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→  giugno 14, 2015


di Francesco Giavazzi

Il governo si appresta a sostituire i vertici della Cassa depositi e prestiti, la più grande istituzione finanziaria italiana. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo Stato ne possiede oltre l’80 per cento, il capitale restante è detenuto da alcune fondazioni: Cariplo, Fondazione San Paolo, e altre. Che il governo desideri «metterci la faccia» assumendosi la responsabilità della gestione (il presidente, Franco Bassanini, e l’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, furono nominati ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, anche se scadrebbero solo l’anno prossimo) è non solo naturale, ma anche opportuno. Infatti, diversamente da altre aziende, come l’Eni, di cui lo Stato detiene il 30%, ma investitori privati detengono il 70%, la Cassa non ha veri soci privati. È quindi opportuno che il ministero dell’Economia eserciti pienamente i suoi doveri di azionista quasi totalitario. Ma nel momento in cui lo fa deve spiegare con grande trasparenza quali sono gli obiettivi che intende perseguire con questa enorme quantità di denaro generata dai nostri risparmi.
Negli ultimi anni la Cassa ha operato con obiettivi diversi. Nel caso di Ilva, ad esempio, si è opposta ad intervenire nell’azienda pugliese. H a ritenuto che sarebbe stato preferibile che lo Stato accettasse l’offerta di Mittal, il grande operatore siderurgico indiano, interessato ad acquisire il laminatoio di Taranto. Una scelta «di mercato» che non fece piacere al governo Renzi. In quella, come in altre vicende simili, il fatto che lo statuto della Cassa le vieti di investire in aziende in perdita ha consentito agli amministratori di opporsi a estemporanee sollecitazioni della politica che chiedevano interventi a prescindere dalla redditività economica.
Contemporaneamente la gestione di Bassanini e Gorno Tempini ha fatto anche investimenti discutibili. Ad esempio entrando (seppur non direttamente ma attraverso il suo Fondo strategico, del quale però la Cassa controlla oltre i due terzi del capitale) nella società Rocco Forte Hotels, con la scusa che gli alberghi sono un «settore strategico»; nella Cremonini, con la scusa che la filiera della carne è anch’essa «strategica» per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, una società di servizi bancari, e così via. Investimenti dei quali si fa fatica a comprendere la strategia, a meno che essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo Stato e di un azionista, sempre lo Stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati.
Tre sono le domande cui il governo dovrebbe rispondere prima di metter mano al dossier Cassa.
Prima domanda: perché l’utilizzo di questa straordinaria quantità di risparmio delle famiglie deve essere decisa dalla politica, anziché da investitori privati? Quali obiettivi intende perseguire? Il governo è disposto ad impegnarsi a far sì che la Cassa intervenga solo là dove si verificano dei chiari «fallimenti del mercato», il che evidentemente esclude l’investimento in alberghi o in società di ingegneria? Impegnerà la Cassa a non detenere le azioni delle aziende acquisite per più di tre anni, dando così credibilità all’impegno che l’intervento pubblico, là dove giustificato da un fallimento del mercato, sia propedeutico ad una successiva privatizzazione? Ad esempio, la Cassa vuole acquisire aziende pubbliche locali (già partecipa agli aereoporti di Napoli, Torino e Milano, ad un termovalorizzatore a Torino, eccetera) in modo da favorirne l’aggregazione e poi la privatizzazione. Ma senza un vincolo su quanto a lungo ne potrà detenere le azioni, da queste aziende la Cassa non uscirà mai con la scusa che sono uno strumento per fare «politica industriale». Insomma, il rischio è che la disponibilità di uno strumento di intervento tanto ricco dia luogo ad una continua ricerca di ambiti nei quali utilizzarlo. È come dare 100 euro ad un ragazzino chiedendogli di usarli solo per le emergenze: quanto passerà prima che li usi per cambiare il suo smartphone ?
Altrettanto importante è impedire che la Cassa pompi ricavi esagerati dalle sue partecipazioni in alcuni monopoli naturali, come le reti elettriche e del gas, a scapito dei consumatori. Il che significa impedire che la Cassa sia, come è oggi, un’interfaccia opaca fra mercato e regolamentazione con conflitti di interesse ubiqui. Si pensi ad esempio al caso del risparmio postale: quando la Cassa fissa le commissioni per la raccolta, di fatto determina il risultato economico delle Poste, a scapito del consumatore.
La seconda domanda riguarda lo statuto della Cassa e il ruolo delle fondazioni. La loro definizione di azionisti «privati» è evidentemente una foglia di fico: le fondazione bancarie tutto sono tranne che azionisti che operano con criteri di mercato. Ciononostante esse oggi svolgono, come azionisti della Cassa, due ruoli importanti. Innanzitutto la loro presenza, fosse anche con una sola azione, evita che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più «privatizzare» aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cassa. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni è impossibile cambiare lo statuto della Cassa. Questo è un problema perché, come già accennato, lo statuto attuale non consente di intervenire in aziende in perdita. Se quindi il governo volesse usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali – come ha dimostrato di voler fare nel caso dell’Ilva – dovrebbe cambiarne lo statuto. Per farlo, o estromette le fondazioni o le convince obtorto collo ad accettare una modifica dello statuto. Che intende fare?
La terza domanda è più generale. Vorrei che il presidente del Consiglio, prima di nominare il nuovo vertice della Cassa, spiegasse che cosa pensa del rapporto fra Stato e mercato. Ad esempio, si sente spesso dire che senza sussidi pubblici non ci può essere innovazione. A questo proposito alcuni citano il caso dell’iPhone che a loro parere non esisterebbe se 70 anni fa il Pentagono non avesse investito nella tecnologia da cui poi è nata la Rete. Innanzitutto qualunque cosa abbia fatto il Pentagono 70 anni fa, senza l’intuizione di Steve Jobs certo non avremmo l’iPhone; inoltre vi è un’enorme differenza fra mettere in gara imprese private per una fornitura militare o assegnarla a Finmeccanica, un’azienda di cui lo Stato è il maggior azionista. Che pensa Matteo Renzi di queste discussioni?
Pare che il prossimo investimento della Cassa sarà nella banda larga, con la giustificazione che Telecom non la vuole fare – se non addirittura un ingresso diretto nell’azionariato della società (cioè una ri-nazionalizzazione) per propiziare una decisione in quel senso. Telecom ritiene che un investimento nella banda larga non produrrebbe un sufficiente rendimento economico, e quindi distruggerebbe valore per gli azionisti. Può darsi che si tratti di un caso evidente di fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Ma ne siamo proprio sicuri?
Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili – un caso, si disse, di fallimento del mercato – il governo decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Furono così concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: pagati dalle famiglie, nelle loro bollette elettriche, a poche migliaia di fortunati. E non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i pannelli sussidiati dallo Stato rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.

