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Com’è che l’Euro ce la fa?

Pubblicato il 05/12/2012 @ 09:56 in Articoli Correlati


di Simon Nixon

La grande storia del 2012 è stato il rifiuto dell’Eurozona di collassare, con annessa frustrazione di quanti avevano scommesso molto o comunque legato la loro credibilità professionale al crollo della moneta unica. E’ impressionante, se uno pensa a soltanto un anno fa, quanto fosse diffusa la convinzione di un imminente “eurogeddon”. Numerosi ed esperti banchieri, soprattutto a Londra e a Francoforte, ritenevano in cuor loro che la Grecia sarebbe finita fuori dall’euro nel corso del 2012; il presidente della Royal Bank of Scotland addirittura lo disse in pubblico.

Nella Banca d’Inghilterra alcuni funzionari erano convinti che l’euro si sarebbe sgretolato lo scorso Natale, e comunque l’Istituto centrale di Londra ha continuato ad attendersi un collasso della moneta unica per la maggior parte dell’anno. Economisti pessimisti come Nouriel Roubini oppure Willem Buiter di Citigroup, che coniarono il termine “Grexit” per indicare l’uscita di Atene dall’euro, erano al tempo trattati come celebrità. Chiunque si opponesse a questo che era il senso comune era guardato ovviamente come un ingenuo europeista. Questi “orsi” della moneta unica – dove l’“orso” in gergo finanziario è anche simbolo del cattivo andamento dei listini, ndt – da allora hanno dovuto esercitarsi in un voltafaccia o in quello che i giornalisti britannici chiamano “reverse ferret”. Infatti gli interessi sui titoli di stato spagnoli o italiani sono ora ai livelli più bassi dalla metà del 2011; l’Irlanda sembra tornata sulla giusta strada per riguadagnare un completo accesso ai mercati il prossimo anno; la Grecia ha ricevuto un sollievo notevole sul fronte del debito pubblico e in generale gli investitori stranieri hanno ricominciato a mettere piede nel mercato dei bond dei paesi periferici dell’Unione europea.
Oggi è difficile trovare un esperto banchiere o funzionario governativo che ritenga che l’Eurozona cadrà a pezzi l’anno prossimo. L’ultimo rapporto “Financial stability review” della Banca d’Inghilterra, a dire il vero, riconosce tuttora questi rischi, ma adesso li situa soltanto nel medio periodo. Certo, Citigroup ancora si aspetta che la Grecia alla fine abbandonerà la moneta unica, ma ha ridotto la probabilità di questo evanto al 60 per cento e ha rimandato la data possibile fino alla metà del 2014, il che è probabilmente il massimo che gli analisti del gruppo potessero fare per rivedere – senza apparire ridicoli – la loro posizione estrema di una volta.
Ovviamente la crisi dell’euro non è finita. Soltanto perché gli orsi si sono sbagliati nel 2012 non vuol dire che alla fine non avranno ragione. Alcuni dunque ci mettono in guardia: l’attuale calma dei mercati è pericolosa perché potrebbe generare di nuovo un senso di autocompiacimento. Questa è una giusta preoccupazione. Ma nel tentare di valutare dov’è che si annidano i rischi maggiori, è importante capire perché gli orsi in questione, finora, si siano sbagliati. Nel 2012, dopotutto, l’Eurozona ha avuto in realtà una performance peggiore di quanto previsto anche dai più pessimisti, e l’economia greca è caduta più in basso di quanto chiunque ritenesse possibile.
Nonostante ciò, gli orsi hanno sottostimato la quasi-impossibilità che la moneta unica si disintegrasse, la determinazione della Banca centrale europea di evitare la catastrofe – con le sue offerte di sostegno illimitato a banche e governi – e la semplice volontà politica, nei paesi dell’Europa centrale come di quella periferica, di tenere assieme questo blocco di stati. Gli eventi, finora, hanno dimostrato che l’assunto di fondo dello scenario più funesto era errato. Molti orsi hanno dato infatti per scontato che il tipo di svalutazione interna necessaria per rendere i paesi dell’Eurozona competitivi – ovvero l’aggiustamento economico che si ottiene attraverso la riduzione di prezzi e salari domestici – fosse troppo dura per poter essere sopportata da una democrazia moderna. Di conseguenza i più pessimisti hanno sostenuto che l’unica alternativa al break-up dell’euro fosse una completa unione politica e fiscale, fondata sulla mutualizzazione dei debiti e su trasferimenti fiscali significativi, un obiettivo che era probabilmente impossibile raggiungere.

