Con i politici ha vinto (solo la prima mano)

ottobre 27, 2010


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


A «Che tempo che fa» ha vinto Marchionne: ma a tavolino. Marchionne parlava ai clienti italiani a cui deve vendere le sue macchine, agli operai che devono farle; parlava, in senso lato, all’opinione pubblica, il cui orientamento è decisivo quando si tratta di beni di consumo durevole; parlava ai cittadini del paese dove la Fiat ha la sua maggiore quota di mercato. Del risultato sul “campo” si può discutere. Quando la concorrenza spiana le differenze di prestazioni tra i modelli, le scelte dipendono da imponderabili elementi di gusto e di simpatia, ma alla fine è poi tra vetture “in carne ed ossa” che si decide; ma la domanda sui modelli che Marchionne intende produrre non ha avuto una risposta chiara e conclusiva.

Per i politici il discorso è diverso: perché non sono clienti, non sono operai, e non sono neppure l’opinione pubblica, al cui giudizio sono essi pure esposti. I loro commenti dimostrano che non hanno capito la differenza di ruolo che intercorre tra politica e impresa in un sistema capitalistico. E così regalano la vittoria a Marchionne: per una sorta d’invasione di campo.

Non per i commenti che si possono catalogare come infortuni: come quelli di chi ricorda a Marchionne che, quando fu fondata un secolo fa, Fiat era un acronimo per Fabbrica italiana automobili Torino (non risulta che qualcuno abbia accusato la Volkswagen di tradire, con i nuovi modelli di Wolfsburg e della Audi, l’originaria missione di macchina del popolo, iscritta nel suo nome). O quelli per cui Dumitru al Napoli va bene, ma un canadese a Pomigliano no, e chi ha un doppio passaporto un pò losco lo è. Per par condicio, anche la battuta di Bombassei, secondo cui gli imprenditori italiani investono a casa loro «per ragioni sentimentali».

Ma quando i politici rinfacciano a Marchionne i soldi che la Fiat ha avuto negli anni, allora non è più possibile parlare d’infortunio, ma di manifestazione di un errore di fondo: l’incapacità di tenere distinti stato e impresa (privata), nei rispettivi ruoli, obiettivi, vincoli. In un’economia complessa, tra stato e impresa ci sono numerosissimi punti di contatto con valenza economica: incentivi per ricerca, per localizzazioni, rottamazioni, fiscalità su bolli benzina autostrade, cassa integrazione in deroga e via andando: ma stato e impresa stanno su piani diversi. Si espone al “fuoco amico” la politica quando rinfaccia oggi quegli aiuti: perché si autoaccusa o di averli elargiti come favore ad aziendam e non per indurre l’azienda a comportamenti e decisioni che producano obiettivi d’interesse generale; oppure di non essere stata capace neppure di fare contratti atti a vincolare l’erogazione di aiuti al raggiungimento di obiettivi.

L’azionista può chiedere conto al manager di come impiega i suoi soldi, se le sue strategie sono solide, se ha modelli, se piaceranno ai clienti; il sindacato può esigere che gli vengano forniti elementi atti a verificarne la credibilità. Se le cose vanno male, l’azionista sa che rischia tutto, il lavoratore il posto: per entrambi l’orizzonte è l’azienda. Invece lo stato non è azionista e non rappresenta i lavoratori: lo stato ha come orizzonte l’interesse generale. In questa prospettiva, gli incentivi per favorire una determinata localizzazione entrano insieme ai frutti delle altre iniziative che così si attivano; la cassa integrazione in deroga entra insieme al sostegno di redditi e consumi; i costi delle inefficienze entrano insieme ai guadagni delle efficienze di chi ne può prendere il posto. L’interesse generale significa guardare al mercato nel suo complesso e nel suo evolvere di specializzazioni, di business e di modelli di business. E se si teme che le cose possano non andare bene, è chiedersi se questo avviene perché l’azienda è inefficiente, o perché non è adatto il contesto – economico, istituzionale, culturale – in cui l’azienda è costretta a operare. Cercare di determinare quello più favorevole, è il compito della politica: una preoccupazione che si stentava a cogliere nella maggior parte dei commenti politici alla “partita” di Marchionne.

ARTICOLI CORRELATI
Sergio capeggia un Tea Party degli industriali ma non lo sa
di Stefano Cingolani – Il Foglio, 27 ottobre 2010

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: