Destra-sinistra, una metafora vuota. Questo paese ha bisogno di crescita

ottobre 1, 2004


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Il fine del riformismo non è la pace sociale, ma fare ciò che Berlusconi ha solo promesso

Ulivo, quercia, triciclo, balena bianca, perno…: il linguaggio della politica fa largo uso di metafore. Anche “destra e sinistra” è una metafora, e nessuno, usandola, pensa più al modo in cui si dispongono i deputati nei parlamenti. Ma poi finisce che le metafore vivono di vita propria, prendono concretezza, influenzano il ragionamento. A forza di dire destra e sinistra, essere di destra o essere di sinistra, finiamo per credere che sia un fatto di natura che il mondo delle preferenze politiche sia unidimensionale e ordinabile lungo un asse orizzontale.

C’é una curiosa analogia tra il modo di concepire lo spazio politico e lo spazio fisico. Newton, per definire i movimenti dei corpi celesti così come vengono osservati dalla terra, usò una struttura di riferimento rigida, la terna d’assi inerziale. Inventò lo spazio assoluto, che non é un oggetto fisico, bensì un costrutto della nostra mente. Ma la scienza, obbiettò tre secoli dopo Ernst Mach, deve occuparsi solo di cose naturalmente osservabili. E formulò la tesi secondo cui non è lo spazio, ma tutta la materia dell’universo, quella condensata nelle singole stelle, a esercitare un’azione fisica, e che il solo movimento reale è quello in relazione all’insieme di tutti i corpi dell’universo.

Abbiamo fatto, nello spazio politico, quello che Newton ha fatto nello spazio fisico, abbiamo sovrapposto un costrutto geometrico alla realtà e ve l’abbiamo costretta dentro a forza. Invece come la realtà dell’universo fisico é la materia dell’universo, la realtà dell’universo sociale sono gli uomini, i loro bisogni e i loro desideri. L’asse destra sinistra che abbiamo usato da tanti anni non riesce più a spiegare l’aggregarsi, il disporsi, l’attrarsi e l’influenzarsi reciproco delle preferenze politiche reali espresse dagli uomini reali nella nostra società complessa.

E’ necessaria una rivoluzione machiana. Il riformismo, se non vuole fermarsi a metà strada, se vuole avere una proposta che risolva i problemi e non indichi solo quanto gli altri lasciano irrisolto, se vuole essere la leadership che innova e non la squadra di manutenzione che ripara, deve assumere questa proposta rivoluzionaria: scegliere come metodo il considerare la realtà “solida” degli uomini anziché il “vapore” delle astratte costruzioni geometriche.

Se assumiamo il punto di vista “machiano”, la “traiettoria” nell’universo politico, quella che risulta dalla forza gravitazionale dei desideri e delle aspirazioni degli italiani, é la crescita. Senza crescita non c’è soluzione ai nostri problemi, né futuro per il paese. Berlusconi vinse nel 2001 perché la maggioranza degli italiani credette al suo progetto di far crescere il paese: perfino il governatore Fazio previde un secondo miracolo italiano. Non gli riuscì: il “buco di Tremonti” non è contabile, é la constatazione che le operazioni straordinarie non sono valse a parare gli effetti delle varie crisi internazionali e a promuovere la crescita. Ma Berlusconi lo riproporrà anche nel 2006, e la battaglia politica si giocherà sulla credibilità di assicurare la crescita. Se vuole vincere, la sinistra dovrà fare della crescita la priorità assoluta del proprio programma. E solo così è augurabile che vinca.

Priorità assoluta, dunque non subordinata ad altri obbiettivi. Questi, dal welfare all’istruzione, dalla giustizia alla politica estera, vanno valutati e usati in funzione del loro contributo all’obbiettivo prioritario della crescita. Il metodo non garantisce soluzioni immediate, non ignora la complessità delle interazioni. Ma rifiuta di nascondere dietro gli ossimori l’incapacità di scegliere.
Tra le cause del fallimento delle promesse di Berlusconi sta anche la conflittualità che ha diviso il Paese. Oggi è tutto un gran esortare alla concordia, al fare squadra, tornano in auge i riti della concertazione. E chi dice di no? Basta non scambiarlo per la ricetta sufficiente per la crescita. Al Paese non serve una sinistra che contenga le conflittualità, che assicuri una certa pace sociale in momenti difficili; una sinistra un po’ piagnona, capace di convincere la gente a fare sacrifici, seria fino al masochismo. Una lusinga mortale: una lusinga, perché il credito è immeritato; mortale, perché una forza politica a cui si riconosce solo la capacità di arrestare un declino è destinata essa stessa al declino.

Sono tre decenni, più di una generazione, che l’Europa si allontana dagli USA. L’Italia fa peggio. Lo dicono le statistiche, lo confermano le impressioni. Negli ultimi 7 anni nella sola Shanghai si sono costruiti 1000 grattacieli: quanti ad opera di imprese italiane? In molti di loro scintillano rubinetti tedeschi: e noi vogliamo proteggerci con i dazi. Le grandi imprese manifatturiere vanno male, ci consoliamo pensando a quelle 2000 medie aziende di successo, da Brembo a Ferrero: restiamo sempre nelle vecchie specializzazioni. Invece nei servizi, quelli che hanno determinato la crescita USA, i privati hanno solo, e parzialmente, sostituito lo stato nei settori protetti, nello sterminato mercato dalla distribuzione agli alberghi, dalla finanza ai “media entertainment” dal SW alla logistica, semplicemente non esistiamo. Certo, le avare spese per ricerca: ma quanta ricerca c’é dietro al successo di una Starbucks? Perché sono così poche le aziende italiane capaci di pensare al mondo come proprio mercato? Perché il nostro coraggio arriva solo fino a Timisoara?

In termini macroeconomici, perché il paese cresca bisogna che aumenti l’input, che più gente lavori per più tempo. In termini microeconomici, la crescita è superiore alla somma delle crescite individuali. Qui si tratta di vedere di che pasta é fatto il nostro riformismo, quanta é la coerenza alla priorità scelta, se non scartiamo di fronte agli ostacoli ideologici. Quello, ad esempio, delle responsabilità, che non sono solo di Berlusconi, ma abbondantemente pure nostre. O quello della sacralità del patto di stabilità e crescita, che come ossimoro non è male. O quello di resistere a legare più strettamente salari e produttività, e di misurarli là dove si verificano. O quello dell’eguaglianza sempre: uno studente che voglia impegnarsi in studi più difficili, deve trovare disponibile un sistema scolastico che valorizzi le differenze, non che miri all’uniformità. E lo stesso si può dire per un operaio che intenda lavorare più ore all’anno, o un imprenditore che intenda impegnarsi in progetti che richiedano maggiori risorse finanziarie. Una politica che ponga al primo posto la crescita non può contemporaneamente porsi obbiettivi redistributivi. Non fu l’obbiettivo di ridurre le diseguaglianze, ma la fiducia di poter raggiungere un maggior benessere, di espandere la propria attività, il motore della crescita nei primi due decenni del dopoguerra.
Bisogna dare un orizzonte di ragionevole stabilità perché si investano le proprie risorse, materiali o personali. Bisogna che si eliminino alla radice le ragioni per cui oggi non é conveniente o necessario investire: le protezioni corporative, magari ereditarie, i settori poco o nulla esposti alla concorrenza. Se c’é tanto lavoro precario é anche perché c’è troppo lavoro immeritatamente esente dalla ricerca di produttività. Se ci sono pochi beni pubblici é perché c’è una concezione quantitativa dei compiti dello stato, che produce e che possiede, anziché indirizzare e controllare.

Perché la crescita diventi una priorità nazionale, ci vogliono idee nuove, aria nuova, una classe dirigente che sappia rinnovarsi. Quanto si diceva della necessità di considerare la realtà della vita e della società anziché costringerla negli schemi, vale non solo per i progetti politici, vale anche per come il mondo della politica si organizza e si struttura. La “rivoluzione machiana” forse incomincia proprio da lì.

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