Cultura d’impresa il vuoto dei piani alti

aprile 3, 2015


Pubblicato In: Articoli Correlati


di Giuseppe De Rita

La generazione di laureati cui appartengo, quella che cominciò a lavorare intorno agli Anni 60, coltivava il sogno di entrare all’Iri o alla Cassa per il Mezzogiorno, in Olivetti o in Montecatini, luoghi di ricca articolazione organizzativa, che garantivano alta e gratificante professionalità (non a caso in essi si è formata una buona parte della classe dirigente degli ultimi decenni). Quei luoghi non ci sono letteralmente più.La generazione successiva, quella che ha cominciato a lavorare a metà degli Anni 80, ha invece coltivato il sogno di andare nelle grandi banche o nelle grandi sedi di intermediazione finanziaria nella convinzione che solo in esse si poteva sperare in una ascendente mobilità professionale. Oggi quella prospettiva è declinata, se è vero che anche grandi banchieri propendono al lavoro in proprio o al trasferimento di uffici e famiglia a Londra.Alla fine, paga il conto la generazione di laureati che oggi vogliono entrare nei piani alti del mercato del lavoro. Essa è più solida in termini di anni standard di educazione, anche post-muniversitaria; ma trova aziende e istituzioni «rinsecchite» (per concentrazione di business e/o per spending review) e quindi carenti di una articolazione organizzativa capace di accogliere e valorizzare i giovani. Ai quali resta o l’avventura del lavoro autonomo o più ancora l’avventura di andare all’estero, nel rimpianto di chi parla di esodo dei talenti e nello sconcerto di chi ritiene che cediamo ad altri un capitale umano creato dalle famiglie e dalle istituzioni italiane.È il frutto della globalizzazione, per carità; ma è anche il risultato di un sistema (di imprese e di istituzioni) che ha decostruito le strutture manageriali più complesse senza sostituirle con altre di pari spessore, così creando dei «vuoti» certo non attrattivi per giovani con un po’ di ambizione.Converrà allora cominciare a pensare che la crisi più grave non si esplica nei livelli medio-bassi del mercato del lavoro, ma nei piani alti, quelli della professionalità alta, delle strutture organizzative di grande dimensione (private e pubbliche, aziendali ed istituzionali) che pagano il decadimento delle funzioni dirigenziali e degli organigrammi ad esse preposti, e che quindi non hanno vitalità e spazi per giovani di buon livello, ormai neppure per mantenere al lavoro i dirigenti anziani destinati a diventare «esodati». Una crisi dura ed inattesa, su cui non abbiamo adeguate strategie di fronteggiamento. Ed allora vale la pena di ripartire dalla denuncia netta e chiara del «tradimento dei grandi» (aziendali e istituzionali) e dei loro chierici. Per anni hanno sostenuto che la debolezza del sistema Italia veniva dal prevalere della piccola dimensione; si dilettavano a dire che «il piccolo non è bello»; guardavano con una certa albagia quel «popolo di nani» che pure è la componente dominante della nostra realtà d’impresa.Sostenevano a parole l’esigenza di sviluppare dimensioni organizzative sempre più complesse e competitive, ma nei fatti non hanno saputo far crescere i soggetti, l’organizzazione, i quadri dell’operare in grande. E adesso una parte di loro resta in silenzio svicolando dal problema, ed una parte addirittura sceglie una «piccola avventura» personale.Allora, ci salveranno i tanto bistrattati nani. È già successo, negli Anni 70, che il progressivo declino delle grandi dimensioni di impresa sia stato compensato dalla moltiplicazione delle piccole imprese, spesso addirittura sommerse. Ma oggi i livelli di competizione internazionale e tecnologica sono tali da non permettere grandi spazi ai piccoli imprenditori; occorre allora un complessivo salto di qualità del sistema puntando allo sviluppo di nuova cultura manageriale, di nuovi assetti aziendali, di nuovi modelli di organigrammi organizzativi, di nuove procedure decisionali, nuovi canali di comunicazione, in un periodo di una nuova complessità della governance. Ed è questo, forse, l’unico modo per dare sostanza al vecchio termine di «politica industriale»: non disperdersi in strategie di settore, ma concentrarsi su un solo fattore, il rinnovamento della cultura organizzativa, quello dei vertici delle aziende, dei gruppi d’impresa, delle istituzioni economiche.

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