→  maggio 24, 2015


di Carmine Fotina

Le grandi manovre sulle industrie da rilanciare possono iniziare. Il regolamento della Spa “salva imprese” prevista dal decreto banche è pronto: capitale minimo di 830 milioni per partire, garanzia statale, poteri speciali di governance agli investitori privati, uscita dalle aziende target entro 10 anni. Il decreto attuativo, ha spiegato il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi è stato firmato, registrato dalla Corte dei conti ed attende la pubblica sulla Gazzetta ufficiale: «Un veicolo utile per accompagnare di più e meglio alcune società a un’uscita rispetto ai piani di ristrutturazione. Ci auguriamo che una prima operazione possa essere Ilva».

La garanzia dello Stato

Il Dpcm è un passaggio indispensabile per far decollare la Spa di turnaround, alla quale dovrebbero partecipare Cassa depositi e prestiti, Inail, probabilmente i principali gruppi bancari, altri possibili privati da individuare ad esempio tra i fondi di investimento. Il decreto, in 11 articoli che fissano le regole di ingaggio, è stato perfezionato dopo varie ipotesi fatte con il coordinamento di Claudio De Vincenti, prima da viceministro e poi da sottosegretario a Palazzo Chigi, e Andrea Guerra, consigliere economico del premier.

La garanzia potrà scattare solo a fronte di sottoscrizione di capitale per almeno 580 milioni da parte di investitori che intendono beneficiarne e per almeno 250 milioni da parte di privati che investiranno capitali di rischio senza richiedere lo “scudo” statale. Non solo: ogni singolo investitore da garantire dovrà mettere sul piatto almeno 100 milioni e possedere un patrimonio netto non inferiore alla stessa cifra (oppure nel caso di fondi comuni e fondi pensione, dovrà gestire attività per oltre 500 milioni). Il capitale della società potrà salire – e il governo punta ad almeno 1,5 miliardi – ma ad ogni modo fino al 70% dovrà essere costituito da «investitori garantiti» e quindi almeno il 30% da «investitori non garantiti».

La garanzia – per la quale lo Stato mette a disposizione un Fondo di 300 milioni – sarà onerosa, con un prezzo a carico dei richiedenti che sarà la risultante di una quota fissa e una variabile da determinare con una gara per le migliori condizioni offerte. Potrà coprire l’80% dell’investimento (si vedano le schede accanto) e potrà essere escussa solo in fase di liquidazione della società, che dovrà avvenire entro il 2025.

