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Compagni ma non troppo

Pubblicato il 15/02/2007 @ 12:13 in Articoli Correlati


di Mattia Feltri

Nel nuovo libro di Andrea Romano la parabola di tre ex ragazzi tra divisioni e ripensamenti. Come quello di Veltroni che da giovane criticava il kennedismo e inneggiava a Mao
Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso», scrive Andrea Romano a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Walter Veltroni, e citando il poeta – cioè Vasco Rossi – che per il cognome, da un certo punto in poi, è l’elemento più ortodosso rimasto in campo. Nella sua ribalderia, Romano ha perlomeno la grazia di omettere il verso successivo: «Ognuno in fondo perso dentro i c… suoi».

Ma soltanto in fondo, perché in principio sono pulcini della medesima covata, giovanotti di spicco nella Fgci, di cui Fassino rifiuta la segreteria per tre volte, mentre D’Alema alla prima occasione dice di sì, e Veltroni accetta di condurre la sezione romana dopo una notte insonne, obbligato alla scelta fra il cinema e la politica, e soltanto oggi è chiaro che l’uomo non conosce il concetto di bivio, ma soltanto quello di strada a due corsie.

Sono Compagni di scuola, e questo infatti è il titolo del libro (che esce martedì 20, editore Mondadori, pp. 160, euro 16) di Andrea Romano, editorialista della Stampa e docente di Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata. Compagni e basta non sarebbe più sufficiente. E poi hanno in comune l’aula e soprattutto il maestro, Enrico Berlinguer. È lui la pietra su cui hanno costruito le rispettive chiese, o perlomeno le rispettive parrocchie. Fassino ripensa sempre a Berlinguer, nei momenti difficili. D’Alema ripensa sempre a Berlinguer, quando deve riaccendere l’orgoglio del partito. Veltroni ripensa sempre a Berlinguer, se deve spiegarsi le ragioni per cui si iscrisse al Pci. Ora, tutto questo sembrerebbe bastare.

Però viene fuori la storia di tre ragazzi bravi e ambiziosi ai quali il destino ha risparmiato la prova del parricidio, rendendoli più disinvolti nel tiro al padrino. Abbattono il troppo riformista Giorgio Napolitano e accompagnano Alessandro Natta alla successione di Berlinguer. Abbattono il convalescente Natta e innalzano Achille Occhetto. Infine abbattono Occhetto e si disputano il partito nuovo, il Pds. Qui sono poche righe, ma dentro ci sono le terribili prove cui sono stati sottoposti, la perdita del capo che li legittimava, la cottarella salvifica per il socialismo gorbacioviano, il crollo del Muro, la Bolognina, la gestione allucinata di Mani Pulite, il tappeto steso verso Palazzo Chigi. Romano, che fu collaboratore di D’Alema alla fondazione «Italianieuropei» e sa con chi ha a che fare, è soltanto qua e là comprensivo con i tre trentenni e poi quarantenni e oltre, allevati per uno scopo e poi ributtati dagli eventi verso traguardi diversi e indefiniti. Anche perché, forse, quegli sconquassi in serie erano l’occasione giusta per riconsiderarsi e rinnovarsi. Invece no. Nessuno era mai stato comunista come nessuno (lo ha ricordato di recente Pierluigi Battista in Cancellare le tracce) era mai stato fascista. Nello slancio biografico e nei rivisti convincimenti politici, i compagni di classe dimenticano e si auto-ribaltonano. Il kennediano Veltroni è immemore di sé ragazzo, quando giudicava il “vento d’America nascosto dietro il kennedismo e il mito della nuova frontiera” il padre di “una grande, collettiva illusione in un tipo di sviluppo che si ritiene in grado di garantire benessere e promozione della classi subalterne”.

Ed è immemore di un secondo mito, la “Cina di Mao, del libretto rosso, la ricerca di un modello realizzato di socialismo diverso da quello dei paesi dell’Est, in grado di raccogliere una domanda di partecipazione della masse come la rivoluzione culturale sembrava fare”. D’Alema in Cina ci va proprio, inviato da Berlinguer perché ritrovi sintonia coi rivoluzionari di Pechino. È il ‘79. L’anno prima, D’Alema aveva proclamato che “la battaglia per il socialismo va avanti grazie alla nuova situazione internazionale, nella quale sono forze determinanti i Paesi socialisti e in primo luogo l’Unione Sovietica”. Romano non infila queste e parecchie altre dichiarazioni di osservanza per chiederne conto, o per rinfacciarle. Gli sembrano esempi di tecniche di rimozione a causa delle quali i compagni di classe si sono condannati al declino, e al declino stanno condannando il loro partito e la loro tradizione. E se D’Alema nell’87 denunciava i “processi di modernizzazione, riorganizzazione produttiva e finanziaria, trasformazione sociale avvenuti sotto il segno di una restaurazione capitalistica”, e undici anni dopo si proporrà, dal governo, come il campione della rivoluzione liberale, il condottiero di un “paese normale” in sintonia con la city di Londra, il problema non è il ravvedimento repentino, ma l’incapacità di completarlo. D’Alema si riduce a una sintesi fra Don Chisciotte e Don Abbondio, sia velleitario sia cinico. Veltroni è il Don Lurio che danza leggero su tre sconfitte elettorali consecutive, suonandosi ogni volta una colonna sonora diversa. E Fassino, piegato sulla scrivania, amministra il condominio, pagando le bollette di ogni tinteggiatura.

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