→ aprile 21, 2018

Interventi di Veronica De Romanis, Marcello Messori e Mario Seminerio curati da Maria Carla Sicilia
Veronica De Romanis
Docente di European economics alla Luiss Guido Carli
“L’opinione pubblica è stata sedata da due efficaci anestetici”, scrive Guido Tabellini nel suo articolo, riferendosi alle rassicurazioni della politica sullo stato dell’economia italiana e al Qe della Banca centrale europea. La mia impressione è che negli ultimi anni la realtà sia stata completamente capovolta nel racconto collettivo: si è parlato di austerità quando in Italia l’austerità non c’è mai stata dopo il governo Monti, tanto che dal 2014 a oggi il debito pubblico è ancora cresciuto. Oggi rischiamo di pagare nel momento peggiore il prezzo di una politica espansiva, dopo tre anni di crescita, alla vigilia di importanti cambiamenti economici. Il prossimo ottobre, chiunque sarà premier, si troverà a mettere le mani su una legge di Stabilità che, così com’è, costerà circa 35/40 miliardi. Una cifra da spendere solo per sanare i conti del passato: tra clausole di salvaguardia, circa 12,3 miliardi per il 2019 e 19,5 miliardi per il 2020, le correzioni sul Def che chiede l’Europa, pari a circa 3 miliardi, gli impegni dei precedenti governi Renzi e Gentiloni – pareggio di bilancio, rinnovo dei contratti pubblici e missioni internazionali. Poi bisognerà capire cosa fare da oggi in poi: quanto ci costerà investire nel futuro e nelle riforme?
Per guardare al futuro non si può evitare di affrontare il problema numero uno, il debito pubblico, che ci rende un paese estremamente vulnerabile. I mercati al momento sono rimasti fermi, ma ci hanno insegnato che reagiscono quando meno ce lo aspettiamo. Non dobbiamo dimenticarlo e, se non vogliamo essere vulnerabili, dobbiamo intervenire sul debito pubblico. La strada può essere quella tracciata da Tabellini, portando l’avanzo primario verso il 4 per cento, come hanno fatto in altri paesi che l’autore ricorda nel suo articolo. Tuttavia non sembra quella scelta dai partiti chiamati a formare il prossimo governo. Il programma economico della Lega, secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, prevede un avanzo primario che tende allo 0 e un disavanzo che supera il 3 per cento, immaginando nel contempo un debito pubblico in diminuzione. In generale nei programmi elettorali di tutti i partiti, eccetto + Europa, è prevista una crescita del pil molto ottimista, tramite la quale si intende risanare le finanze pubbliche italiane. Ma riforme e crescita non bastano, serve l’aggiustamento del disavanzo.
Nel medio termine rischiamo di dover fare un aggiustamento costoso in uno dei momenti meno ideale: a ottobre forse il sostegno della Bce non ci sarà più e forse, come diceva Tabellini, l’espansione del commercio mondiale sarà molto più moderata. Il risultato di anni di politica fiscale espansiva e di flessibilità è il forte rischio di una politica fiscale prociclica, che renderà ancora più negativa l’eventuale fase negativa del ciclo.
Marcello Messori
Docente di Economia alla Luiss Guido Carli e direttore della Luiss School of European Political Economy
La diagnosi che emerge dall’articolo di Guido Tabellini rispetto alla situazione economica italiana è del tutto appropriata e ne condivido quelli che mi sembrano i tre punti chiave. Manca tuttavia la proposta di possibili soluzioni, che pure l’autore ha avanzato in altre sedi. Tabellini sottolinea un fatto assolutamente corretto e cioè che un’unione monetaria in cui non vi sia unificazione fiscale, dove manchi quindi una Banca centrale garante nei confronti del debito degli stati membri, è soggetta a vulnerabilità nella gestione dei debiti pubblici nazionali. Per usare le parole dell’autore, è come se il debito pubblico fosse espresso in una valuta estera e fosse quindi soggetto a forti rischi di insostenibilità se raggiunge un peso eccessivo rispetto al Pil.
