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Debenedetti: la flessibilità riguardi tutti dobbiamo superare un tabù culturale

Pubblicato il 30/07/2008 @ 13:48 in Giornali,Il Messaggero

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L’intervista

ROMA – «Dev’essere la politica e non la magistratura a decidere quanta flessibilità sia necessaria nel mercato del lavoro». Franco Debenedetti non vuole entrare nel merito dell’emendamento sui precari delle Poste, su cui in questi giorni si è acceso lo scontro. Ma sul tema più generale della flessibilità nel mercato del lavoro, ha idee molto chiare: la flessibilità non si può ridurre al solo tema dei precari.

Che idea si è fatto di questa querelle sui contratti a termine?

«Probabilmente è stato fatto un pasticcio, anche se mi pare che di pasticci ce ne siano ormai un po’ troppi. Visto che si tratta di errori che poi vengono corretti, sarebbe meglio non farli proprio. Con la maggioranza cheha. o con l’opposizione che si ritrova, questo governo potrebbe evitare di incappare in incidenti del genere».

È stato lo spunto per tornare a parlare di flessibilità, tema su cui del resto in questi anni c’è stata una discussione intensa…

«Non è certo il modo più efficace per affrontare il problema vero. Il mercato del lavoro in Italia è diviso in due, tra chi ha tutte le tutele e chi ne ha poche o pochissime. Il problema è sempre stato affrontato dal lato di questi ultimi. Invece il mercato del lavoro è uno solo, e le garanzie devono essere modulate ma considerandolo nella sua unità. Che non è uniformità».

Dalla fine degli anni Novanta sono state fatte varie rifor¬me in direzione della flessibilità. O no?

«Tutte le riforme che sono state fatte, da quelle di Treu alla legge Biagi, hanno cercato di rimediare alla rigidità del mercato del lavoro, introducendo o regolamentando nuove forme contrattuali. Che siano servite lo dimostra il fatto che, nonostante le performance non brillanti della nostra economia, abbiamo una disoccupazione bassa. Ma il problema del dualismo, di quella che Pietro Ichino chiama apartheid, resta neppure affrontato».

Nella precedente legislatura il governo Berlusconi ci ha provato con l’intervento sull’articolo 18…

«Sì, ma è stato un tentativo timido, sperimentale, di cui tutti preferiscono non parlare quasi che se ne vergognassero. E quindi non è approdato a nulla».

Lei che modello immagina?

«Sono state avanzate varie proposte di questo tipo, da Ichino, da Boeri e Garibaldi, da Cazzola. Personalmente sono per il modello Ichino: un contratto unico a tempo indeterminato, con garanzie crescenti nel tempo anagrafico e di anzianità aziendale, ma con un costo certo di reversibilità per le imprese. Quello di Giuliano Cazzola si distingue per l’estrema semplicità: dare anche all’azienda la possibilità, che oggi ha solo il lavoratore, di optare tra reintegro e indennizzo. In ogni caso il punto è sempre Io stesso: unificare il mercato del lavoro, e superare il tabù per cui tutta la flessibilità va a scaricarsi su chi non ha il contratto a tempo indeterminato».

Ma inserendo questa flessibilità anche nel contratto a tempo indeterminato non si rischia di lasciare mano libera alle imprese, senza nessuna tutela per i lavoratori?

«Diciamo intanto che la forma del contratto a tempo indeterminato è e resta di gran lunga prevalente, e che dal 1997 al 2006 su 2.900.000 nuovi posti di lavoro, 2.150.000 sono permanenti e 750.000 a termine. Le aziende hanno interesse a incentivare la formazione di capitale umano e a tenerselo. Non abbiamo interesse a che si sviluppino aziende che assumono e licenziano a piacere: e quindi è logico mettere un freno, rendendo questa prassi costosa. Quanto costosa dipende dal tipo di aziende che vogliamo avere, di quale specializzazione industriale scegliamo, magari anche della congiuntura. Perché questi, che sono indirizzi economici generali, devono essere sottratti alla politica?»

Chi è che li sottrae?

«Di fatto oggi è il giudice che decide sul giustificato motivo economico. La magistratura dovrebbe invece agire, e severamente, solo contro i licenzia¬menti arbitrali, discriminatori, antisindacali e simili».

Secondo lei come verrebbe accolta questa iniezione di flessibilità, in un Paese che pare già molto preoccupato di quella che c’è?

«I problemi di insicurezza di quanti non hanno un lavoro fisso, la sindrome del precario, è la conseguenza di questo mercato del lavoro duale. Ma la flessibilità nel mercato del lavoro è una conseguenza inevitabile di un’economia che da manifatturiera diventa sempre più legata ai servizi, quindi più legata a tecnologie che evolvono rapidamente, a preferenze dei consumatori che mutano. L’emendamento-Poste è stato congegnato male. Speriamo che il governo non si limiti, a modificarlo ma che sia l’occasione per affrontare con pacatezza e coraggio questo tabù culturale».

di Luca Cifoni

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