Gli azionisti e i tempi

La Spa, secondo le prime ottimistiche dichiarazioni del governo, avrebbe dovuto vedere la luce già ad aprile. Ma solo adesso si aprirà la fase più calda della composizione dell’azionariato, della scelta del management e della selezione delle aziende target che, pur risultando in «squilibrio patrimoniale o finanziario», devono essere caratterizzate da «adeguate prospettive industriali e di mercato».

Su questo punto, la relazione illustrativa del Dpcm sottolinea che il contesto produttivo italiano «è caratterizzato da un’ampia presenza sul nostro territorio di medie e grandi aziende con buoni o eccellenti fondamentali industriali. Accade però che talvolta tali situazioni aziendali necessitino di interventi di sostegno e rafforzamento della situazione patrimoniale e finanziaria».

Il primo test individuato dal governo, come detto, sarà l’Ilva: la Spa (probabilmente entro ottobre) dovrebbe investire in una newco per il rilancio del gruppo siderurgico. La preoccupazione del governo, a prescindere dal delicatissimo caso Ilva, è evitare che il nuovo strumento parta con le stigmate di una nuova Iri e alcuni punti del regolamento sembrano voler rispondere a questa esigenza.

Come detto, la società dovrà sciogliersi entro dieci anni, dotarsi di uno statuto che preveda una rigida disciplina in materia di conflitti di interesse e un sostanziale potere di veto degli investitori privati non garantiti nelle deliberazioni sugli investimenti («concorso determinante della maggioranza dei componenti degli organi sociali designati dagli azionisti che non si avvalgono della garanzia»). Lo statuto dovrà inoltre contenere l’obbligo di distribuire almeno i due terzi dell’utile realizzato in ogni esercizio.

→  maggio 20, 2015

Un pamphlet sul futuro delle banche dopo l’abolizione del voto capitario

Perché si
Modernizzarsi e sopravvivere
di Franco Debenedetti

«Popolari, la riforma è legge», è il titolo del Sole 24 Ore del 25 marzo. E a pagina 2: «Si preparano le fusioni» «BPM perno del riassetto» «Vicenza e Veneto Banca prime a cambiare». «Le Fondazioni pronte a entrare nelle nuove SpA»: ma guarda tu, chi l’avrebbe mai detto?

