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Craxi, in fondo, era statalista

Pubblicato il 19/01/2001 @ 14:44 in Varie


Accanto alla memoria «politica» di Bettino Craxi — lo statista dell’anticomunismo, dell’abolizione della scala mobile, di Sigonella, il Presidente del Consiglio ammirato da Bruno Visentini, che fu mi-nistro nei suoi Governi, e si sa quanto il Professore fosse parco nel dispensare la sua ammirazione — c’è in me una memoria personale, legata alla vicenda SME, che io vissi dalla parte opposta, essendo all’epoca vicepresidente della Cir.

Ricordo che nel 1985 Romano Prodi e Carlo De Benedetti, Presidenti rispettivamente di Iri e di Cir, firmarono in Mediobanca un contratto di vendita della SME, ottenendo l’approvazione dei consigli di amministrazione delle loro società. Craxi , Presidente del Consiglio, si oppose, ottenne l’intervento di cordate concorrenti, l’operazione non si realizzò e si trascinò per anni nelle aule dei tribunali.
Otto anni dopo, lasciati ogni attività manageriale e interesse imprenditoriale, fui eletto la prima volta al Senato: invitai a riflettere sulla figura di Craxi, non posso non ritornare a quella vicenda per rileggerla da politico e alla luce dei temi di cui da polittico prevalentemente mi occupo.
Quella vicenda mostra con chiarezza quello che a me pare essere stato il limite del Craxi riformatore e innovatore della politica italiana: aver concepito la battaglia per la rottura della polarizzazione DC-PCI, che soffocava la vita politica e civile dell’Italia solo in termini di lotta per il potere politico, senza portarla anche ad aggredire le basi economiche e le strutture materiali su cui quel potere si basava e da cui traeva forza e consensi Oggi è abbastanza facile capire che la liberazione dell’Italia dal gioco obbligato a cui la costringeva la contrapposizione senza dialettica tra DC e PCI non poteva compiersi senza una radicale iniziativa di liberalizzazione. L’Italia aveva — ha — bisogno di una rivoluzione liberale: questo passo Craxi non l’ha compiuto. Vedere in Tangentopoli la nemesi di questo errore sarebbe meschino e riduttivo: ma il crollo di DC e PSI, e il travaglio che tuttora affligge il partito erede del PCI, sono non casualmente collegati, anzi discendono direttamente da una visione politica che non pose prioritariamente il problema della liberalizzazione delle nostre strutture economiche.
La vicenda SME contiene in nuce tutte le difficoltà che, forse inevitabilmente, incontra il processo di restituzione al mercato e ai privati delle aree economiche occupate dallo Stato. Vendere tutto insieme o vendere a pezzi? A trattativa privata o con asta pubblica? A gruppi esistenti da rafforzare o a nuovi imprenditori da fare emergere? Quei problemi potevano essere affrontati allora. E Craxi, sospinto, anche elettoralmente, da ceti e interessi che ambivano alla modernizzazione dell’Italia, avrebbe potuto farlo in prima persona. Invece si dovette attendere il 1992, i giorni ango-sciosi della svalutazione. Con l’emergenza finanziaria l’obbiettivo di fare cassa finì per prevalere su tutti gli altri; con conseguenze tanto persistenti da indurre ancora recentemente il Presidente dell’Antitrust a lamentarlo.
Così, quel poco o tanto che si è riuscito a fare venne fatto piegandosi a una dura necessità, più che per riappropriarsi di spazi di libertà. Le liberalizzazioni non diventarono il propellente per un processo di modernizzazione che investisse strutture produttive e rapporti proprietari, professioni e pubbliche amministrazioni, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e gli orizzonti su cui proiettare le proprie personali attese.
Il paradosso finale è stato così che l’uomo che voleva supplire con la sua vis polemica alla mancanza nella sinistra italiana di una Bad Godesberg, o almeno di uno straccio di programma di Epinay, ha lasciato il vanto di avere recepito mercato e privatizzazione agli eredi di quei comunisti che aveva tanto combattuto.

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