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Congresso DS – Il taccuino del delegato

Pubblicato il 06/02/2005 @ 10:20 in Giornali,La Stampa

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Il taccuino del delegato

4 febbraio 2005
Sarà questo l’ultimo congresso di Piero Fassino quale segretario dei DS, si era chiesto il Riformista in un editoriale di pochi giorni fa, riuscirà cioè a realizzare la federazione del centro sinistra?

Fassino è arrivato a questo passaggio cruciale dopo aver segnato il terreno con alcuni paletti non banali: la frase sull’Irak ( i resistenti sono quelli che sono andati a votare, non gli uomini di Al Zarkawi) non dev’essere granché piaciuta a Fausto Bertinotti; ricordare che il welfare poi qualcuno lo deve pagare non è scontato; l’impegno a liberalizzare spezzando le oligarchie, me lo sono annotato. Tenuto conto dei rituali di queste rappresentazioni, non si può dire che Piero Fassino abbia lasciato le cose troppo nel vago.
E’ stato convincente? Ha dimostrato di essere convinto fino in fondo, e ha trovato le parole e il tono per comunicarlo: aldilà di ogni ragionevole dubbio. I DS, ha detto, sono un lievito, una forza aggregante, li anima uno spirito unitario. E ha ricordato l’evoluzione del partito, dal PCI, al PDS, ai DS. Parlava da quasi due ore, non so se fosse la commozione o la fatica a spezzare la sua voce. E mentre, a dimostrare la capacità del vecchio partito monolitico di Togliatti di accogliere nuovi contributi e diverse culture al proprio interno, annunciava che i Verdi di Edo Ronchi, e il movimento per i diritti civili di Luigi Manconi sono entrati a fare parte dei DS, mentre il congresso applaudiva, il pessimista che è in me si chiedeva se non ci fosse il rischio che qualcuno, tra gli alleati federati, trovasse i precedenti non troppo rassicuranti, e la dimostrazione perfino troppo convincente.

5 febbraio 2005
Nella giornata in cui tutti gli interventi – tranne ovviamente quelli delle minoranze che vi si oppongono – erano intesi a spiegare le ragioni per dar vita alla federazione e a indicarne le prospettive, scelgo, tra gli appunti presi sul Moleskine d’ordinanza, tre passaggi del discorso di Massimo D’Alema. Uno riguarda il passato, l’altro il futuro, il terzo infine il presente.
Il nostro Paese, è il primo appunto, ha avuto i suoi momenti migliori quando ha messo l’Europa al centro della sua politica, come è stato con De Gasperi allora, e poi con Prodi e con Ciampi. Non aveva mai sentito un leader del partito erede di quello di Togliatti, descrivere la storia d’Italia come un arco che unisce il presente con la figura dello statista trentino. E tutta la storia delle opposizioni a quel disegno nazionale ed europeo, come un fiume che passa sotto quel ponte.
Ci può anche non piacere, è il secondo appunto, ma dobbiamo riconoscere che la nuova destra americana intende collegare la nuova visione della supremazia degli Usa, con una espansione della democrazia e del modello occidentale, dove la parola che ho sottolineato tre volte è proprio il termine “occidentale”. Nei discorsi acoltati sin qui, la patria in cui riconoscersi era solo l’Europa, il governo riconosciuto l’Onu.
Gli imprenditori, ed è il terzo appunto, per vincere una sfida già di per sé difficilissima, hanno bisogno di avere nelle fabbriche “il lavoro amico”: questa qualità, che si è persa precarizzando il lavoro e disprezzando i sindacati, noi della sinistra gliela possiamo dare. Un argomento atto a gonfiare il petto della sinistra? Un abile modo per venire incontro al presidente di Confindustria sul suo tema preferito, quello del fare squadra, della coesione nel Paese? Non per questo è sul mio taccuino: è che molti prima di lui avevano toccato il tema del salario e del lavoro: ma solo D’Alema ne ha parlato non come di un fatto economico astratto, o di una negoziazione tra parti sociali, ma ha collocato l’uno e l’altro nel luogo dove concretamente si determinano: la fabbrica. E’ stato lui a portarne l’immagine vivida e precisa nel congresso del “partito operaio”, prima nessuno ne aveva parlato così. Nemmeno, nel suo intervento in mattinata, Sergio Cofferati.

6 febbraio 2005a
A volte il diavolo ci mette la coda. Tutto filava per il meglio, gli interventi si susseguivano con un crescendo di contenuti. Fassino poneva il tema, dai Da alla Federazione per l’Ulivo. Prodi lo inseriva in una visione di governo. D’Alema approfondiva, anche con temi audaci, ad esempio l’apertura verso l’ideologia americana di diffondere democrazia e libertà nel mondo. Con Amato vibravano le corde del patriottismo socialista, con Bassolino era il riformismo «sexy». E Veltroni. Grande intervento, guardare avanti, oltre la Federazione, verso il Partito dei Riformisti.
Una vetta da cui Fassino avrebbe potuto rapidamente planare verso la replica finale. Invece quattro ore, e qualche emozione. Già era parso strano proiettare il filmato sulla Resistenza alla fine, dopo il discorso di Veltroni, anziché all’inizio del percorso: cantare in coro «Bella Ciao» suscita nostalgia del passato più che entusiasmo per il futuro. Ma il dramma sono stati due interventi, vedi caso (caso?) di due grandi personaggi della Tv. Lucia Annunziata ha parlato della giornalista rapita, della sua serietà, della nostra ansia. Per lei, e per gli iracheni che ci hanno dato questa lezione di democrazia, – ha detto con passione – non serve invocare l’Onu, nessuno li può sostituire, c’è bisogno di loro almeno per tutto il 2005. Sarei saltato sul palco ad abbracciarla. E poi Michele Santoro: sulla guerra, sugli Usa, sulla Palestina, sulla tv, ha rovesciato con veemenza sul congresso la retorica più estremista della sinistra girotondina. Suscitando, bisogna purtroppo dirlo, larghissimo entusiasmo.
Un disastro. C’è voluta quasi un’ora a Fassino per riportare il congresso in carreggiata: ha evitato la polemica, ha lisciato il pelo con qualche concessione ad alcuni «ismi», prima di ritornare al tema del congresso: la Federazione, perché bisogna farla, e come così batteremo Berlusconi. Meritati applausoni finali, operazione riuscita, oscuramento fallito.

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