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→  maggio 16, 2015


articolo collegato di Douglas Coupland

I look at apps like Grindr and Tinder and see how they’ve rewritten sex culture — by creating a sexual landscape filled with vast amounts of incredibly graphic site-specific data — and I can’t help but wonder why there isn’t an app out there that rewrites political culture in the same manner. I don’t think there is. Therefore I’m inventing an app to do so and I’m calling it Wonkr — which somehow seems appropriate for a politically geared app. I dropped the “e” to make it feel more appy.
What does Wonkr do? Primarily, you put Wonkr on your phone and it asks you a quick set of questions about your beliefs. Then, the moment there are more than a few people around you (who also have Wonkr), it tells you about the people you’re sharing the room with. You’ll be in a crowded restaurant in Nashville and you can tell that 73 per cent of the room is Republican. Go into the kitchen and you’ll see that it’s 84 per cent Democrat. You’ll be in an elevator in Manhattan and the higher you go, the percentage of Democrats shrinks. Go to Germany — or France or anywhere, really — and Wonkr adapts to local politics.
The thing to remember is: Wonkr only activates in crowds. If you’re at home alone, with the apps switched off, nobody can tell anything about you. (But then maybe you want to leave it on . . . Many political people are exhibitionists that way.)
Wonkr’s job is to tell you the political temperature of a busy space. “Am I among friends or enemies?” But then you can easily change the radius of testability. Instead of just the room you’re standing in, make it of the block or the whole city — or your country. Wonkr is a de facto polling app. Pollsters are suddenly out of a job: Wonkr tells you — with astonishing accuracy — who believes what, and where they do it.
 . . . 
Here’s an interesting fact about politics: people with specific beliefs only want to meet and hang out with people who believe the same things as themselves. It’s like my parents and Fox News . . . it’s impossible for me to imagine my parents ever saying, “What? You mean there are liberal folk nearby us who have differing political opinions? Good Lord! Bring them to us now and let’s have a lively and impartial dialogue, after which we all agree to cheerfully disagree . . . maybe we’ll even have our beliefs changed!” When it comes to the sharing of an ethos, history shows us that the more irrational a shared belief is, the better. (The underpinning maths of cultism is that when two people with self-perceived marginalised views meet, they mutually reinforce these beliefs, ratcheting up the craziness until you have a pair of full-blown nutcases.)
So back to Wonkr . . . Wonkr is a free app but why not help it by paying say, 99 cents, to allow it to link you with people who think just like you. Remember, to sign on to Wonkr you have to take a relatively deep quiz. Maybe 155 questions, like the astonishingly successful eHarmony.com. Dating algorithms tell us that people who believe exactly the same things find each other highly attractive in the long run. So have a coffee with your Wonkr hook-up. For an extra 29 cents, you can watch your chosen party’s attack ads together . . . How does Wonkr ensure you’re not a trouble-seeking millennial posing as a Marxist at a Ukip rally? Answer: build some feedback into the app. If you get the impression there’s someone fishy nearby, just tell Wonkr. After a few notifications, geospecific algorithms will soon locate the imposter. It’s like Uber: you rate them; they rate you. Easily fixed.
 . . . 
What we’re discussing here is the creation of data pools that, until recently, have been extraordinarily difficult and expensive to gather. However, sooner rather than later, we’ll all be drowning in this sort of data. It will be collected voluntarily in large doses (using the Wonkr, Tinder or Grindr model) — or involuntarily or in passing through other kinds of data: your visit to a Seattle pot store; your donation to the SPCA; the turnstile you went through at a football match. Almost anything can be converted into data — or metadata — which can then be processed by machine intelligence. Quite accurately, you could say, data + machine intelligence = Artificial Intuition.
Artificial Intuition happens when a computer and its software look at data and analyse it using computation that mimics human intuition at the deepest levels: language, hierarchical thinking — even spiritual and religious thinking. The machines doing the thinking are deliberately designed to replicate human neural networks, and connected together form even larger artificial neural networks. It sounds scary . . . and maybe it is (or maybe it isn’t). But it’s happening now. In fact, it is accelerating at an astonishing clip, and it’s the true and definite and undeniable human future.
 . . . 
So let’s go back to Wonkr.
Wonkr may, in some simple senses, already exist. Amazon can tell if you’re straight or gay within seven purchases. A few simple algorithms applied to your everyday data (internet data alone, really) could obviously discern your politics. From a political pollster’s perspective, once you’ve been pegged, then you’re, well, pegged. At that point the only interest politicians might have in you is if you’re a swing voter.
Political data is valuable data, and at the moment it’s poorly gathered and not necessarily well understood, and there’s not much out there that isn’t quickly obsolete. But with Wonkr, the centuries-long, highly expensive political polling drought would be over and now there would be LOADS of data. So then, why limit the app to politics? What’s to prevent Wonkr users from overlapping their data with, for example, a religious group-sourcing app called Believr? With Believr, the machine intelligence would be quite simple. What does a person believe in, if anything, and how intensely do they do so? And again, what if you had an app that discerns a person’s hunger for power within an organisation, let’s call it Hungr — behavioural data that can be cross-correlated with Wonkr and Believr and Grindr and Tinder? Taken to its extreme, the entire family of belief apps becomes the ultimate demographic Klondike of all time. What began as a cluster of mildly fun apps becomes the future of crowd behaviour and individual behaviour.
. . . 