Il secondo punto che condivido è che per mettere in sicurezza il debito pubblico italiano bisognerebbe avere un avanzo primario intorno al 4 per cento. Questo consentirebbe in una decina di anni di fare scendere il rapporto debito/pil intorno al 100 per cento, posto che vi sia una crescita positiva anche se contenuta. Tuttavia, sarei ancora più drastico di Tabellini su quello che mi sembra il terzo punto chiave, cioè che né economicamente né politicamente questo ripetuto avanzo sarebbe sostenibile in Italia.
Come si esce dunque da questo circolo vizioso, mettendo in sicurezza il rapporto debito pubblico/pil anche senza avere un avanzo primario del 4 per cento? Qualche mese fa alla Luiss School of European Political Economy abbiamo avanzato una proposta (cfr. Bastasin, Messori, Toniolo, ”Il debito pubblico italiano: una proposta“) che permetterebbe di raggiungere tale obiettivo anche realizzando un più sostenibile avanzo primario intorno al 2,5 per cento. La condizione da porre è che l’Esm, il meccanismo europeo di stabilità, si impegni ad acquistare quote proprietarie di un fondo patrimoniale nazionale per compensare la differenza tra l’effettivo aggiustamento annuale del bilancio italiano e quello difficilmente praticabile del 4%.
La questione non può essere rimandata, non abbiamo un tempo infinito per porre rimedio. Senza volere essere profeti di sventura, possiamo ragionevolmente aspettarci un rallentamento dell’economia e un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti. Presto o tardi anche i tassi europei seguiranno il trend, spinti anche dalla fine del quantitative easing. Quale che sia il prossimo governo dovrà affrontare il tema mettendo in sicurezza il debito pubblico prima che la situazione peggiori.
Mario Seminerio
Analista economico, autore del blog phastidio.net
Pur condividendo l’analisi, nutro qualche dubbio sulla via indicata come soluzione da Guido Tabellini nel suo articolo. L’autore non spiega infatti quali impatti depressivi può avere un obiettivo così impegnativo quale è quello di portare l’avanzo primario al 4 per cento del pil: anche ammettendo una riqualificazione della spesa, l’impegno sottrarrebbe comunque risorse al paese. Per sostenere la sua tesi Tabellini riporta l’esempio di paesi come Belgio e Canada. Tuttavia mi pare che si tratti di contesti completamente diversi da quello italiano, a partire dal periodo di riferimento: il pil nominale, tra la metà degli anni Novanta e il 2007, cresceva in maniera piuttosto confortevole aiutando a invertire il rapporto debito/pil. L’Italia invece si misura da parecchi anni con un quadro generale e interno di bassa inflazione e di bassa crescita. I paragoni con altri contesti spazio temporali ci portano fuori strada rispetto alle possibili soluzioni.
Trovare il modo di stimolare la crescita è fondamentale. Se non riusciamo a far crescere il pil nominale più del costo medio del debito, il rapporto di indebitamento non potrà scendere. Un problema da affrontare quando la Bce terminerà il suo piano di quantitative easing. Al di là di tutti i fattori di rischio esterni che pure esistono – dal rallentamento dell’economia mondiale alla minaccia delle politiche protezionistiche – l’Italia presenta un fattore di vulnerabilità propria che si chiama demografia. Tra tutti i paesi più sviluppati, insieme al Giappone è uno dei paesi più anziani al mondo, ma a differenza del Giappone ha un tessuto economico che non sviluppa sufficiente crescita della produttività e del valore aggiunto. Siamo prigionieri di un contesto demograficamente avverso, uno dei fattori più depressivo per il nostro sviluppo economico. Se continuiamo a focalizzarci sull’avanzo primario e su altre misure del genere ci ritroveremo con una nuova crisi del debito. In quel caso non vedo vie d’uscita diverse da un default o da una gigantesca manovra patrimoniale per ripagare il debito pubblico, come già accaduto con il governo Monti nel 2011. Un esito difficile da prevenire, quando la demografia gioca contro non c’è molto da fare. Per stimolare la crescita sarebbe più utile ripensare la pubblica amministrazione, nuovi meccanismi di raccordo tra formazione e mondo delle imprese, politiche di welfare in grado di incidere sulla natalità. Si tratta di interventi di lungo termine, che male si affiancano all’aumento dell’avanzo primario e al taglio della spesa primaria.
