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Donald, la Ue e l’autarchia

Pubblicato il 04/02/2017 @ 09:03 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Quasi tutti gli analisti politici sono critici verso Trump: chi per le sue menzogne inutili e indifendibili, chi per avere dilapidato in 17 giorni quello che l’America si era conquistata in 70 anni di soft power, chi per gli alleati ingiustamente umiliati (Messico) e i nemici spericolatamente corteggiati (Putin). Non così lo storico Niall Ferguson, che invece lo apprezza per la razionalità della sua geopolitica. Una considerazione che va presa molto sul serio: perché mentre in altri campi, dal bando agli immigrati alla guerra di dazi, ci resta la speranza che l’opposizione del suo partito e le reazioni del suo stesso popolo evitino disastri planetari, è difficile bloccare la visione strategica di un presidente.

Che cosa significhi questa “razionalità”, per Russia, Iran, Cina, Messico, già si intravvede. Per l’Europa, si traduce in una serie di accuse: non paga per la propria difesa, dato che sono gli Usa i maggiori contributori della Nato; ha un surplus commerciale che colloca la Germania accanto a Messico e Cina tra i Paesi colpevoli di esportare più di quanto importano; manipola il cambio dell’euro. E poi c’è la sfiducia epidermica di Trump per il modello della Ue: il suo auspicio che altri dopo il Regno Unito vogliano uscirne equivale a un invito a dissolverla. Non che gli argomenti non siano “razionali”, anzi. Da quanti anni i Paesi d’Europa non trovano un accordo per una difesa comune, oppure per una politica economica che miri più alla crescita del mercato interno piuttosto che delle esportazioni? Da quanti anni non affrontano alla radice il modo di essere di questa Unione, che sbandiera la retorica della ever closer mentre cresce l’insofferenza per i costi di una burocrazia ottusa, di una crescita asfittica, di una disoccupazione a livelli paurosi? Se mai servisse a smuovere le leadership europee per sciogliere alcuni di questi nodi, ci sarebbe da dire ben venga la geopolitica di Trump.

Questa trova invece ascolto tra gli elettori dei partiti populisti, soprattutto del sud dell’Europa, che pensano di risolvere il problema dei costi dell’Unione abbandonandola: uscire dall’euro, svalutare, recuperare competitività, rilanciare la crescita. Che sia un proposito insensato, con conseguenze drammatiche su salari e risparmi, su crediti e su debiti, è indubbio: ma dato che a dirlo sono le élite, le dimostrazioni non valgono a convincere i sostenitori dei movimenti che si costituiscono proprio in antagonismo ai tecnicismi delle élite. Ma l’uscita dall’euro, per quanti non han fatto valere all’origine una escape clause (cioè Regno Unito, Danimarca e Svezia), comporterebbe anche l’uscita dall’Unione Europea: porrebbe cioè ciascun Paese nelle condizioni del Regno Unito dopo la Brexit. Che quindi dovrebbe riscrivere i trattati che definiscano dettagliatamente i nuovi rapporti con l’Unione Europea (minimo due anni di lavoro per i diplomatici, di incertezza per operatori di mercato e lavoratori); ma soprattutto trovare un nuovo modo di collocarsi nel mondo. Nel Regno Unito, per un po’ si è pensato che si possa vivere da soli come campioni del libero mercato, poi che con Trump alla Casa Bianca sia possibile ristabilire la storica special relationship e così «scendere dalla zattera dell’Unione Europea e salire sull’ammiraglia dell’Anglosfera» (Gideon Rachman sul Financial Times): salvo riconoscere, dopo qualche equivoco, che da quella eventualità è meglio prendere le distanze.

Anche a noi toccherebbe negoziare nuovi contratti per vendere i nostri prodotti e importare le materie prime, per mandare i ragazzi a studiare all’estero e fare entrare gli adulti che vogliono vedere le nostre bellezze, per investire i risparmi e far finanziare i progetti. Ma per noi, a differenza del Regno Unito, nessuna special relationship, nessuna sede in cui far valere un passato grande di potenza imperiale e un presente di grande centro finanziario, un seggio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, un arsenale nucleare e una flotta di sottomarini. Staccata dall’Europa, l’Italia galleggerebbe nel Mediterraneo, sola e irrilevante nel mondo.

Questa immagine dovrebbe mettere paura anche a quelli che non credono alle previsioni delle élite, e indurre anche quelli che sono disposti a giurare sulle scie chimiche o sul complotto dei vaccini, a prendere le distanze da chi vuole spingerci sulla strada dell’autarchia economica e politica. Sempre, ma ancor più nel mondo della geopolitica trumpiana, più che un sogno sarebbe un incubo.

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