Wonkr (and Believr and Hungr et al) are just imagined examples of how Artificial Intuition can be enhanced and accelerated to a degree that’s scientifically and medically shocking. Yet this machine intelligence is already morphing, and it’s not just something simple like Amazon suggesting books you’d probably like based on the one you just bought (suggestions that are often far better than the book you just bought). Artificial Intuition systems already gently sway us in whatever way they are programmed to do. Flying in coach not business? You’re tall. Why not spend $29 on extra legroom? Guess what — Jimmy Buffett has a cool new single out, and you should see the Tommy Bahama shirt he wears on his avatar photo. I’m sorry but that’s the third time you’ve entered an incorrect password; I’m going to have to block your IP address from now on — but to upgrade to a Dell-friendly security system, just click on the smiley face to the right . . . And none of what you just read comes as any sort of surprise. But 20 years ago it would have seemed futuristic, implausible and in some way surmountable, because you, having character, would see these nudges as the trivial commerce they are, and would be able to disregard them accordingly. What they never could have told you 20 years ago, though, is how boring and intense and unrelenting this sort of capitalist micro-assault is, from all directions at all waking moments, and how, 20 years later, it only shows signs of getting much more intense, focused, targeted, unyielding and galactically more boring. That’s the future and pausing to think about it makes us curl our toes into fists within our shoes. It is going to happen. We are about to enter the Golden Age of Intuition and it is dreadful.
 . . . 
I sometimes wonder, How much data am I generating? Meaning: how much data do I generate just sitting there in a chair, doing nothing except exist as a cell within any number of global spreadsheets and also as a mineable nugget lodged within global memory storage systems — inside the Cloud, I suppose. (Yay Cloud!)
Did I buy a plane ticket online today? Did I get a speeding ticket? Did my passport quietly expire? Am I unwittingly reading a statistically disproportionate number of articles on cancer? Is my favourite shirt getting frayed and is it in possible need of replacement? Do I have a thing for short blondes? Is my grammar deteriorating in a way that suggests certain subcategories of dementia?
In 1998, I wrote a book in which a character working for the Trojan Nuclear Power Plant in Oregon is located using a “misspellcheck” programme that learnt how users misspell words. It could tell my character if she needed to trim her fingernails or when she was having her period, but it was also used down the road to track her down when she was typing online at a café. I had an argument with an editor over that one: “This kind of program is simply not possible. You can’t use it. You’ll just look stupid!” In 2015 you can probably buy a misspellcheck as a 49-cent app from iTunes . . . or upgrade to Misspellcheck Pro for another 99 cents.
What a strange world. It makes one long for the world before DNA and the internet, a world in which people could genuinely vanish. The Unabomber — Theodore “Ted” Kaczynski — seems like a poster boy for this strain of yearning. He had literally no data stream, save for his bombs and his manifesto, which ended up being his undoing. How? He promised The New York Times and Washington Post that he’d stop sending bombs if they would print his manifesto, which they did. Then his brother recognised his writing style and turned him in to the FBI. Machine intelligence — Artificial Intuition — steeped in deeply rooted language structures, would have found Kaczynski’s writing style in under one-10th of a second.
Kaczynski really worked hard at vanishing but he got nabbed in the 1990s before data exploded. If he existed today, could he still exist? Could he unexist himself in 2015? You can still live in a windowless cabin these days but you can’t do it anonymously any more. Even the path to your shack would be on Google Maps. (Look, you can see a stack of red plastic kerosene cans from satellite view.) Your metadata stream might be tiny but it would still exist in a way it never did in the past. And don’t we all know vanished family members or former friends who work hard so as to have no online presence? That mode of self-concealment will be doomed soon enough. Thank you, machine intelligence.
But wait. Why are we approaching data and metadata as negative? Maybe metadata is good, and maybe it somehow leads to a more focused existence. Maybe, in future, mega-metadata will be our new frequent flyer points system. Endless linking and embedding can be disguised as fun or practicality. Or loyalty. Or servitude.
Last winter, at a dinner, I sat across the table from the VP of North America’s second-largest loyalty management firm (explain that term to Karl Marx), the head of their airline loyalty division. I asked him what the best way to use points was. He said, “The one thing you never ever use points for is for flying. Only a loser uses their miles on trips. It costs the company essentially nothing while it burns off swathes of points. Use your points to buy stuff, and if there isn’t any stuff to buy,” (and there often isn’t: it’s just barbecues, leather bags and crap jewellery) “then redeem miles for gift cards at stores where they might sell stuff you want. But for God’s sake, don’t use them to fly. You might as well flush those points down the toilet.”
Glad I asked.
And what will future loyalty data deliver to its donors, if not barbecues and Maui holidays? Access to the business-class internet? Prescription medicines made in Europe not in China? Maybe points could count towards community service duty?
 . . . 
Who would these new near-future entities be that want all of your metadata anyway? You could say corporations. We’ve now all learnt to reflexively think of corporations when thinking of anything sinister but the term “corporation” now feels slightly Adbustery and unequipped to handle 21st-century corporate weirdness. Let’s use the term “Cheney” instead of “corporation”. There are lots of Cheneys out there and they are all going to want your data, whatever their use for it. Assuming these Cheneys don’t have the heart to actually kill or incarcerate you in order to garner your data, how will they collect it, even if only semi-voluntarily? How might a Cheney make people jump on to your loyalty programme (data aggregation in disguise) instead of viewing it with suspicion?