→ ottobre 16, 2016
The UNESCO executive board’s resolution on the Old City of Jerusalem was a searing diplomatic defeat for Prime Minister Benjamin Netanyahu’s foreign policy. In recent months, Netanyahu has told journalists and cabinet ministers that Israel’s international standing has changed; that “the world” is tired of the Palestinian problem; that Israel’s military and economic power are attracting conservative Arab states that share its fear of Iran and radical Islam; that Israel has an alternative to American support in the form of other world powers like Russia, China and India. Soon, Netanyahu promised, even the “automatic” pro-Palestinian majority at the United Nations would crumble. In less euphemistic language, Netanyahu claimed that Israel had received the world’s permission to continue the occupation and the settlements, and the Palestinians could go to hell.
But now along comes UNESCO’s approval of a resolution that described the Temple Mount and its environs in accordance with the Muslim narrative and reminded Israel that even the Western Wall is occupied territory according to international law. Humiliatingly, the Western Wall Plaza was called Al-Buraq, with the Hebrew name in parentheses.
This resolution was supported by Netanyahu’s new friends from Egypt, Russia and China, as well as Chad, which has grown closer to Israel, and Vietnam, which buys a lot of Israeli weaponry. Greece, with which Netanyahu is proud of nurturing an alliance, abstained, as did India. And who voted against? Our old friends: the United States, led by Barack Obama, along with Britain and Germany.
It turns out the world hasn’t changed. Israel may be accepted behind the scenes, in back-channel dealings, but when the lights go on, legitimacy belongs to the Palestinians. And Israel’s old friends are the only ones that still give it backing, even though Netanyahu has rejected their efforts to bring about a diplomatic solution.
The day after the UNESCO vote, the UN Security Council held a discussion about the settlements. Israel boycotted the meeting, so as not to hear the truth that echoed from wall to wall: The settlements are destroying any chance for an agreement and are leading to a one-state solution. The U.S. administration is debating over whether to end its term with a UN resolution that would enshrine this message.
Netanyahu scorns professional diplomats and says there’s no need for them as long as he’s around (Barak Ravid, Friday’s Haaretz). Now it turns out that this is an empty boast. His concept has collapsed; he remains vulnerable to the international community, which opposes his annexationist policies; and only American support protects Israel from harsher measures.
This weekend, Netanyahu worked to leverage his defeat at UNESCO for domestic purposes, arguing that “the entire world is against us.” But such posturing is worthless. Improving Israel’s international standing has a clear and well-known price tag: meaningful steps to moderate the occupation and serious negotiations to establish Palestine. Anything else is just the prime minister throwing sand in our eyes and regaling us with fairy tales.
→ agosto 13, 2016
Replica di Mariana Mazzucato a La grande crisi e l’illusione dello Stato imprenditore di Franco Debenedetti
Caro Direttore, ho letto con interesse la replica di Franco Debenedetti al mio pezzo “Cinque medicine per curare la malattia delle banche” (Repubblica, 8 agosto).
Cominciamo dalla frase finale del pezzo di Debenedetti: la Cassa Depositi e Prestiti esiste perché i governanti vogliono uno strumento disponibile per procurarsi consensi. “Il giorno che così più non fosse, non ci sarebbe nessun motivo perché restasse pubblica”. L’intervento pubblico insomma non serve a niente, solo a procurare voti.
Peccato che in tutto il mondo alcuni dei maggiori successi imprenditoriali siano stati finanziati dal settore pubblico, visto che per sua naturale avversione al rischio, il settore privato è entrato in ambiti come le biotecnologie, Internet e le tecnologie verdi solo dopo che lo Stato aveva aperto la strada.