Sicuri che occorra l’unione politica?
Invece la scoperta più significativa di quest’anno è stata quella della soglia di sopportazione dei costi della svalutazione interna accettati dai paesi dell’Eurozona in difficoltà. L’area della moneta unica ha inoltre superato indenne ogni sfida politica davvero campale che era prevista in quest’anno, non ultime le elezioni greche che hanno portato a una coalizione impegnata a rispettare le condizioni del salvataggio anche nel pieno di una profonda depressione.
L’Eurozona ha quindi ancora bisogno di creare un’unione politica a tutto tondo, nonostante questa abbia scarso sostegno pubblico a disposizione? Probabilmente no. La domanda chiave, piuttosto, è se l’attuale miscela di disciplina fiscale e riforme strutturali, con il sostegno della Bce, genererà la crescita indispensabile per riportare i debiti sotto controllo e creare i posti di lavoro necessari ad assicurare un sostegno politico duraturo all’euro. La risposta di ciascuno di noi a questa domanda dipende da quello che personalmente riteniamo stia facendo muovere l’economia dell’Eurozona.
La visione pessimistica vuole che l’Eurozona stia affondando in una spirale generata dall’austerity e dalla quale non c’è possibilità di uscita. Questa visione – incoraggiata dalle analisi del Fondo monetario internazionale sui moltiplicatori fiscali e condivisa da alcuni scettici del keynesianesimo – spinge a pensare che i debiti della periferia, alla fine, si dimostreranno insormontabili. Secondo la visione alternativa, l’Eurozona sta soffrendo a causa di una crisi della bilancia dei pagamenti, indotta in parte da una perdita di competitività e alimentata poi dai dubbi sulla sopravvivenza stessa dell’euro. La rimozione di questi dubbi, combinata con i passi necessari ad aumentare la competitività, consentirà ai capitali di tornare ad affluire nei paesi periferici e quindi farà sì che i costi di indebitamento si abbassino. Il fatto che gli investitori stranieri stiano tornando, che gli interessi sui bond statali stiano scendendo e che i paesi dell’Eurozona in difficoltà finanziarie stiano riguadagnando competitività – anche se a un prezzo terribilmente alto in termini di disoccupazione – suggerisce che gli ottimisti potrebbero essere di nuovo giustificati nel sostenere le loro tesi anche nel 2013. E’ particolarmente incoraggiante la crescita delle esportazioni spagnole che ha raggiunto quella delle esportazioni tedesche e contribuito così a un surplus della bilancia dei pagamenti di Madrid. Con una spinta accettabile da parte dell’economia globale, la speranza è dunque che l’Eurozona possa uscire dalla recessione nella seconda metà del 2013, una volta che le ultime misure fiscali saranno state messe in opera.

I rischi che arrivano dalle banche
Tuttavia c’è un rischio che è spesso ignorato da entrambi i fronti: mentre gli economisti tendono a dedicare scarsa attenzione alle banche, i policy maker si stanno sempre più rendendo conto che la capacità del sistema finanziario di erogare credito è cruciale per la ripresa. La Banca d’Inghilterra, la scorsa settimana, ha chiesto una revisione significativa dei bilanci degli istituti di credito inglesi, tra i timori che un sistema bancario indebolito stia spingendo l’economia a trasformarsi esattamente sulle orme di quanto avvenuto in Giappone, negando cioè il credito a società private che pure sono in salute. Eppure ci sono pochi segnali di preoccupazioni di questo tipo nell’Eurozona, nonostante siamo di fronte a un sistema bancario estremamente dipendente dai finanziamenti della Banca centrale. Anche dopo il piano di ristrutturazione della scorsa settimana, gli istituti di credito spagnoli avranno ancora bisogno di 350 miliardi di euro di liquidità dalla Bce. Ciò crea un forte incentivo per le stesse banche a continuare a restringere i loro bilanci, riducendo potenzialmente i prestiti alle imprese.
Il vero pericolo è dunque che un sistema creditizio debole continui a minare la ripresa, creando esattamente il tipo di pressioni politiche da cui gli orsi ci mettono in guardia da tempo. La soluzione si trova in parte in parte nella creazione di una nuova supervisione bancaria unica, con poteri reali per intervenire, così da poter costringere le banche a rafforzare i loro bilanci e allo stesso tempo obbligare alla chiusura le istituzioni fallite. I ministri delle Finanze dell’Eurozona discuteranno di nuovo questa proposta a Bruxelles in settimana. E questa è una fase del processo di integrazione che i leader europei non si possono permettere di far fallire. La sopravvivenza dell’euro potrebbe dipendere ancora da ciò.

Dal Wall Street Journal (3 dicembre 2012). Per gentile concessione di Mf/Milano Finanza. Traduzione dall’inglese di Marco Valerio Lo Prete

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