Here’s an idea: what if metadata collection was changed from something spooky into something actually desirable and voluntary? How could you do that and what would it be? So right here I’m inventing the metadata version of Wonkr, and I’m going to give it an idiotic name: Freedom Points. What are Freedom Points? Every time you generate data, in whatever form, you accrue more Freedom Points. Some data is more valuable than other, so points would be ranked accordingly: a trip to Moscow, say, would be worth a million times more points than your trip to the 7-Eleven.
Well then, what do Freedom Points allow you to do? They would allow you to exercise your freedom, your rights and your citizenship in fresh modern ways: points could allow you to bring extra assault rifles to dinner at your local Olive Garden restaurant. A certain number of Freedom Points would allow you to erase portions of your criminal record — or you could use Freedom Points to remove hours from your community service. And as Freedom Points are about mega-capitalism, everyone is involved, even the corn industry — especially the corn industry. Big Corn. Big Genetically Modified corn. Use your Freedom Points that earn discount visits to Type 2 diabetes management retreats.
The thing about Freedom Points is that if you think about them for more than 12 seconds, you realise they have the magic ring of inevitability. The idea is basically too dumb to fail. The larger picture is that you have to keep generating more and more and more data in order to embed yourself ever more deeply into the global community. In a bold new equation, more data would convert into more personal freedom.
 . . . 
At the moment, Artificial Intuition is just you and the Cloud doing a little dance with a few simple algorithms. But everyone’s dance with the Cloud will shortly be happening together in a cosmic cyber ballroom, and everyone’s data stream will be communicating with everyone else’s and they’ll be talking about you: what did you buy today? What did you drink, ingest, excrete, inhale, view, unfriend, read, lean towards, reject, talk to, smile at, get nostalgic about, get angry about, link to, like or get off on? Tie these quotidian data hits within the longer time framework matrices of Wonkr, Believr, Grindr, Tinder et al, and suddenly you as a person, and you as a group of people, become something that’s humblingly easy to predict, please, anticipate, forecast and replicate. Tie this new machine intelligence realm in with some smart 3D graphics that have captured your body metrics and likeness, and a few years down the road you become sort of beside the point. There will, at some point, be a dematerialised, duplicate you. While this seems sort of horrifying in a Stepford Wife-y kind of way, the difference is that instead of killing you, your replicant meta-entity, your synthetic doppelgänger will merely try to convince you to buy a piqué-knit polo shirt in tones flattering to your skin at Abercrombie & Fitch.
 . . . 
This all presupposes the rise of machine intelligence wholly under the aegis of capitalism. But what if the rise of Artificial Intuition instead blossoms under the aegis of theology or political ideology? With politics we can see an interesting scenario developing in Europe, where Google is by far the dominant search engine. What is interesting there is that people are perfectly free to use Yahoo or Bing yet they choose to stick with Google and then they get worried about Google having too much power — which is an unusual relationship dynamic, like an old married couple. Maybe Google could be carved up into baby Googles? But no. How do you break apart a search engine? AT&T was broken into seven more or less regional entities in 1982 but you can’t really do that with a search engine. Germany gets gaming? France gets porn? Holland gets commerce? It’s not a pie that can be sliced.
The time to fix this data search inequity isn’t right now, either. The time to fix this problem was 20 years ago, and the only country that got it right was China, which now has its own search engine and social networking systems. But were the British or Spanish governments — or any other government — to say, “OK, we’re making our own proprietary national search engine”, that would somehow be far scarier than having a private company running things. (If you want paranoia, let your government control what you can and can’t access — which is what you basically have in China. Irony!)
The tendency in theocracies would almost invariably be one of intense censorship, extreme limitations of access, as well as machine intelligence endlessly scouring its system in search of apostasy and dissent. The Americans, on the other hand, are desperately trying to implement a two-tiered system to monetise information in the same way they’ve monetised medicine, agriculture, food and criminality. One almost gets misty-eyed looking at North Koreans who, if nothing else, have yet to have their neurons reconfigured, thus turning them into a nation of click junkies. But even if they did have an internet, it would have only one site to visit, and its name would be gloriousleader.nk.
 . . . 
To summarise. Everyone, basically, wants access to and control over what you will become, both as a physical and metadata entity. We are also on our way to a world of concrete walls surrounding any number of niche beliefs. On our journey, we get to watch machine intelligence become profoundly more intelligent while, as a society, we get to watch one labour category after another be systematically burped out of the labour pool. (Doug’s Law: An app is only successful if it puts a lot of people out of work.)
The darkest thought of all may be this: no matter how much politics is applied to the internet and its attendant technologies, it may simply be far too late in the game to change the future. The internet is going to do to us whatever it is going to do, and the same end state will be achieved regardless of human will. Gulp.
Do we at least want to have free access to anything on the internet? Well yes, of course. But it’s important to remember that once a freedom is removed from your internet menu, it will never come back. The political system only deletes online options — it does not add them. The amount of internet freedom we have right now is the most we’re ever going to get.
If our lives are a movie, this is the point where the future audience is shouting at the screen, “For God’s sake, load up on as much porn and gore and medical advice, and blogs and film and TV and everything as you possibly can! It’s not going to last much longer!”
And it isn’t.

