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Che cosa è accaduto alla politica industriale italiana?

Pubblicato il 03/12/2015 @ 11:05 in Varie


Caro Direttore,

Grandi progetti pianificati dal centro; per realizzarli, il “braccio operativo” delle grandi imprese pubbliche e, “dove utile”, private; contratti di programma riattivati; processi realizzativi sveltiti; risorse concentrate; leggi e decreti comprensibili; e, soprattutto, “una visione organica”.
Questa la ricetta di Paolo Luca Stanzani Ghedini: “una politica industriale”(l’Unità, 29 Novembre 2015) per creare infrastrutture e progetti di sviluppo. Obbiettivo condivisibile, metodi sensati. Ma vien da chiedergli: perché non succede già così? I ministeri ci sono, le grandi imprese pubbliche pure, quelle private non chiedono di meglio che di essere esecutori di “piani economicamente convenienti”. Chi è “il cattivo” che frena, perché non c’è “il buono” che spinga? Solo per il “proliferare del potere locale”, delle loro aziende pubbliche, per cui basterebbe riportarne al centro proprietà e gestione (chiuderle, come vorrebbe, sarebbe un po’ drastico)?

Per Stanzani (io lo chiamo come chiamavo suo padre quando eravamo colleghi in Senato) manca la politica industriale. Eppure nessuno l’ha conosciuta meglio di noi: al suo massimo l’IRI era la più grande azienda di Stato fuori dall’Unione Sovietica; a guidarla ci sono state persone di valore, alcune di grande valore, da Beneduce a Prodi, da Sinigaglia a Mattei; a reggere il Ministero del Bilancio quando era anche della Programmazione, furono personaggi di grande spessore politico. “Buttare il bambino con l’acqua sporca”? In effetti un po’ sporca l’acqua lo era diventata, ma è proprio il bambino che abbiamo dovuto, non già buttare, ma levare dalle braccia pubbliche e affidare a braccia private: cresciutello, ci costava troppo caro, e aveva preso a fare di testa sua.

Non è che la politica industriale non abbia mai funzionato: nella Grande Depressione, quando le aziende fallivano, e con loro le banche, e minacciava di fallire pure la Banca d’Italia. O nei primi anni del dopoguerra, quando non c’era alternativa alla strategia di recupero del ritardo accumulato con l’autarchia e la guerra, e non ci andava molto a capire che questo avrebbe richiesto acciaio per fabbricare auto e lavatrici, e autostrade per muovere persone e cose.
Finita l’emergenza le cose sono diventate complesse, il ventaglio delle scelte strategiche si è ampliato; alla passione civile e al rigore morale degli uomini dell’immediato dopoguerra sono succeduti personaggi più “duttili”, la politica ha preteso che le aziende di Stato realizzassero, oltre alla propria missione d’impresa, obbiettivi politici, dar lavoro alle braccia e salvare aziende, meglio se nei bacini elettorali di leader di partito o di corrente. Insomma, la politica industriale si è mostrata per quello che inevitabilmente è, poco efficiente e alla fine dannosa. Figurarsi ora, con le nuove tecnologie e la globalizzazione,

“La politica industriale ha cattiva fama”, lamenta Stanzani. Ma non è questione di fama, non di istituzioni –parlamento, Governo, TAR, magistratura amministrativa, CDP –, non degli uomini che vi lavorano. E neppure dei fenomeni patologici da cui pur non è esente.
Le ragioni per cui la politica industriale è inefficiente e dannosa sono insiti nella sua stessa natura, la pianificazione e gestione dal centro: quindi sono irrimediabili. Le decisioni di chi governa sono necessariamente prese in base alla conoscenza limitata di politici e funzionari; al contrario quelle prese dalle forze del mercato sono la risultante di un costante processo di valutazione e di aggiustamento basato sulle conoscenze e sulle valutazioni di tutti gli operatori nel mercato.

Se il mercato non va nella direzione voluta, il governo dovrebbe chiedersi prima di tutto perché: troverebbe che molte volte a impedirlo sono proprio le sue decisioni, oltre alle lentezze dell’amministrazione, all’opposizione degli interessi costituiti. Le Poste, con cui Stanzani chiude il suo articolo, ne sono un esempio. Hanno privatizzato le loro poste Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Germania, adesso il Giappone. Alcuni hanno già venduto il 100%, nessuno lo ha fatto dichiarando che lo Stato avrebbe mantenuto la maggioranza; tutti hanno privatizzato separatamente servizi postali e attività finanziarie, per evitare sussidi incrociati e spingere all’efficienza. Noi arriviamo ultimi e facciamo tutto il contrario: manteniamo tutte le attività insieme e, vincoliamo il 51% in mano allo stato, così garantendo che sarà per sempre. E con Ferrovie rischiamo di fare il bis.

Se questa è la “visione organica” di cui parla Stanzani, penso che la sua ”idea di un percorso gestionale chiaro” dovrà attendere a lungo.



