Contro l’elisir egualitarista, un antidoto

maggio 3, 2014


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di Marco Valerio Lo Prete

Se negli Stati Uniti l’elisir dell’egualitarismo va a ruba, come dimostra lo straordinario successo mediatico e di vendite del saggio sul Capitale dell’economista Thomas Piketty, dipende anche dal fatto che la divaricazione dei redditi nelle società occidentali esiste e cresce. Tutto sta però, secondo l’economista Luigi Zingales, a non cedere “alla convergenza tra élite ideologicamente anti mercato e diseredati comprensibilmente arrabbiati”, non foss’altro perché “non è con la visione illuministica e statica dei primi che si possono attutire le differenze di reddito che affliggono i secondi. Meglio sarebbe, piuttosto, nutrire un sano populismo pro mercato che, almeno negli Stati Uniti, ha radici storiche”, dice l’economista dell’Università di Chicago parlando con il Foglio.

Lo spunto polemico lo fornisce l’ultimo libro dell’economista francese Piketty, “Il Capitale nel XXI Secolo”, il più citato del momento sulla stampa anglosassone. Al punto che, dopo decine di migliaia di copie vendute (nonostante le 700 pagine dell’edizione inglese) e il primato di ordini su Amazon, dopo gli elogi arrivati pure da una serie di premi Nobel per l’Economia (dal più loquace Paul Krugman al meno scontato Robert Solow, passando per Joseph Stiglitz), qualche simpatico contrarian comincia a chiedersi se non siamo di fronte a una “bolla” mediatico-culturale. Una bolla rigonfia di statistiche approfondite sulla diseguaglianza generata dal capitalismo, una bolla che piace alla gente che piace, ma pur sempre una bolla sul punto di scoppiare e poi svanire. John Cassidy, firma di punta del New Yorker, dopo essere stato tra i primi a recensire il volume, è tornato a scriverne due giorni fa per sostenere il contrario: un po’ di battage mediatico ci sarà stato, ma “nella ‘bolla Piketty’ c’è qualcosa in più di quattro chiacchiere”.

E’ quanto sostiene anche Zingales, dell’Università di Chicago, non certo sospettabile di arrendevolezza verso i fustigatori del mercato. Zingales, in Italia per presentare il suo ultimo libro “Europa o no” (Rizzoli), esordisce soffermandosi proprio sull’incredibile accoglienza ricevuta da Piketty negli Stati Uniti, ben più calorosa di quella vista in Europa: “Nel nostro continente, e in Italia in particolare, la disuguaglianza di classe o ereditaria denunciate nel saggio sono ormai date per acquisite. Gli Stati Uniti invece sono il paese del motto ‘from rags to riches’, dagli stracci alla ricchezza, sono un paese nato nella rivolta contro il re ma anche contro l’aristocrazia. Estremizzo: l’America è il paese di Topolino, cioè del topo intelligente e indaffarato. L’Europa è il continente di Paperino, quindi del nipote simpatico ma fannullone che può contare sullo zio ricco”. Zingales, dopo la laurea in Bocconi, nel 1988 si è trasferito negli Stati Uniti; due anni fa il suo libro “A Capitalism for the People” fu salutato da alcuni opinionisti anglosassoni come nuova linfa per il pensiero economico di liberali e repubblicani. Eppure anche lui parlava della diseguaglianza crescente e di come ciò avrebbe potuto minare il consenso alla base delle nostre democrazie capitalistiche: “Il problema esiste. Certo, se a dirlo è qualcuno non automaticamente etichettabile come ‘di sinistra’, allora non diventa ‘santo subito’. Scherzi a parte, l’epopea narrata in maniera seriale da un romanziere come Horatio Alger (m. 1899, ndr), quella della vita di stenti che si trasforma in vita di successi e ricchezze, magari non sarà morta ma è gravemente ferita. Il problema è percepito come grave negli Stati Uniti non tanto per invidia sociale verso gli iper ricchi – dice Zingales – ma perché ora è la classe media a perdere terreno. Oggi la maggioranza dei maschi tipici americani, ‘l’americano mediano’, guadagna meno in termini reali di quanto non guadagnasse la generazione dei padri”. Nel 2010 il reddito individuale di un uomo statunitense di 24 anni era di 32 mila dollari, nel 1980 era di oltre 39 mila dollari. Ecco il “grande problema” che Piketty mette in luce, tra l’altro con “un lavoro sopraffino sui dati”, scavando tra lunghe serie di registri fiscali e immobiliari.