→  maggio 15, 2015

«Ma sa, caro senatore, le banche non sono sexy». Lo rivedo ancora Enrico Cuccia, nel salone di via Filodrammatici, e il suo sorriso malizioso. Ero andato a presentargli il mio disegno di legge per la vendita delle quote detenute dalle Fondazioni nelle banche conferitarie, basato sul meccanismo dei buoni di acquisto. Pensava che non avrebbe funzionato: le banche, come investimento, non sono sexy, non sono popolari.

Mi sono tornate in mente le sue parole veden­do il repentino balzo in borsa dei titoli delle mag­giori banche popolari non appena si è saputo che dovranno abbandonare il modello di governance cooperativo e trasformarsi in società per azioni. Erano diventate popolari? Anche se forse manter­ranno nella ragione sociale il nome che ricorda la loro diversa origine, stanno per diventare come tutte le altre banche: non popolari.

Un incontro ravvicinato

Nel 2009 Assogestioni mi aveva proposto come consigliere di amministrazione della Banca Popo­lare di Milano in una lista che poi confluì in quel­la del presidente uscente, Roberto Mazzotta.

Vinse la lista che portava come presidente Mas­simo Ponzellini. Io fui eletto come consigliere del­la lista di minoranza. Fu il mio incontro ravvicina­to con una popolare. Durò dall’aprile del 2009 al giugno del 2011, quando diedi le dimissioni.

Roberto Mazzotta aveva lavorato a un progetto societario: fondere BMP con la Popolare di Emilia Romagna di Modena. Lo schema era quello solito con cui si aggregano le popolari: l’acquisita viene trasformata in SpA, l’acquirente resta con la gover­nance che aveva, popolare con voto capitario. Schema collaudato, ma usato, fino a quel mo­mento, per i salvataggi. Così era stato per la stori­ca (fondata nel 1871) Popolare di Novara: che popolare lo era davvero, alcune sue assemblee si svolgevano nello stadio. Incappata poi in gravi di­savventure, era stata trasformata in SpA per poter essere acquisita dalla Popolare di Verona, che a sua volta confluirà poi nel Banco Popolare. Quel­la progettata da Mazzotta invece sarebbe stata una fusione tra due banche entrambe in buona forma, entrambe circa della stessa stazza. Origina­le il percorso studiato per il matrimonio: una hol­ding cooperativa con sotto le due banche autono­me e indipendenti; principio di pariteticità con una governance tradizionale e non duale; fusione senza premi di maggioranza, così da evitare il pro­blema di definizione dei concambi. Certo, c’era da risolvere il nodo della composizione del board della capogruppo: non era unanimemente condi­visa la proposta di assegnare il 50% dei consiglieri alla Milano scelti con il sistema capitario mentre la componente modenese avrebbe dovuto essere selezionata da un ente validante non meglio defi­nito. Si era già pensato anche al nome, per distin­guere fin dalla sigla questa banca, e la logica da cui nasceva, da quelle formate da altri recenti ma­trimoni bancari: «Banca delle Regioni», brand in­ventato e registrato dal presidente di BPER Guido Leoni, e mai utilizzato. Visite a Banca d’Italia, pa­reri degli advisor, riunioni dei CdA, roadshow ter­ritoriale di Mazzotta per spegnere i possibili foco­lai di resistenza al progetto di fusione.

Che divampano, eccome: a giugno 2007 un vo­lantino delle principali sigle dell’istituto milanese (FABI, FISAC-CGIL e FIBA-CISL) sancisce il no alla fu­sione sostenendo che «mancano totalmente i pre­supposti». E anche a Modena si manifestano per­plessità.

Mazzotta non si perde d’animo: ad agosto, al meeting di Rimini ribadisce la sua fiducia nel pro­getto: «Considero che sia di straordinaria forza e qualità; siccome spero nelle virtù della ragione… mai dire mai… avevamo cercato di farla, siamo in­ciampati in maniera abbastanza stupida, speriamo di poter tirare via i sassi che abbiamo trovato per strada… avere in Italia banche interregionali, che per storia sono le Popolari, è un elemento impor­tante».

Più importanti sono gli interessi che, non senza qualche ragione, temono che le fusioni portino a perdere, o a dover condividere con altri, i vantaggi di cui essi godono. A Milano sono i sindacati che con i pullman portano a votare migliaia di azioni­sti, e che agli sportelli raccolgono migliaia di dele­ghe in bianco dai clienti; a Verona sono i gruppi di potere che hanno rapporti molto stretti con la banca. L’era Mazzotta si chiude dunque nella ge­nerale ostilità dei sindacati, che non perdonano al Presidente questo progetto di fusione.

Alla successiva assemblea del 2009 di BPM arri­va prima la lista che porta come presidente Massimo Ponzellini; io entro nel CdA nella lista di mi­noranza di Roberto Mazzotta, unico consigliere espresso dai fondi.

Nel settembre del 2010 ha inizio una verifica ispettiva della Banca d’Italia, che si conclude il 4 marzo 2011. A giugno vengono consegnati solen­nemente ai consiglieri, uno per uno, i rilievi su quanto riscontrato. Contengono, oltre a numero­si punti relativi a specifici fatti gestionali, anche raccomandazioni di tipo societario: procedere ad un aumento di capitale; portare da tre a cinque il numero delle deleghe che ogni azionista può rac­cogliere.

