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Fondazioni bancarie: ci vuole un limite

Pubblicato il 06/07/1998 @ 12:05 in Giornali,La Repubblica


Su Affari e Finanza di lunedì scorso, Sergio Luciano spiega con grande chiarezza la vicenda dei due «condannati a nozze» Bnl ed Ina. Una tabella ci informa sulla composizione dell’azionariato Ina: due dei tre principali azionisti (Tesoro a parte) sono San Paolo e Cariplo. Questo a pagina 6, a pagina 4 Salvatore Tropea ci offre una visione da insider dei futuri assetti del controllo di Fiat: l’occhiello ci informa sul «ruolo che potrebbe assumere il San Paolo». La maggior parte dei lettori avrà pensato che si tratti dell’Istituto S. Paolo di Torino e della Cariplo. Sbagliato: si tratta invece in un caso della Compagnia di S. Paolo, nell’altro della Fondazione delle Casse di risparmio delle province Lombarde.

E con questo andiamo a pagina 2, dove Federico Rampini esprime le sue preoccupazioni sugli «incesti tra banche e industrie». Liberissimo di guardare con sospetto gli incroci che si formano quando le aziende industriali acquisiscono partecipazioni nelle banche. Ma si deve riconoscere che si tratta di rapporti legittimi, regolati da una legge recente, che impone trasparenza nelle relazioni patrimoniali e creditizie, che rende gli assetti proprietari noti e, in maggior misura dopo la legge Draghi, contendibili. Ai fini dell’attuazione di questi principi, tuttavia, il punto veramente discriminante è se al centro di questi incroci stanno le banche o le fondazioni. Queste per le loro stessa natura si collocano fuori dal contesto competitivo: non esistono diritti di pro-prietà sulle fondazioni, i loro amministratori sono nominati o dagli enti pubblici o per cooptazione. Le fondazioni non sono tenute a fare profitti, non devono reperire capitali sul mercato e quindi non devono remunerarlo. Proprio per questo, si decise di «privatizzare» le banche di proprietà delle fondazioni: cioè trasformarle in spa e restituirne la proprietà al mercato e alle sue regole.
Grazie al boom borsistico, alcune fondazioni hanno incominciato a vendere quote delle loro banche. Ed ovviamente si pongono il problema di investire il ricavato. Risultato: Compagnia di San Paolo e Cariplo nei noccioli duri di Telecom e di Ina; la fondazione torinese tra i principali azionisti di Fiat e candidata ad entrare nel sindacato di controllo; quella milanese pronta ad ave-re un ruolo importante nella pseudo-privatizzazione (il comune resta al 51%) di Aem.
Si voleva che le fondazioni non controllassero più le banche, e le si ritrova che controllano le principali aziende. Mica male per un processo iniziato otto anni fa da Amato, sostenuto da una volontà politica confermata da cinque successivi governi. Ma ciò che colpisce è la sostanziale indifferenza sia degli antesignani protagonisti di memorabili battaglie per la trasparenza degli assetti proprietari, sia del neofiti che ad ogni piè sospinto chiedono «prima le regole e poi il mercato». Sotto i loro occhi si stanno instaurando situazioni che tra breve avranno l’immodificabilità dei fatti acquisiti.
La partita si gioca nei prossimi giorni: in Senato è in discussione la legge sulle fondazioni bancarie. Che essa sia poco efficace ai fini della dismissione delle banche è in fondo poco rilevante. Adesso siamo ridotti a dover evitare il peggio. Bisogna che la legge imponga alle fondazioni di investire i loro patrimoni come fanno i fondi pensione, cioè con l’obiettivo di ri-durre il rischio e di produrre reddito, non con quello di controllare le imprese. L’insistenza con cui continuo a sollevare il punto non deriva da un pregiudizio ostile alle fondazioni, anzi intende proteggerne i patrimoni da errori e da cupidigie. E questa la frontiera su cui oggi passa l’attuazione dei principi di separazione negli intrecci tra banche e industrie. Se non si pone questo limite è inutile continuare a diffondere diffidenze ed allarmi che finiscono per confondersi con il giudizio su questa impresa o su quella banca invece che radicarsi in chiari principi di legge.

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