La maggior parte delle start-up israeliane sono state finanziate dal fondo di venture capital statale, Yozma. E negli Stati Uniti, anche i campioni del “libero intraprendere” come Elon Musk hanno beneficiato dì ingenti investimenti pubblici, come il prestito garantito di 465 milioni di dollari ricevuto per la sua automobile Tesia S dal dipartimento dell’Energia. Debenedetti ovviamente ha ragione quando dice che lo Stato a volte fallisce e commette errori, come dimostrato da un investimento la Solyndra analogo a quello della Tesla, ma finito con una bancarotta.
Ci mancherebbe: l’innovazione impone di assumersi dei rischi (proprio per via dell’incertezza di cui parla Debenedetti nelle prime righe ), e a ogni successo si accompagnano dei fallimenti.
E, per tornare all’Italia, il nostro “miracolo economico” è stato reso possibile da una manciata di imprenditori illuminati, fra i quali Adriano Olivetti, che ha sempre raccomandato la collaborazione tra gli operatori privati e lo Stato. Sono stati gli investimenti diretti (non semplici sussidi) dello Stato, con l’Eni e l’Iri, a rendere possibile, insieme a questi pensatori visionari, il miracolo economico.
Ma che cosa è successo poi? La rigida ideologia di contrapposizione tra pubblico e privato ha condotto allo smembramento della Montedison ( poi diventata Enimont ), alla frantumazione della Olivetti e alla frettolosa svendita dell’Iri. E non dimentichiamoci di Telecom Italia che, come raccontato magistralmente da Massimo Mucchetti, era un operatore di livello internazionale nel campo delle telecomunicazioni fino a quando non è stata privatizzata decimando, guarda caso, proprio il suo dipartimento ricerca e sviluppo.
Tutto il contrario di France Télécom, che grazie alla ibridazione virtuosa tra pubblico e privato è diventata una delle società di telecomunicazioni più innovative del mondo. In realtà, oggi, le poche aziende italiane importanti che continuano a fare seriamente ricerca e sviluppo sono quelle controllate ancora, in parte, dallo Stato: ci sono la Finmeccanica e la StMicroelectronics (che grazie alla persistente presenza dello Stato italiano e francese è l’unico operatore europeo importante nel settore della microelettronica a livello mondiale).
Insomma, nella replica di Debenedetti siamo sempre alla vecchia, statica e ideologica contrapposizione tra pubblico e privato, al classico laissez faire. Il punto non è difendere sempre lo Stato oppure il privato: è capire come i due possono evolvere per creare modelli simbiotici e non parassitici. Se non ci crede chi ha fatto o fa politica allora la situazione è davvero grave.
Proviamo a ragionare con una prospettiva meno statica e a farci qualche domanda che crei una nuova conversazione in Italia.
Primo: quale forma devono assumere gli investimenti pubblici per essere davvero proficui? È fondamentale ( ed è possibile!) che rimangano indipendenti dal processo politico: questo è l’insegnamento del Darpa negli Stati Uniti, ma anche della prima migliore fase nella storia dell’Irí in cui non fu usato come stampella per i partiti politici. Basta comparare la Rai in Italia e la Bbc in Gran Bretagna: quest’ultima è rimasta storicamente indipendente dai partiti politici e ha effettuato investimenti strategici che hanno condotto non solo a una televisione di altissima qualità, ma anche a tecnologie come l’ iPlayer e il Bbc Micro, ed è diventata motore dell’esplosione del “settore creativo” britannico che oggi genera 84 miliardi di sterline l’anno.
Secondo: come modificare la legislazione europea sulla concorrenza per consentire investimenti pubblici strategici simili a quelli che hanno fatto emergere la Silicon Valley e che hanno consentito alla Cina di assumere un ruolo guida in aree diversissime come le telecomunicazioni e le tecnologie verdi? L’Europa non sarà in grado di competere con la Cina o gli Stati Uniti senza una collaborazione pubblico-privato in queste aree, che vada oltre i sussidi inerziali.
Franco Debenedetti usa spesso il termine “mercato”, confondendolo con “imprese”. Il mercato è il risultato delle interazioni tra il settore pubblico e quello privato.
