Linea disturbata

settembre 17, 2006


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di Tito Boeri

Dopo aver seguito in questi giorni le animate conferenze stampa della nostra fitta delegazione, i cinesi si stanno probabilmente chiedendo che razza di Paese sia l’Italia. Loro se ne intendono sia di affari che di intervento dello Stato in economia. E hanno ascoltato una sequenza di notizie alquanto sorprendenti. Primo, il manager del più grande gruppo italiano (anche per numero di consulenti ed advisors) rimane in sella per cinque anni pur a fronte di risultati deludenti, se non addirittura disastrosi come nei media, e di un indebitamento al di sopra della media del settore.
Secondo, questo numero uno rinnega, con l’approvazione unanime del consiglio di amministrazione, la promessa fatta agli azionisti sul prospetto informativo depositato solo un anno e mezzo fa. I risparmiatori, tra cui forse anche qualche cinese emigrato in Italia, hanno mestamente assistito negli ultimi 5 anni al dimezzamento del valore del titolo in Borsa credendo nelle «sinergie» e nella «creazione di valore» associata all’integrazione fra fisso, mobile, Internet e media. Apprendono ora, tutto d’un colpo, che il valore si crea invece solo spaccando in due, anzi in tre, l’azienda.
Terzo, il nostro governo, impegnato a convincere uomini d’affari cinesi a investire in Italia e le autorità di Guangdong a fidarsi di noi, divulga nei minimi particolari i contenuti di trattative riservate in corso tra Telecom e altre aziende.
Quarto, il nostro premier confessa di essere del tutto all’oscuro della vicenda, nonostante vi sia, tra i suoi consiglieri, chi ha preparato piani di riassetto dell’azienda in puro stile banca di investimento (termine tradotto in italiano perché, come è noto, nella merchant bank di Palazzo Chigi non si parla l’inglese).
Quinto, il numero uno di cui sopra si dimette, motivando la sua scelta non tanto in base ai pessimi risultati dell’azienda quanto alle interferenze del governo, e il consiglio sempre all’unanimità chiama l’uomo della provvidenza, attualmente alla guida della Federcalcio. In effetti, i cinesi hanno potuto in questi giorni toccare con mano la Coppa del Mondo esibita negli stand dell’Ice a Canton. Ma non c’era bisogno di questo per convincerli che il rosso, declinato al plurale, è sinonimo di successo.
Probabilmente i cinesi, nelle prossime settimane, avranno altro di cui occuparsi. Non potranno dunque acquisire quelle ulteriori informazioni, che forse potrebbero dare un senso a vicende apparentemente incomprensibili. Siamo il Paese in cui si lasciano sempre trapelare i segreti, basta che siano quelli degli altri. Quindi tranquillizziamoci: prima o poi, sapremo tutto. Ma una cosa è chiara sin d’ora, anche ai cinesi che sono maestri nel fare e disfare scatole e nello stare in mezzo al guado, fra Stato e mercato.
Se avessimo un capitalismo maturo e una classe politica che ha una cultura economica (prima ancora che di mercato) adeguata, probabilmente nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Non avremmo catene di controllo bizantine, per cui gli utili di un’azienda che continua a macinare profitti nella telefonia mobile grazie alla scarsa (altro che eccessiva!) regolazione del settore, non vanno ad abbattere l’indebitamento, ma affluiscono ai piani alti della catena. Non avremmo neanche manager-padroni che possono sopravvivere, nonostante i loro palesi errori, ai posti di comando per quelli che nei mercati finanziari sono tempi biblici. Avremmo invece più concorrenza nelle telecomunicazioni e prezzi più bassi per gli utenti, il vero interesse nazionale, mentre il maggior gruppo italiano sarebbe un conglomerato con azionariato diffuso, controllato da un manager con una piccola quota. Non avremmo neanche personale nella cabina di regia con smanie di protagonismo, che vogliono intervenire in prima persona nella vita di un’impresa privata, anziché limitarsi a regolare e far leggi che assicurino che i piccoli azionisti abbiano voce in capitolo. Non avremmo progetti, comunque maturati non lontano dalle stanze dei bottoni, in cui torna in auge una creatura, assai popolare nella scorsa legislatura, come la Cassa Depositi e Prestiti, per rinazionalizzare la rete telefonica. Non vi sarebbe neanche chi al governo, per fortuna non tra i ministeri economici, chiede l’utilizzo della golden share, come se fossero in gioco gli «interessi vitali» del Paese. Di vitale per il Paese c’è in questa vicenda solo la credibilità internazionale. Bene salvaguardarla, a tutti i livelli.

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