessi stimoli che si vorrebbero ritrovare negli imprenditori. Non si è credibili nell’offrire certezze, quando il disegno politico ed economico relativo alle casse di risparmio riesce, in dieci anni, a diventare l’opposto di quello da cui aveva preso le mosse.

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