Il mio articolo evidenziava proprio i problemi che sta affrontando l’Italia su entrambi questi fronti. Fare finta che il problema sia lo Stato, descritto come ostacolo a un settore delle imprese che altrimenti sarebbe innovativo e dinamico, significa perdere completamente di vista il punto centrale. E inganna l’Italia, facendole perdere le sfide e le opportunità del XXI secolo.
→ agosto 12, 2016

articolo collegato di Alberto Mingardi
Those British libertarians who went for Brexit were somehow disappointed by Theresa May easily winning the contest for Tory leadership. It’s quite easy to understand why: in her inaugural speech, she longed for an “industrial strategy” for post-Brexit Britain. See Mark Littlewood here.
Of course Mariana Mazzucato, though an advisor to Jeremy Corbyn, has commented in favour of this “idea” (in actual fact, nothing more than a rough sketch) of Mrs May. Mazzucato wrote a piece in the Financial Times which is no different than what she wrote before – but a prolific author never publishes just once, and being a prolific author myself, who am I to criticize her? You can read the thing yourself and make up your mind.
I’d just like to make a perhaps tangential point. Mazzucato is as ideological a thinker as anybody else. In her “The Entrepreneurial State”, she says, very clearly, that she sees herself as engaged in a “discursive battle” against those who want to reduce government spending by claiming its inefficiency. There is nothing necessarily wrong with that: strong disagreements, and passion, are what make the world of ideas engaging.
But in this last FT piece, she claims with some nonchalance that “the argument ought not to be about whether the state should not be involved in driving growth but how it can do this in the best way” and subsequently, “we do not need false or ideological choices between market and state”.
Ok, so, if you want to let the price system work to try to solve problems whose solutions is still unknown to us, you’re an ideologue. If you want a club of enlightened bureaucrats to step in, you’re not.
I find this way of arguing most disappointing – and I find disheartening that some people are apparently persuaded by it.
I think it’s safe to say that we’re all biased, but reality doesn’t necessarily confirm our biases. The public debate should be some kind of test of our prejudices, which need empirical grounding to be more than, well, prejudices.
But I do not quite get why it should be “ideological” to wait and see how markets develop, whereas going for government intervention when we don’t really know what to wish for is not.
I think the best reply to Professor Mazzucato was penned long ago by Bertrand Russell, in his “Skeptical Essays”:
I wish to propose for the reader’s favourable consideration a doctrine which may, I fear, appear wildly paradoxical and subversive. The doctrine in question is this: that it is undesirable to believe a proposition when there is no ground whatever for supposing it true.
→ agosto 8, 2016

articolo collegato di Mariana Mazzucato
I travagli che da diversi anni scuotono il sistema finanziario italiano offrono spunti di riflessione sul ruolo che la finanza potrebbe e dovrebbe avere in un ecosistema economico dinamico ed efficente. Non si tratta soltanto di interrogarsi sul ruolo delle banche in Italia, perché la finanza è il combustibile fondamentale per ogni sistema capitalista. Concentrerò la mia analisi in cinque brevi punti.Primo: il denaro non è solo un mezzo di scambio che sostituisce simbolicamente l’oro. È l’essenza del sistema capitalista che, secondo la tesi sostenuta in particolare dal grande economista Hyman Minsky, si fonda in primo luogo sul debito. La moneta dunque, in quanto garantita da un’autorità superiore, in genere lo Stato, rappresenta la creazione del debito, motore centrale del processo capitalistico. Quindi per capire come un moderno paese funziona all’interno del sistema capitalistico è soprattutto importante capire come funziona il debito, capire chi presta a chi e come.
Secondo: la finanza in teoria dovrebbe creare debito per finanziare la crescita dell’attività nell’economia reale. Invece, a partire dalla deregulation del sistema finanziario globale dagli anni Settanta, la finanza ha finito per finanziare… la finanza. In gran parte del mondo occidentale negli ultimi vent’anni il valore aggiunto lordo della intermediazione finanziaria è cresciuto più dell’economia reale.
