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È la sinistra che lega Craxi e Berlusconi

Pubblicato il 21/01/2010 @ 23:23 in Giornali,Il Riformista

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Trent’anni di guerra. Tra loro non c’è continuità politica. Il punto di contatto è la strenua opposizione ai due da parte dei sostenitori del pensiero unico.

Ha ragione Antonio Polito, fare di Berlusconi l’erede di Craxi o la sua conseguenza politica è una “forzatura non vera e soprattutto non politicamente fondata”; sostenerlo è motivo più di confusione che di comprensione, e dell’uno e dell’altro.

Se invece si guarda alle opposizioni, allora emerge chiaramente la continuità tra anticraxismo e antiberlusconismo. Basta leggere i giornali, è evidente che l”’ostinazione e l’astio che, a dieci anni dalla morte di Craxi ancora avvelenano il dibattito su di lui” dipendono da un pregiudizio sul presente. L’Economist del 7 Gennaio va addirittura oltre: non si deve riabilitare Craxi perché questo “dissiperebbe una nube” sul suo “protégé”: riabilitarlo infatti vorrebbe dire screditare i giudici che lo condannarono, e proprio mentre il noto “unfit” cerca di introdurre riforme che riducano il potere dei magistrati. Ostilità a Craxi per ciò che Berlusconi ha poi fatto, oppure ostilità a Berlusconi perché erede vero del craxismo? No a Craxi perché Berlusconi, o no a Berlusconi perché Craxi? In questa “Guerra dei Trent’anni” é l’opposizione a creare la continuità tra le due fasi, quella craxiana e quella berlusconiana. In mezzo la legge Mammì, che riconosce l’esistenza in Italia della televisione commerciale privata: 18 anni dopo il suo primo apparire, dopo un paio di crisi di governo, diciotto sentenze della Corte, quattro referendum.

Proprio perché non c’è, tra Craxi e Berlusconi, continuità di proposta politica, c’è da chiedersi che cosa giustifichi questa continuità di opposizione. Il presidenzialismo resta per entrambi una prospettiva abbastanza indefinita; i rapporti con la magistratura sorgono per Craxi solo con i processi, dunque quando la sua parabola politica era già finita; la corruzione tangentizia come metodo di finanziamento della politica, pur connessa logicamente al conflitto di interessi, è nei fatti una cosa completamente diversa. C’è la questione televisiva: ma respingere l’oscuramento voluto da pretori rispondeva al solo buonsenso, e quanto alla legge Mammì, le reti Fininvest erano di fatto la televisione commerciale privata, al massimo si sarebbe potuto levare una rete a Berlusconi: avrebbe cambiato il corso della storia? Colpiscono soprattutto i toni, la sproporzione tra divergenze sulle politiche e decibel della polemica. “Avventuriero”, “spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto”,”bandito politico” che “si approprierebbe di tutto lo Stato”: non si può cavarsela dicendo che questi giudizi che Antonio Tatò trasmetteva a Enrico Berlinguer erano solo l’eco del “duello a sinistra”, la risposta degli ortodossi marxiani agli scismatici proudhoniani: chiunque li abbia frequentati, ricorda che anche in ambienti culturali e politici “borghesi”circolavano gli stessi giudizi, addirittura le stesse espressioni. Allora su Craxi, oggi su Berlusconi.

Che l’opposizione si basi su qualcosa di più profondo e di più fondamentale delle divergenze di indirizzo politico, diventa evidente durante i tragici cinquantacinque giorni della prigionia di Moro. È lì che si consuma il tragico gioco verità tra PSI e PCI; è in quell’occasione che Eugenio Scalfari schiera la Repubblica sulla linea del rifiuto di ogni e qualsiasi forma di concessione. Alla luce della contrapposizione tra partito della trattativa a partito dell’intransigenza, la storia politica di questi trent’anni appare come la lotta tra due diverse concezioni dei fondamenti su cui posa la nostra società. La battaglia di Craxi per affrancare il PSI dall’egemonia del PCI è del tutto diversa dall’uso propagandistico che Berlusconi fa delle accuse ai “comunisti”: ma quello che entrambi hanno volto sfidare è il “pensiero unico”, l’ideologia da cui è nata la Costituzione. Di qui la continuità di opposizione da parte di coloro che di quel patto si considerano custodi e interpreti.
Se ora ci si volta a guardare indietro a questi trent’anni di guerra, il risultato è francamente disperante. Cambiamenti ce ne sono stati, e giganteschi: ma sono venuti da fuori, dall’Europa (e la presidenza Craxi è stata determinante per la creazione del mercato unico), dalla tecnologia, dalla globalizzazione: noi ne siamo stati in buona sostanza soggetti passivi. I problemi a cui toccava a noi porre mano sono ancora lì, son sempre gli stessi: il debito pubblico che continua a viaggiare in zona pericolo, il Mezzogiorno e il controllo dello Stato, la pubblica amministrazione e la qualità dei servizi, il welfare che serve a pagare pensioni, una pressione fiscale in lento ma continuo aumento, una struttura industriale in bilico tra sprazzi di innovazione e perdita di rilevanza.
E, problema dei problemi, la giustizia, sia in quanto amministrazione nel suo rapporto con i cittadini i cui diritti deve concretamente garantire, sia in quanto ordine nel suo rapporto con i poteri dello Stato. Può darsi che l’emergere di chi promette di cambiare sia anch’esso un epifenomeno e che tra le cose immutabili si debba mettere anche la struttura dei nostri rapporti sociali. Ma è difficile sgombrare la mente dal sospetto che in trent’anni di contrapposizione ideologica, tra chi promette di cambiare e chi vuole conservare, si siano solo inutilmente sprecate energie.

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