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Chi ignora i tassi del debito lo fa a nostro rischio

Pubblicato il 03/11/2018 @ 09:19 in Giornali,Il Sole 24 Ore


La rischiosità di un debito, pubblico o privato che sia, è data dalla probabilità che il debitore paghi regolarmente gli interessi e, alla scadenza, rimborsi il capitale, o con mezzi propri, o, come è sempre il caso se il debito è pubblico, rifinanziandosi sul mercato. Per avere un metro con cui valutare l’entità del debito, e per paragonare tra loro debiti diversi, si suole parametrarlo al PIL. Questo misura l’attività economica di cittadini: si assume che essa venga svolta con un profitto, su cui si possano prelevare imposte con cui pagare, oltre alle spese dello Stato, anche gli interessi sul suo debito. Altre parametrazioni sono possibili, o a scopo scientifico per trovare nuove correlazioni, o come nel nostro caso, stante l’enormità del nostro debito pubblico, per trovare ragioni atte a convincere i mercati della sua sostenibilità.

Un primo modo è paragonare il flusso degli interessi pagati dallo Stato con il flusso del risparmio annuo degli italiani: il ministro Tremonti, come ricorda Alberto Orioli intervistandolo (Sole24Ore del 30 ottobre), rivendicò il “ruolo fondamentale” del risparmio privato nella definizione della effettiva solvibilità dell’Italia. Oggi oltre il 70% del debito pubblico è detenuto da soggetti italiani, cittadini e imprese: una percentuale che sarà anche “fondamentale” ai fini della solvibilità del debito, ma che è pericolosa ai fini della stabilità. Infatti la connessione che così si crea ha come conseguenza che i problemi del debito pubblico diventano problemi per le banche, e danno per i risparmiatori.

Un altro modo è quello, anch’esso proposto in passato dal Ministro Tremonti, di porre a raffronto non i flussi ma gli stock, quello del debito dello Stato e quello del patrimonio mobiliare dei suoi cittadini al netto dei loro debiti. Raffronto logico, se volto al passato: serve a fornire una giustificazione storica del nostro debito pubblico, per quanto è servito a dotare il Paese delle infrastrutture materiali e immateriali che hanno consentito agli italiani di svolgere la loro attività, di guadagnare, di risparmiare e di reinvestire. Anche se non è detto, e val la pena di ricordarlo sempre, che non avrebbero guadagnato, risparmiato, reinvestito anche se quelle spese non le avesse fatte lo Stato; ma raffronto pericoloso se volto al futuro, perché rassicurerebbe i creditori solo se il patrimonio dei cittadini potesse essere usato almeno come collateral del debito pubblico. Infatti il collateral che lo Stato può mettere a fronte del suo debito è modesto: può privatizzare le sue aziende pubbliche, cosa che in generale ha effetti positivi sul PIL, può vendere i suoi immobili, che però aumenta la spesa pubblica, dato che obbliga a prenderne in affitto. Il vero collateral del debito pubblico è, come si dice con immensa sineddoche, il Colosseo. Ma il solo aver fatto il raffronto fa venire i brividi ai risparmiatori: perché se, dopo averlo istituito sulla carta, lo si chiamasse davvero , sarebbe una gigantesca patrimoniale.

Questo, ed è il terzo, è ciò che ha pensato Karsten Wendorff, responsabile della divisione di Finanza pubblica della Bundesbank, (“Ecco come l’Italia potrà dimezzare il debito”, Il Sole 24 Ore del 28 ottobre) il cui scopo è rassicurare, non già i mercati, ma i risparmiatori tedeschi: un prestito forzoso di importo pari al 20% dello stock della nostra ricchezza (mobiliare, si immagina) per sottoscrivere titoli di solidarietà emessi da un fondo salva-stati domestico. La precisazione che il risparmiatore potrebbe lucrare gli interessi di tali titoli, suona come un dileggio. Nel mondo del ceteris paribus,si ipotizza che un taglio del genere non si ripercuota negativamente sull’attività del Paese, sugli investimenti in primo luogo.

Radicalmente diverso, perché volto a rassicurare i mercati, è il ragionamento proposto da Marcello Minenna (“La febbre del debito è ai massimi” Sole 24 Ore, 28 ottobre 2018): cambiare l’oggetto di cui si parla, non più il debito pubblico in capo allo Stato, ma quello che egli chiama debito globale e io chiamerei debito nazionale, dato dalla somma delle posizioni debitorie di tutti i soggetti italiani, Stato in tutte le sue articolazioni, quindi compresi regioni ed altri enti locali, imprese e famiglie. Il rapporto di questo debito con il PIL ci vede non più all’ultimo posto in Europa, ma addirittura meglio piazzati di Spagna UK Francia Giappone, appena sotto Cina ed USA. E’ certo vero quel che Minenna sostiene e cioè che “emettere sentenze su un’economia guardando al solo dato del debito pubblico […] è sempre una pratica sconsigliabile”. Ma i tassi di interesse che vengono richiesti non sono sentenze, bensì misure di rischio, e non c’è dubbio che c’è una ragione se i mercati stimano il rischio default (o di ridenominazione) del debito sovrano dell’Italia maggiore di quello della Francia: a convincerli a ridurlo non sarò certo la rappresentazione grafica che correda l’articolo. Anche questa fa parte delle informazioni, , e i prezzi tengono conto di tutte quelle disponibili, anche delle vicendevoli influenze tra rischi dei debiti sovrani, corporate e famigliari. Lo si evince dalle motivazioni che le agenzie di rating hanno anche recentemente dato.

C’è una ragione se non esiste un rating “nazionale”: non servirebbe.

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