In altre parole si è preferito prestare soldi a chi maneggia i soldi invece di investirli in attività produttive. E così siamo arrivati allo scoppio della bolla nel 2007. A livello mondiale è quindi importantissimo reindirizzare la finanza verso l’attività produttiva nell’economia reale.Terzo: in Italia al problema globale della finanziarizzazione si aggiunge una sorta di sclerotizzazione degli interessi e delle relazioni che ha reso ancora più problematica l’attività creditizia verso l’economia reale. Se invece di basarsi su un giudizio obiettivo che valuti la natura produttiva di un investimento e misuri i potenziali profitti realizzabili, il credito segue logiche clienterali, il sistema diventa incapace di vera crescita e innovazione. Non dimentichiamo che il termine “clientelismo” non deriva dal moderno “clienti” (una reale relazione economica) ma dal latino clientes, i parassiti sbeffeggiati da Giovenale che campavano di favori e regalie e si presentavano ogni mattina per la salutatio al loro patronus.Le banche italiane malate sono insomma sia causa che sintomo dell’eterna cultura clientelista del paese.Quarto: quando la crescita è bassa, come in Italia negli ultimi vent’anni con il Pil e la produttività più o meno fermi, finanziarizzazione e clientelismo diventano ancora più pervasivi e perniciosi. Se non emergono buone aziende da finanziare, se non ci sono opportunità di investire in progetti validi nell’economia reale il sistema continuerà ad investire nella finanza speculativa o nei rapporti clientelari. Il problema non è l’offerta, ma la domanda di credito da parte di imprese valide: le piccole e medie imprese innovative e produttive trovano il credito di cui hanno bisogno, ma sono troppo poche. Perché? Le imprese innovative ad alta crescita prosperano in genere in paesi dotati di ecosistemi dinamici di innovazione, in cui esistono forti legami tra ricerca e industria, cospicui investimenti pubblici nel settore dell’istruzione e della formazione professionale, nazioni in cui le imprese private spendono in formazione, ed in Ricerca e Sviluppo.
Quinto. Per generare crescita serve un sistema creditizio paziente, che persegue strategie a lungo termine. Senza finanza paziente non si avrà crescita, per quanto il governo possa pensare che basti ridurre la burocrazia, o rendere meno rigido il mercato del lavoro. E se l’economia reale non cresce, la finanza diventa una roulette in cui i soldi scommettono sui soldi. È essenziale insomma puntare sulla qualità e non sulla quantità del credito.
Storicamente il credito ad alto rischio iniziale è sempre stato erogato da varie forme di finanza pubblica, che soltanto in una fase successiva hanno attratto la finanza privata dei venture capitalist. E non stiamo parlando di paesi comunisti. In Israele, attraverso il fondo di venture capital pubblico Yozma. In Germania grazie alla banca pubblica KfW. In Finlandia attraverso agenzie di investimento pubblico come Sitra. Negli Usa attraverso agenzie di innovazione come Darpa, ma anche grazie al programma Small Business Innovation Research che attraverso attività di procurement crea un mercato per le piccole imprese più innovative. In Italia non esiste nulla del genere, nessun ente serio preposto all’innovazione. La Cdp non è mai stata messa in condizione di diventare una vera banca pubblica come quelle che operano in Cina, in Germania e persino in Brasile. Si è scelto di dare alla Cdp soltanto un ruolo di prestatore e investitore di ultima istanza, che sussidia più che investire. Il prevalere dei sussidi sugli investimenti ad alto rischio ha finito per aumentare l’apatia del sistema invece che svegliarlo dal suo sonno. La politica pubblica dovrebbe creare addizionalità, ossia intervenire laddove il credito privato non ha coraggio di andare. Agendo come investitore di prima istanza può in seconda battuta attrarre finaziamenti privati risvegliando quel famoso spirito animale di cui parlava Keynes.