Zingales però sostiene che “l’economista francese è meno analitico nelle deduzioni” che fa discendere dai dati raccolti. La tesi sintetizzata nella formula “r > g”, per cui il rendimento del capitale (r) sarebbe sistematicamente maggiore del tasso di crescita dell’economia (g), generando quindi un predominio della rendita sul reddito e un inesorabile allargamento delle diseguaglianze, è tutt’al più “suggestiva”. Per l’economista di Chicago “il motivo principale della diseguaglianza è un altro: è quello che il mio collega Sherwin Rosen chiamò ‘superstars economics’”. Oggi a spiccare non è tanto “lo strapotere dei Rockefeller o di altre famiglie di antico capitalismo, quanto una serie di cambiamenti strutturali che sono dietro alla retribuzione di un giocatore di golf come Tiger Woods o di un professore ed editorialista come Paul Krugman”. “Progressi tecnologici ed espansione dei mercati – dice Zingales – hanno fatto sì che i redditi dei primi della classe siano immensamente più importanti di quanti pure li seguono da vicino”. Tiger Woods, quando era ai vertici mondiali del golf, guadagnava 12 milioni di dollari l’anno in premi e 100 milioni con altri contratti; il secondo in classifica, Phil Mickelson, 4 milioni da premi e 47 da contratti. “Krugman sarà di poco più bravo dell’economista che viene subito dopo di lui, ma la sua fama diventa mondiale e il suo stipendio immensamente maggiore del collega. Cosa c’entra il capitale fisico con tutto questo?”. Lo stesso, secondo Zingales, vale per “le società di software e in generale le start-up che si quotano in Borsa poco dopo la nascita e hanno guadagni stratosferici. E’ il successo di un mix tra tecnologia e meccanismo del ‘winner takes all’ che si sviluppa in un numero crescente di settori”. Quelli in cui esistono “esternalità di rete” (vedi per esempio il social network il cui valore cresce con l’aumentare del numero degli utenti), “esternalità sociali” (super successo di quei beni che agli occhi dei consumatori hanno il merito di essere popolari, come i brani musicali più scaricati e rilanciati da Mtv) e nei casi in cui i costi fissi della produzione sono molto elevati e i costi marginali irrisori (vedi tutto il mondo delle “app”). Per queste ragioni, il valore aggiunto che deriva dall’essere “il migliore” è cresciuto in maniera sproporzionata. Al contrario, una delle leggi di natura del capitalismo teorizzate da Piketty, “r > g”, spiegherebbe troppo poco.

Zingales osserva poi, citando l’economista liberal Branko Milanovic, che la diseguaglianza a livello mondiale non è aumentata, anzi: “A livello globale, tutti i decili di reddito sono cresciuti allo stesso modo. Negli Stati Uniti, invece, il decile più ricco è cresciuto molto più degli altri. Insomma, quello che è un problema nazionale, a livello mondiale sta diventando un non-problema, grazie allo sviluppo di Cina e India”. Ecco perché il professore dell’Università di Chicago intravvede anche una “distorsione del punto di vista dell’osservatore” quando Piketty celebra il periodo a cavallo tra le due Guerre mondiali come un momento unico in cui l’equazione “r > g” venne stemperata grazie alla distruzione del capitale fisico, a robuste politiche redistributive e crescita più forte. Distorsione prospettica che influirebbe anche su quanti ci mettono in guardia dalla “stagnazione secolare” cui saremmo destinati. “Quando si fa riferimento alla Golden age, si dimenticano tre vantaggi assoluti che allora gli Stati Uniti avevano: la popolazione più istruita al mondo, la tecnologia migliore al mondo dopo il successo militare sugli altri paesi, una sicurezza e una stabilità uniche che rendevano quel paese la destinazione preferita per qualsiasi investitore”. Per la classe media americana si trattò di una “rendita” che l’avvantaggiò rispetto alle persone istruite di altre parti del mondo. “Si è pensato che tutto ciò fosse garantito per sempre. Mentre oggi il resto del mondo è avanzato e la classe media americana perde quel vantaggio. Non è che negli anni 50 e 60 il welfare, tra l’altro meno generoso di quanto non si tenda a credere oggi, fosse responsabile della produttività degli stabilimenti della General Motors. Piuttosto era vero l’inverso: una produttività straordinaria rendeva sostenibile il welfare. Poi buona parte della crescita del secondo Dopoguerra era legata all’espansione demografica, adesso in calo in occidente, e al fatto che la produttività cresce in maniera più rapida durante i processi di meccanizzazione dell’agricoltura e di urbanizzazione. Oggi, in conclusione, la redistribuzione in atto nel reddito mondiale genera scompensi nel capitalismo statunitense”.

