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‘Corporate governance’: per fare il mercato

Pubblicato il 04/11/1995 @ 13:14 in Giornali,Il Sole 24 Ore


C’è qualcosa di marcio nell’anima delle società europee» titolava il Financial Times del 9 luglio 1994. I casi, prima e dopo di allora, di gravi perdite riconducibili a errori o abusi dei manager, senza che i controlli funzionassero, si sono accumulati in maniera impressionante, portando in primo piano il problema della corporate governance, da cui prende le mosse Gianni Nardozzi battaglia perduta per la trasparenza’, Sole 24 Ore del 15 Ottobre) e che Il Sole ha affrontato in un’inchiesta pubblicata il 18, 21 e 26 luglio.

La sua tesi è che il progetto di evitare la collusione tra proprietà e management, introducendo in Italia il modello basato sul mercato ispirato alla realtà anglosassone, è stato un sostanziale fallimento, e che così si è attivato un circolo vizioso anziché quello virtuoso che si sperava.
La mia tesi è che più che parlare di fallimento di un modello, bisognerebbe constatare la mancanza della sua introduzione: che questa è concretamente possibile, agendo su entrambi i punti critici indicati da Nardozzi, carenza di potere degli organi di controllo e assenza di investitori atti a esercitare la funzione di insider.
Converrà prima sgombrare il campo da una pregiudiziale: che un sistema quale il nostro basato su imprese a controllo familiare organizzate in gruppo piramidale offra tali incentivi alla collusione tra proprietà e management, da renderlo incompatibile con un corretto funzionamento dei mercati. Ora, come ricorda il titolo del Financial, il ‘marcio’ non è solo italiano. I casi Metallgesellschaft, Opel, Mannesmann, Daimler, Schneider, Credit Lyonnais, Alcatel, Suez, Mitsui Mining, quello recentissimo della Daewoo, solo per citare i maggiori, si sono sviluppati in sistemi affatto diversi dal modello anglosassone basato sul mercato (che ha avuto i suoi, da Maxwell alla Baring, passando per 1′ American Express). Che si tratti di frode, o di semplice mismanagement, in tutti i casi i controlli non hanno funzionato. Ci si può chiedere se la nostra struttura piramidale sia surrogato di forza o elemento di debolezza per il sistema delle imprese, fin quando ne abbia favorito lo sviluppo e quando abbia incominciato a limitarlo: ma è un irrimediabile difetto genetico? Intanto il sistema inizia a rivelare i suoi limiti: la nuova composizione del Consiglio di amministrazione Fiat, la vicenda degli aumenti di capitale del gruppo Cofide, e quella del progetto Supergemina, dalla non benevola accoglienza iniziale alla sua messa in mora. Quando, passata la fase dell’euforia espansiva, si tratta di ritornare al mercato per ripianare le perdite, diventano più evidenti i lati critici del sistema, in par-ticolare l’inevitabile divaricazione (quando non conflitto) di interessi, e ciò anche quando non siano in gioco operazioni infragruppo.
Ma torniamo alla prima delle due criticità indicate da Nardozzi: la «solitudine» in cui abbiamo lasciato al Consob. Non si poteva fare di più? Forse che si sono posti obblighi di trasparenza, di completezza e tempestività informativa, regole anche solo paragonabili a quelle che sono alla base dei modelli che (non) abbiamo introdotto? Si citavano prima casi di fallimento del mercato: anche lì si discute del sistema, ma intanto si cerca di correggerlo. In Inghilterra si sono avuti il primo ed il secondo rapporto Cadbury, in Francia il rapporto Vienot, in Usa sono stati i raider, i barbari alle porte, a gettare il panico nelle stanze dei consigli di amministrazione. Da noi invece l’agenda di specifici interventi (informazioni e deleghe; responsabilità degli amministratori; diritti speciali degli investitori in gruppi piramidali; riforma dell’ Opa; legge fallimentare) suggerita da Fabrizio Barca (On corporate Governance in Italy, Ufficio Studi della Banca d’Italia) è rimasta lettera morta.
Veniamo ora alla seconda criticità, la mancanza di investitori istituzionali, quelli che assicurano la responsabilità (accountability) dei manager rispetto agli azionisti. (Per un’analisi divulgativa si veda la survey dell’Economist del gennaio ’94). Nardozzi sfonda una porta aperta quando stigmatizza «le palesi carenze del controllo interno da parte delle banche, in primis Mediobanca» («in primis»? chi prestava i soldi a Ferruzzi e all’Efim?): non canta fuori dal coro quando invoca «la comparsa di nuovi protagonisti», un’era con più mediobanche. Ciò che stupisce, è che non faccia il passo successivo: perché questi investitori ci sono, sono le ex fondazioni bancarie, sol che si provveda a privatizzarle.
Si tratta di un passo essenziale per due motivi: primo, perché è fattibile in tempi relativamente brevi. Secondo, perché qualsiasi riforma volta ad aumentare la accountability delle imprese servirà a poco se non si risolverà prima il problema della accountability di chi alle imprese fornisce i capitali, cioè le banche. Quale accountability possono offrire banche controllate da fondazioni i cui vertici o rispondono a poteri politici o si perpetuano per cooptazione?
Non si tratta di scegliere un modello o un altro: oltretutto non ci si può proporre di cambiare radicalmente la struttura e la cultura di un paese, che pure hanno saputo dare alcune prove di sé. Facciamo le cose possibili, anche accettando l’inevitabile incertezza sui risultati. Introdurre regole di corporate governance, e privatizzare le fondazioni bancarie sono obbiettivi realizzabili in tempi ragionevoli: su di essi converrebbe concentrarsi.

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