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Congresso DS: la sinistra incerta

Pubblicato il 12/01/2000 @ 14:27 in Giornali,Il Sole 24 Ore


«Voi li riconoscerete dai loro frutti.» A riconoscere l’identità dei DS — obbiettivo di questo primo congresso — serviranno slogan e canti, reminiscenze e rituali; sarà importante il modo con cui si deciderà di guardare al passato — i fantasmi di Tangentopoli — e al futuro — la scelta del leader della coalizione per le prossime elezioni. Ma un’immagine è netta quando c’è coerenza tra propositi e fatti: sono questi i frutti che permettono di distinguere i buoni dai cattivi profeti. E i fatti qui sono quelli che, nei due governi di questa legislatura, più sono segnati da un decisivo apporto della componente DS nel Governo, e quelli che il terzo governo sarà chiamato a compiere. Bilancio e programma di governo saranno pietra di paragone della nuova identità.

Del bilancio si può essere ragionevolmente soddisfatti. L’entrata nell’euro segna un fondamentale spartiacque nella nostra storia: i DS possono legittimamente rivendicare l’azione positiva e l’appoggio leale dato a Ciampi e a Prodi. E la condotta sul Kossovo è stata ineccepibile.
Analogo riconoscimento si deve all’insieme degli atti che hanno cambiato il volto alla struttura economica del nostro Paese. Le privatizzazioni innanzitutto: ho manifestato le mie critiche sulle modalità di molte delle dismissioni; ma il processo è stato di dimensioni imponenti, e nessuna seria accusa ha potuto essere mossa alla correttezza con cui esso si è svolto. La legge Draghi ha segnato un punto di svolta nella governance delle imprese e nella contendibilità del loro controllo: anche perché il Governo ha saputo difenderla alla sua prima clamorosa applicazione. La legge Mirone — dandola, con un po’ di ottimismo, per approvata — dovrebbe darci un diritto al servizio dell’economia, e aiutare a rimediare a quella mancanza di cultura del mercato da cui è segnato il nostro impianto legislativo, a partire dalla legge fondamentale.
Nella politica fiscale invece, luci ed ombre. È un dato di fatto che al risanamento delle finanza pubblica hanno contribuito assai più le entrate che la riduzione strutturale delle spese. Con Vincenzo Visco la macchina del Ministero ha guadagnato in efficienza, tanto che i recuperi sul fronte delle evasioni hanno permesso di rispettare il limite del deficit anche in presenza di una crescita più bassa. Irap e Dit meritano un giudizio positivo. Altri provvedimenti risultano invece incomprensibili: come quello sulla limitazione delle stock option ad amministratori non dirigenti, o il limite patrimoniale di 500 miliardi imposto alle imprese per poter fruire della Superdit. Questi sbandamenti non saranno più consentiti nell’ambiente che la svolta fiscale di Schroeder varrà ad instaurare in Europa, e comunque non contribuiscono ad allontanare dai DS quel giudizio di essere paladini di un’imposizione troppo gravosa, giudizio che non solo fa il gioco dell’opposizione, ma soprattutto deve misurarsi con gli autorevoli richiami del Governatore, nonché di fori internazionali come l’Ocse.
Liberalizzazioni: bene nelle telecomunicazioni; altrettanto poteva essere nell’elettricità se si fossero fin dall’inizio indirizzate le energie del vertice Enel all’efficienza interna, contenendone le ambiziose diversificazioni.
Trasporti e opere pubbliche: per la vicenda Malpensa non ci sono giustificazioni; per le FS l’obbiettivo risanamento si allontana ancora una volta; sul Mezzogiorno, il migliore utilizzo dei fondi comunitari non riesce a nascondere gli interrogativi di una crisi le cui conseguenze non si sono ancora tutte viste. Tre aree su cui il giudizio è pesantemente negativo.
Per quanto riguarda invece il futuro, c’è un interrogativo di fondo a cui il congresso deve rispondere, con parole che non si prestino a equivoci. Sugli ultimi mesi del primo Governo D’Alema, sulla breve crisi e sui primi passi del D’Alema 2 grava un’ambiguità: i toni e le parole, diverse da quelle di Palazzo Chigi, che la segreteria DS ha usato sui temi della modernizzazione sociale. Schierandosi senza distinguo sulle posizioni dei sindacati, è parso che la segreteria del partito prendesse le distanze dalle aperture mostrate da D’Alema sui temi cruciali della riforma dello stato sociale. Questi sono oggetto dei referendum «sociali»: la necessità che il congresso precisi l’identità dei DS conferisce ad essi un’importanza politica, che trascende quella degli specifici quesiti.
Disciplina dei licenziamenti, del lavoro a domicilio e del part-time, efficiente funzionamento del collocamento, concorrenza nel settore delle assicurazioni obbligatorie: che queste materie debbano essere oggetto di interventi legislativi la componente riformista del centrosinistra lo chiede da anni inutilmente, mentre l’ala filo-sindacale riesce a introdurre modifiche che appesantiscono o snaturano le riforme imposte dall’Europa. C’è ancora tempo per dimostrare di saper imboccare la strada delle riforme: per il confronto con gli altri Paesi europei, per il consenso che si registra anche all’interno della sinistra, per il suo valore emblematico, la riforma delle norme sul licenziamento individuale per giustificato motivo è quella che più si presta a produrre, nello scampolo di tempo che rimane, una legge che eviti almeno questo referendum.
Se ciò non avverrà, resterà dimostrato che riformare certi istituti con gli strumenti ordinari è impossibile. Per aprire la strada alle riforme non resterà che votare sì ai referendum «sociali». La vittoria del sì scompiglierebbe il quadro legislativo; alcune conseguenze sarebbero inaccettabili (solo per dirne una, quella della non completa gratuità del collocamento per il lavoratore) o contrarle alle intenzioni stesse dei proponenti (come l’illiceità del cottimo pieno nel lavoro a domicilio), o inadeguate ai mutamenti tecnologici (come il telelavoro). Vorrà dire che il nuovo terreno di lavoro dei riformisti diventerà il contesto legislativo sconvolto dai referendum, anziché quello bloccato della legislazione attuale. Ma per il partito guidato da Veltroni, presentarsi all’opinione pubblica come irriducibilmente chiusi a queste riforme, sarebbe una mossa prossima all’autolesionismo. Le dolorose «svolte» che hanno segnato il travagliato percorso prima dal PCI al PDS e poi dal PDS ai DS non solo avrebbero — come già è avvenuto — ridotto l’area del consenso dal 35% al 18%, ma soprattutto sarebbero avvenute invano.

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