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→  ottobre 19, 2020


Pochi giorni fa il Foglio ha preso l’iniziativa di una campagna di promozione della app Immuni. Nel frattempo si stanno prospettando novità che potrebbero essere un potente incentivo a usare la app, migliorando molto le prospettive di contenere la seconda ondata di Covid.

Ma prima rivediamo le ragioni di un’adesione che è risultata inferiore al necessario Le modalità per farne di una app di tracciamento uno strepitoso successo c’erano: bastava che la positività di un esame fosse scaricata automaticamente dal Servizio sanitario sulla app, e che si fosse consentito l’uso della geolocalizzazione: sarebbe stato possibile sapere la presenza di soggetti potenzialmente infettanti (e che non rispettano l’obbligo di isolamento) nel mezzo pubblico che sto per usare, nel negozio dove sto per entrare, nel ritrovo dove mi sto recando. Ma queste funzionalità furono sacrificate sull’altare della privacy.

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→  ottobre 7, 2020


L’opera di Venezia ci riempie di orgoglio, ma l’Italia ora deve imparare anche dai suoi errori

L’inaugurazione del Mose, la dimostrazione che funziona, probabilmente anche con condizioni di mare e vento più avverse, è motivo di soddisfazione; l’originalità della tecnologia e l’originalità dell’opera sono giusta ragione di vanto. Ogni opera richiede tempo ed ha un costo: ma quando l’uno e l’altro presentano anomalie così macroscopiche, è impossibile non considerarle.
Il tempo: 54 anni dalla catastrofe, una delle più spaventose alluvioni degli ultimi secoli, che pose il problema di che cosa si poteva fare per evitare la distruzione di un gioiello unico e irripetibile. Dieci anni per individuare una soluzione, e poi 40 anni per realizzarla.
Il costo: quello per la costruzione (€6,1 Mld; a cui si deve aggiungere quello della manutenzione per 100 anni (€1,6 mld). I costi lievitano sempre in corso d’opera (in questo caso di oltre il 100% in vent’anni): qui c’è stata una distrazione di risorse pubbliche di oltre €2mld (Alessandro Barbieri e Francesco Gavazzi “Corruzione a norma di legge”) a favore di soggetti per questo condannati con sentenza passata in giudicato.

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→  settembre 23, 2020


Al direttore.
Consummatum est. Il Sì ha vinto 70 a 30. Almeno non vedremo più Di Maio giulivo tagliare con le forbici striscioni di poltrone rosse. Ma gli otto milioni di italiani che hanno votato No sono un dato prezioso (magari sono anche di più, se aggiungiamo i lettori del Foglio che in scienza e coscienza avrebbero votato No e hanno invece seguito il consiglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa di votare Sì per non lasciare che i 5 stelle si intestassero come loro una vittoria scontata). Hanno votato No nonostante le indicazioni di tutti i partiti (tranne Italia viva e +Europa), le posizioni di tutti i giornali (esclusi Repubblica e Domani) e, sostanzialmente, delle televisioni, dei talk-show e dei loro ospiti più o meno fissi. Troppi otto milioni per dire che sono i voti dell’élite; ancor più che sono della casta, quando il 97 per cento dei parlamentari aveva votato Sì in Parlamento. Lo hanno fatto avendo solo la loro testa per ragionare e qualche tweet per informarsi. Sono un patrimonio di cui tenere conto nelle nostre analisi, a cui pensare nei nostri programmi. Sono quelli su cui fare leva per salvare questo paese.

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→  settembre 19, 2020


“In Italia seicentoquaranta” sono, nel catalogo di Leporello, le “belle che amò” Don Giovanni, . Sono invece solo 368 le società per azioni quotate alla Borsa di Milano, per un valore complessivo di €532mld.

Il tema della Borsa italiana è ritornato di attualità dopo che l’Unione Europea ha imposto al London Stock Exchange, con cui al momento è fusa, di alienarla, se vuole proseguire la sua fusione con Refinitiv, la società di piattaforme tecnologiche controllata da Blackstone e Reuters. La soluzione al momento più probabile è quella ibrida, metà fusione con una grande Borsa, la francese Euronext (ma potrebbero essere anche i tedeschi o gli svizzeri), metà ri-nazionalizzazione, con Cassa Depositi e Prestiti e Banca Intesa.

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→  settembre 14, 2020


Le intuizioni di Friedman
Se quella sulla responsabilità sociale dell’impresa fosse una battaglia, l’eroe eponimo sarebbe Milton Friedman. Lui stesso osservava che la critica demolitrice della CSR (Corporate Social Responsibility), pubblicata sul New York Times Magazine il 12 settembre 1970 di cui celebriamo il mezzo secolo, “sembra che abbia conquistato il quasi completo monopolio del campo di battaglia” e, da monopolista, incassava le royalty quando le classi dirigenziali discutevano delle sue idee e gli accademici polemizzavano furiosamente contro le sue tesi, qualificando lui come una canaglia e le sue tesi contro la CSR piena di fallacie e di ipersemplificazioni. Iper-semplificazione sarebbe ridurre la sua critica della CSR a un criterio di condotta aziendale: quello che gli sta a cuore è il funzionamento di un’economia in cui le decisioni sulla allocazione di risorse scarse siano prese non in base a meccanismi politici, ma di mercato. Soprattutto è tutt’uno con la sua preoccupazione per il problema dei monopoli. La sua argomentazione non è in positivo sulle ragioni per cui “c’è una e una sola responsabilità globale dell’impresa: accrescere i suoi profitti”, ma in negativo contro coloro che sostengono che le società ne abbiano altre e diverse. Gli imprenditori che tanto parlano di responsabilità sociale d’impresa in un sistema di libera iniziativa, in realtà stanno predicando un puro e genuino comunismo: sono le marionette delle forze intellettuali che minano le basi di una società libera. Forse avrà avuto in mente la decisione della U.S. Steel di cancellare nel 1962 l’aumento del prezzo dell’acciaio, dopo che il presidente Kennedy aveva pubblicamente manifestato il proprio disaccordo e l’azienda era stata fatta oggetto di larvate minacce di rappresaglia, procedimenti antitrust, indagini fiscali sui suoi dirigenti.

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→  agosto 20, 2020


La marcia dei 40 mila e il referendum. In due occasioni cercò di rendere l’Italia un paese più europeo

Vedevo Romiti una volta al mese per portargli i conti, quando capitava per una proposta o per un problema, a volte, per guadagnare tempo anche in macchina alla fine della giornata. In Fiat era in corso la razionalizzazione in sette settori autonomi della conglomerata che l’azienda era diventata, un po’ per l’eredità dell’autarchica “Fiat, Terra Mare Cielo”, un po’ quando si trattava di sostenere la motorizzazione post bellica degli italiani. Uscito mio fratello dopo i famosi 100 giorni, Umberto Agnelli mi aveva messo a dirigere il settore “Componenti”, una ventina di aziende, dall’Olio Fiat alla Magneti Marelli. Verso Cesare Romiti ho un debito di riconoscenza: se fu il periodo più di soddisfazione della mia vita lavorativa, è anche per merito suo. Non solo per la sua rapidità e acume nel leggere i numeri, nel capire le situazioni: ma anche perché aveva una caratteristica che raramente ho trovato in altri (e che con alterni successi provato a imitare): ti faceva sentire come se quello che gli stavi dicendo fosse per lui la cosa più importante al mondo. Fu per un disaccordo con lui su una questione di principio che lasciai la Fiat. Fu per me un momento di grande emozione: “Signora – chiamò – porti un bicchier d’acqua all’ingegnere”.

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