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Contro il servilismo c’è la vita morale

Pubblicato il 19/12/2010 @ 09:48 in Consigliati e recensiti,Giornali,Il Sole 24 Ore,Libri


Un saggio iconoclasta di Kenneth Minogue riflette sulla democrazia in tempo di debolezza

“La vita morale è compatibile con la democrazia? “ Inizia di botto Kenneth Minogue, tema e interrogativo del suo libro li piazza nella prima riga. La vita morale è quella in base a cui esprimiamo il nostro giudizio su ciò che è giusto o sbagliato, vero o falso; la democrazia è sia il sistema di governo, sia il giudizio che i cittadini danno del modo in cui desiderano essere governati. Entrambi i giudizi cambiano con il tempo, e il riconoscimento che ciò è inevitabile caratterizza la cultura europea e la distingue da altre in cui invece ciò che è giusto è considerato dato una volta per sempre.

Un cambiamento radicale nella democrazia si verificò con l’estendersi del suffragio universale: l’estensione a tutti degli stessi diritti di rappresentanza diventa l’assunzione implicita che solo in una società di uguali la democrazia può raggiungere il suo armonioso completamento. Così la società “egualitaria” come unico principio della vita sociale ed etica soppianta la società “deferente” in cui ciascuno sapeva quale era il proprio posto, la società della common law in cui le associazioni – culturali, religiose, sindacali – potevano esprimere tutta la loro spontanea creatività istituzionale. La democrazia da essere l’insieme degli “interventi politici atti a far corrispondere la politica pubblica a ciò che la gente vuole”, diventa l’indicazione di un progetto molto più impegnativo, realizzare il telos di una società ideale. Imboccata quella strada, non c’è limite ad estendere il principio dell’uguaglianza a tutte le categorie di persone che appaiono “svantaggiate” all’interno delle nostre società, e a tutti i popoli che appaiono “svantaggiati” rispetto al nostro. Quando la società diventa un agglomerato di persone vulnerabili alle cui necessità e sofferenze lo stato deve porre rimedio, inizia il processo che porta al “servilismo”: lo stato “spiazza” i giudizi morali degli individui. La libertà, quella di decidere come vogliamo vivere, è incompatibile con lo stato moralizzatore.

Può la vita morale sopravvivere a questa democrazia? Vita morale è la “dimensione della nostra esperienza interna in cui prendiamo decisioni sui nostri impegni verso genitori, figli, dipendenti, estranee: così scopriamo chi siamo e ci riveliamo al mondo. Ma se l’autorità – continua Minogue – si appropria di questo elemento di umanità, la nostra civiltà perde quel carattere che ne ha fatto lo fonte dinamica di tanta speranza e felicità nei tempi moderni. Questa de-umanizzazione ha prodotto quello che io chiamo la mente servile.” Il suo opposto non è la libertà di scegliere tra molte opzioni, ma quella di affrontare le conseguenze delle proprie scelte, di pensare i propri pensieri: è l’individualismo. Invece la dipendenza dal welfare, la preoccupazione di proteggere ogni gruppo sociale da pregiudizi, offese, lesioni dell’autostima, sono le condizioni sociali che creano il servilismo: il politically correct come codificazione amorfa del dovere di non offendere classi vulnerabili, la “correttezza” come virtù morale.

“La civiltà occidentale, scrive Minogue, ha sviluppato una concezione della vita umana e un modo di vivere profondamente diverso da quello degli altri popoli; è l’eccezionalità di questo risultato, e non già lo sfruttamento degli altri, ciò che spiega la ricchezza e l’ordine delle democrazie liberali.” Le invenzioni, l’imprenditorialità, la rule of law hanno trasformato il mondo e consentito a milioni di persone di vivere meglio. L’occidente ha aperto le sue università, il Giappone e ora la Cina e l’India hanno adottato le nostre forme di produzione di ricchezza. “E’ un’opzione popolare, perché, in generale, la gente preferisce essere ricca che povera”. Ma adesso nelle elites e nei circoli intellettuali la fedeltà agli stati occidentali viene soppiantata dalla fedeltà a un ordine cosmopolita. I sogni dell’uguaglianza universale, della giustizia sociale (qualunque cosa ciò significhi), dell’inclusione, “le aspirazioni che dovrebbero redimerci dalla colpa per come noi, come civiltà, ci siamo sviluppati” sostituiscono al modello morale individualistico quello “politico-morale”, moralmente obbligatorio e politicamente imperativo, con cui moralizzare la politica e politicizzare la vita morale.

“The servile mind” cattura il lettore per il fluido concatenarsi degli argomenti, appassiona per la sua passione, è iconoclasta e sferzante. E’ un libro divisivo, non tanto, secondo Minogue, lungo la tradizionale linea destra e sinistra, quanto tra conservatori e radicali, meglio, tra conservatori realisti e radicali sentimentalisti: e non manca l’occasione per annotare che se non tutti i radicali hanno fatto progetti cattivi, tutti i progetti cattivi erano radicali. E’ un libro importante. Il riferimento alla “schiavitù” sta nel titolo di un libro che, in un momento difficile per il pensiero liberale, spiegando le ragioni del successo dell’economia di mercato e confutando quella di piano in tutte le sue varianti, spostò per milioni di persone i termini del dibattito politico. Il paragone con quel monumento farebbe torto a chiunque. Ma è con riferimento al “servilismo” che Minogue costruisce la sua appassionata difesa dell’individualismo e del dinamismo su cui è fondato il nostro mondo, e consegna la sua ammonizione finale: “poche cose sono più distruttive del sogno politico della perfezione”.

The servile mind
di Kenneth Minogue
Encounter Books, 2010

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