Se analizziamo come funziona il debito in Italia, chi presta a chi e come, riusciamo a capire quali siano i grandi problemi italiani e che tipo di soluzioni attendano. Dobbiamo chiedere al governo una vera politica di crescita che crei addizionalità e riassegni con autorità al settore privato il suo compito primario: assumersi il rischio di investire in nuove opportunità piuttosto che continuare da una parte a lagnarsi di lacci e lacciuoli burocratici e dall’altra a domandare sussidi pubblici a gran voce.
L’autrice ha scritto Lo Stato Imprenditore ( Laterza) ed è Professor in the Economics of Innovation, University of Sussex.
→ luglio 22, 2016

articolo collegato del Direttore del Foglio
Il piano ormai è chiaro e Urbano Cairo, fresco azionista di maggioranza di Rcs, editore de La7, proprietario del Torino e della Cairo Communication, lo ripete a memoria come se fosse la sua poesia. Un robusto taglio di costi da realizzare entro il 2018. Un margine operativo lordo, tra Rcs e Cairo Communication, da 172 milioni nel 2017 e 215 nel 2018. Un’integrazione tra Rcs e Cairo Communication da realizzare non oltre i prossimi 24 mesi. Lo studio di nuove iniziative editoriali sia in Italia sia in Spagna. E un tentativo di mettere un piede nel cda di Rcs entro la fine di luglio con un percorso preciso: agevolando l’uscita di almeno quattro consiglieri sui nove totali dal consiglio d’amministrazione di Rcs, sostituendo i quattro consiglieri con persone scelte da Cairo (uno dei consiglieri sarà lo stesso editore), iniziando a operare subito sul paziente Rcs (1,3 miliardi di perdite accumulate negli ultimi cinque anni) evitando il decadimento del cda e convocando al più presto un’assemblea che nomini il nuovo consiglio. Il piano industriale è chiaro ed è quello che ha permesso a Cairo (in coppia con Intesa Sanpaolo) di sconfiggere la cordata guidata da Andrea Bonomi (in coppia con Mediobanca). Ma sul resto, sugli altri temi, su tutte le questioni che vengono illuminate quando si schiaccia l’interruttore del Corriere, l’establishment, la borghesia, il terzismo, il governo, le opposizioni, Grillo, il pensiero del nuovo azionista di maggioranza di Rcs è meno chiaro e meno noto e il Foglio ha chiesto a Cairo di rispondere a qualche domanda. Sul Corriere, su Rcs, ma non solo. Domanda numero uno: politicamente, che giornale diventerà il Corriere guidato da Urbano Cairo? “Dal punto di vista politico non cambierà niente. Per quanto riguarda la linea meno ci si accorge che io sia arrivato e meglio è! Il Corriere deve continuare a muoversi secondo un suo registro. La linea deve essere quella decisa dal direttore, non quella imposta dall’editore. Altra cosa è se mi si chiede come immagino lo sviluppo della casa editrice. Lì bisogna intervenire. Con più ricchezza editoriale. Con più contenuti. Con nuovi prodotti. E non escluderei anche con nuovi giornali. Settimanali o quotidiani è da vedere, ma lo spazio c’è. Bisogna essere aggressivi. Pensare a grandi campagne di comunicazione. Ne dico una: perché per esempio non abbassare per un mese il prezzo del giornale per rendere per un determinato periodo il Corriere accessibile a un numero maggiore di persone? Per quanto riguarda la Spagna invece bisognerà intervenire in modo ancora più urgente. Ci sono giornali importanti come el Mundo che hanno perso più copie della media dei giornali spagnoli. E quando hai un giornale che due anni fa vendeva poco meno di 200 mila copie e ora ne vende circa la metà devi interrogarti non solo sui costi ma anche sul percorso editoriale”. Il piano è chiaro, d’accordo, ma sulla politica Cairo, con molti sorrisi, cerca di svicolare e dunque insistiamo. Come se lo immagina, Cairo, il lettore del Corriere? “La verità? Io vedo una grande coincidenza e una massima sintonia tra chi vede La7 e chi legge il Corriere. Parliamo allo stesso pubblico, con un registro a volte diverso, ma con una profondità di analisi non così differente. Immagino persone che come me hanno a cuore un’informazione non urlata, approfondita”.