Zingales, che nel 2003 scrisse “Salvare il capitalismo dai capitalisti” assieme a Raghuram Rajan (oggi diventato banchiere centrale dell’India), un pamphlet contro il “capitalismo reale” che corre il rischio di deviare dai princìpi del libero mercato e della meritocrazia, non è insensibile “al tema del prevalere delle rendite sul reddito” che pure Piketty mette al centro della sua ricerca. Lui però preferisce parlare di “crony capitalism” da debellare, di rapporti incestuosi tra politica che elargisce sussidi pubblici e lobby economiche affermate, di regole da semplificare perché diventino comprensibili e controllabili da tutti. Soprattutto, poi, Zingales non concorda con le ricette di “policy” che emergono da considerazioni à la Piketty, come per esempio l’idea di una tassazione elevatissima sulla ricchezza: “Questo è un approccio tipicamente illuminista. Piketty e altri sanno quel che è ‘giusto’ e lo impongono agli altri”. Solo che la “società giusta” auspicata da Piketty, dove si mette in secondo piano il fattore “crescita” per combattere la “diseguaglianza”, è una società che tende a diventare “statica” per effetto degli interventi governativi. L’economista italiano da una parte osserva che l’approccio punitivo contro la ricchezza dimentica il brocardo di Abramo Lincoln per cui “non si può elevare il salariato abbassando il datore di lavoro”, dall’altra ricorda che “senza qualche diseguaglianza non esistono incentivi” a fare meglio e ad arricchirsi. Perciò alla versione che chiama “illuministica” dello stato sociale, al suo movente altamente morale, Zingales contrappone “ragioni empiriche e pragmatiche, che dovrebbero stare a cuore anche ai liberali, che militano a favore di un welfare efficiente e non corporativo”. Si tratta di assicurare un consenso politico permanente al mercato e di garantirne così il miglior funzionamento possibile. “Tutto ciò si ottiene, per usare una formula sintetica, assicurando i lavoratori invece che le imprese. E tentando per quanto possibile di uniformare le condizioni di partenza, attraverso riforme del sistema scolastico. In questo modo i fallimenti imprenditoriali, anche nella finanza, potranno continuare a realizzarsi senza eccessive opposizioni dei cittadini, agevolando il processo di ‘distruzione creatrice’ che è il cuore del mercato e della sua potenza innovatrice”. Perché un certo dibattito “enfatico e approssimativo” sulla diseguaglianza “rischia di far passare in secondo piano il modus operandi del mercato, magari favorendone una sorta di ingessatura”. Soprattutto nella “superstars economy”, quella in cui “chi vince piglia tutto o quasi”, “le conseguenze del fallimento sono molto gravi. Perciò una rete di protezione sociale efficiente, oltre a garantire consenso politico ai meccanismi di mercato, incoraggia le persone ad assumersi dei rischi che altrimenti potrebbero essere spinte a non assumersi”. Zingales nei suoi lavori ricorda spesso che il Partito Populista che si sviluppò tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo negli Stati Uniti scelse di opporsi allo strapotere delle grandi imprese piuttosto che puntare alla distruzione del capitalismo, e qualche risultato importante – pur senza mai arrivare al potere – lo ottenne: dalle leggi antitrust alle norme antifrode, passando per un sistema finanziario meno concentrato. Ecco, quello spirito andrebbe resuscitato. Soltanto così “le rimostranze di quanti sono investiti dalla trasformazione dell’economia non si salderanno con il disegno di alcune élite interessate a limitare la concorrenza per ragioni ideologiche, come vorrebbero spesso quegli accademici che si sentono ‘sottovalutati’ nella distribuzione del reddito, o per ragioni di convenienza, al fine di proteggere rendite acquisite”.

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