Per una politica industriale
articolo di Paolo Luca Stanzani Ghedini del 29 novembre 2015

La politica industriale ha cattiva fama. Dove lo stato fa le cose e interviene, è opinione comune, le fa male e il suo intervento nell’economia produce inefficienza quando non corruzione e sottogoverno. Non bisogna “buttare via il
bambino con l’acqua sporca”. Va distinto fra interventi dello stato centrale e interventi locali. Quello che manca è un’idea e un percorso gestionale chiaro per mettere insieme e realizzare con efficacia: risorse finanziarie, infrastrutture, progetti di sviluppo. Il problema è l’assenza dello stato centrale e il proliferare del potere locale. Bisogna riportare al centro la pianificazione dei principali progetti infrastrutturali e di sviluppo del Paese e chiudere le inutili aziende locali.

L’idea è ripensare il tutto facendo intervenire con diversi ruoli i seguenti attori: il legislatore, con il compito di fare leggi per sottrarre responsabilità agli enti locali e affidare il controllo ad alcuni punti centrali della pubblica amministrazione e la realizzazione a grandi imprese pubbliche e private riattivando in nuova logica i Contratti di Programma e simili; le grandi imprese pubbliche (Poste, Ferrovie, Enel etc.) come braccio operativo dei progetti; quelle grandi private (Telecom ed altre) anch’esse dove utile come realizzatori operativi; le grandi organizzazioni finanziarie statali (fra tutte Cassa Depositi e Prestiti) come pianificatori e coordinatori, ma anche controllori dei progetti. Va recuperata l’idea che in certi casi lo stato deve intervenire di più: non devono limitarsi a trovare i soldi devono tornare a essere capaci di fare piani industriali, controllarli e contribuire a realizzarli.

Esempi concreti
Agenda Digitale: mancano capacità di fare piani finanziari, simulare modelli di business, immaginare soluzioni realizzative. Il ministero della PA non ha queste competenze e molti dei progetti sviluppati erano astratti o velleitari. Cosa fare? Affidare a grandi aziende pubbliche o private la realizzazione. Partiamo da cosa è stato informatizzato dei servizi della PA e sviluppiamo un modello di business pubblico/privato: esternalizziamo, ad esempio, a Poste o a Telecom l’hub dei pagamenti verso la PA girandogli parte degli introiti pagati dagli utilizzatori dei servizi. Più stato e pianificazione per permettere, in questo caso, un’efficace esternalizzazione di alcune attività.

Larga Banda: leggi e regolamentazione “intelligenti”. Chiarire definitivamente cosa può fare il mercato e cosa no. Quello che il mercato non può fare può essere o sussidiato o, meglio, essere oggetto di “scambio regolatorio”. Definiamo una regolamentazione dove i principali operatori che investono, iniziando da Telecom, siano incentivati perché ne hanno un vantaggio. Individuiamo interventi finanziari, legislativi per rendere i piani economicamente convenienti per chi li deve realizzare.

Autostrade (regionali): i soldi mancano o si riescono a spendere con difficoltà. Dove ci sono le società regionali gli appalti sono un calvario e il rischio corruzione è sempre dietro l’angolo. Gli adeguamenti tariffari sono condizionati da logiche demagogiche, aumentare i pedaggi non è popolare, ma così i servizi stentano. Anche qui: sveltire i processi realizzativi, definire e concentrare le risorse, chiudere le società locali, riorganizzarle e concentrarle.

Tutela del territorio: l’Italia cade a pezzi, gli enti locali non sono in grado di gestire il fenomeno: riaccentrare le responsabilità, dotarsi di capacità di programmazione e controllo e anche di esecuzione.

Alcuni interventi in ambito pubblico

Cassa Depositi e Prestiti: è sempre più una banca d’affari posseduta dallo Stato. Le banche d’affari sono utili ma servono per fare solo alcune cose. Banche e banchieri sono poco interessati al business, alla politica industriale, agli indirizzi strategici. La Cassa dovrebbe evolvere da asettico istituto di finanziamento ad organizzazione capace di dare indirizzi e gestire progetti.

Giustizia amministrativa e leggi: TAR, Consiglio di Stato sono all’origine di molte lungaggini. Bisognerebbe semplificare, iniziando dall’attività legislativa. Molte leggi e decreti ministeriali sono incomprensibili. Questo fa sì che la giustizia amministrativa supplisca con le interpretazioni. Manca anche una visione organica. Per quotare Royal Mail hanno fatto il Postal Act, legge organica sulla posta. Quando si è iniziato a parlare di quotare Poste ho detto che bisognava fare come in Inghilterra. Mi hanno risposto: hai ragione, ma da noi è difficile, meglio fare qualche modifica inserendola in un’altra legge. Il consiglio era di buon senso, ma questo significa continuare ad arrangiarsi nella logica del “male minore”.

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