Quando si allude al terzismo, facciamo notare a Cairo, c’è però un problema. Un tempo essere terzisti significava allontanarsi dai due grandi poli (centrodestra e centrosinistra) per rifugiarsi al centro trovando dei punti di mediazione tra le due grandi scuole politiche e culturali. Oggi il centro politico non esiste più e se si vuole essere terzisti si corre il rischio di diventare grillini. Provochiamo: il Corriere è destinato a diventare un giornale grillino? “Lei ha ragione quando dice che il terzismo non esiste più. Ma non esiste più semplicemente perché oggi i poli sono diventati tre, e non più due, e dunque chi vuole pensare in modo libero deve fare un passo in avanti e diventare non più terzista ma… quartista!”. Che significa essere quartisti? “Non significa, come si potrebbe credere, non prendere posizione, perché solo Ponzio Pilato non prende mai posizione. Significa ragionare senza avere pregiudizi, sapendo che le idee del Corriere possono coincidere a volte con le idee di qualche partito o di qualche politico ma restano idee del Corriere che vanno al di là di tutti gli schieramenti possibili”. Il Corriere deve restare un giornale apartitico, d’accordo, ma cosa pensa Cairo dei capi dei partiti italiani? Berlusconi, Renzi, Grillo. Pronti, via. “Chi è per me Berlusconi? E’ un imprenditore diventato politico che aveva un piano che voleva realizzare – ma che purtroppo per lui e per l’Italia non è riuscito a mettere in campo – e che non ha raggiunto i risultati che avrebbe voluto”. Grillo? “E’ ancora presto per dire cosa è Grillo. E’ una novità tutto sommato recente del nostro paese che cresce laddove si manifestano situazioni economiche di generale difficoltà che portano le persone a rifugiarsi nel voto a cinque stelle per esprimere una forma generica di protesta. Per me Grillo è questo”. E Renzi? “Penso sia, a differenza di Berlusconi e Grillo, prima di tutto un politico. Con idee innovative, che cerca di cambiare il paese, a partire dalla sua architettura istituzionale e che certamente ci sta provando. La sua riuscita però dipende dal fatto che le ricette politico-economiche possano avere successo. Impegno e passione sono importanti ma diventano una miscela che funziona solo a condizione che producano miglioramento del benessere collettivo, a partire dall’occupazione. Capisco perfettamente la sua strategia di voler cambiare la Costituzione per costruire un paese all’interno del quale sia più semplice, secondo la sua versione, fare leggi. Ma il premier deve ottenere anche buoni risultati economici, l’organizzazione della struttura conta fino a un certo punto. Lo chiede chi non ha un lavoro ma lo chiede anche chi il lavoro lo crea come la classe dirigente”. La borghesia? “Anche la borghesia”. Cosa chiede la borghesia a chi governa? “La borghesia non chiede regali. Chiede di rendere più semplice la vita per chi fa impresa. Chiede che la spending review non venga fatta solo nelle aziende. Chiede che la politica capisca che ridurre i costi è il primo modo per trovare risorse per creare nuova occupazione. Chiede che non ci siano sprechi. Chiede che ci sia una tassazione degna di un paese che vuole crescere”. Il Corriere rappresenta da sempre la borghesia e con la vittoria di Cairo alla borghesia è arrivato un messaggio significativo: possiamo dire che il capitalismo di relazione è stato sconfitto da un capitalismo più di ideazione? “Da un certo punto di vista si può dire. E lo si può dire perché chi si è fidato di me non sono soltanto i miei compagni di viaggio di questa avventura, in primis gli amici di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, Carlo Messina, Gaetano Miccichè, poi ovviamente l’avvocato Sergio Erede e l’advisor Equita, e non sono stati soltanto i fondi di investimento ma sono anche i piccoli risparmiatori, la gente comune, il pubblico. Hanno creduto in un progetto e hanno voluto cambiare lo status quo. Sarò all’altezza del compito”. A proposito di status quo. Ma Cairo voterà sì o no al referendum costituzionale. “Preferirei non rispondere ora, è un’idea che sto maturando”.