Per rispondere alla prima, il Presidente propo­ne un aumento di 600 milioni; la maggioranza del Consiglio respinge la proposta e il consigliere Francesco Bianchi rassegna le dimissioni. Invece la proposta relativa all’aumento delle deleghe è fatta propria dal Consiglio, che decide di portarla all’assemblea straordinaria.

L’associazione «Amici di BPM», che raduna i so­ci dipendenti e che ha designato e nominato la maggioranza del Consiglio di Amministrazione, scrive una lettera ai suoi associati, invitandoli a re­spingere in assemblea la proposta. Io rendo noto che, ove l’assemblea dovesse rispingere la propo­sta, mi sarei dimesso, invitando tutto il CdA a fare altrettanto. Ne avevo una ragione speciale, essendo stato eletto dai fondi, e ritenendo che questa proposta fosse nell’interesse prima di tutto della banca e quindi dei suoi azionisti; ma anche che un CdA che vedesse la propria proposta bocciata dall’assemblea, debba trarne le conclusioni.

Le associazioni basano il loro potere sulla loro capacità di organizzare i soci e di portarli in as­semblea: i famosi pullman.

Aumentare il numero delle deleghe facilita la formazione di chi vuole organizzare un’opposizione. È evidente tuttavia che il meccanismo è indiretto e debole, ben lonta­no dalla chiarezza del sistema «un’azione un vo­to». Presenta anche delle controindicazioni: le as­sociazioni dei dipendenti hanno anche la posizio­ne di vantaggio di poter raccogliere le deleghe al­lo sportello, meccanismo che potrebbe perfino in­durre a operazioni truffaldine, tipo stampare dele­ghe false. Il fatto che le associazioni da un lato si schierassero così decisamente contro la proposta, dall’altra accettassero la proposta di un aumento di capitale di 1.200 milioni, la dice lunga su quan­to esse siano sensibili su questioni attinenti alla go­vernance della Banca. I sindacati non indietreggia­no di fronte alla proposta di un aumento di capita­le che richiede ai soci di versare 324 milioni, in media 6.100 euro a testa, per non diluirsi (il mercato dovrà mettere gli 876 milioni, per arrivare al totale di 1.200 milioni). E invece respingono una proposta della Banca d’Italia, e proprio mentre i giornali, anche in relazione ad alcun finanziamen­ti discussi, rilanciano la parola commissariamento come una possibilità concreta.

Il 73% del capitale della Banca è di proprietà di azionisti non soci, che non hanno diritto di vo­to; possono votare i 53.000 soci, persone fisiche o giuridiche, che possiedono il 27% del capitale. Ma a controllare il voto in assemblea sono meno di 8.700 soci, con il 4% del capitale, organizzati nell’Associazione Amici. Una leva che fa impalli­dire quella delle piramidi con cui il nostro capita­lismo con poco capitale esercita il controllo. An­che qui si verificano conflitti di interessi. Ma con una fondamentale differenza: chi è al vertice di una piramide rischia l’azione di responsabilità dei soci, le sanzioni delle autorità di regolazione e giudiziarie; qui invece i vertici dell’Associazione Amici, che condizionano gli organi della Banca, non corrono nessun rischio, neppure di sanzio­ne. Non solo eleggono la maggioranza del Consi­glio, ma hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali.

Naturalmente non fu degnata neanche di una contestazione la proposta che feci nel preannuncio delle mie dimissioni: trasformare la Banca in società per azioni, e fare della cooperativa il socio di riferi­mento. Un’autentica cooperativa, a cui i soci posso­no apportare le proprie azioni, che distribuisce al proprio interno gli utili secondo i principi coopera­tivi. Questa cooperativa assumerebbe il ruolo di so­cio di riferimento, ancoraggio della stabilità pro­prietaria. Per questo, basta molto meno del 27% del capitale cui si arriverebbe se tutti i 53.000 soci ade­rissero: anche con meno del 10% le fondazioni ban­carie sono determinanti per gli assetti del sistema.

Era anche chiaro che i poteri della Vigilanza di Banca d’Italia erano inadeguati a una trasforma­zione così radicale: viste le opposizioni che si sono manifestate contro il decreto del governo, anche coloro che allora avevano sperato in un intervento più incisivo dell’Istituto devono oggi riconoscere che provare ad andare oltre avrebbe potuto attira­re critiche non ingiustificate. L’aumento delle de­leghe è uno strumento del tutto inadeguato, ma è anche vero che commissariare la banca per cam­biarne la governance, sarebbe stato del tutto impro­prio e ingiustamente dannoso per la banca.

A cambiare la governance di provò anche Andrea Bonomi, che uscì vincitore dalla battaglia con Matteo Arpe all’assemblea del novembre 2011. Ebbe successo nel migliorare la gestione, ma quanto a ri­solvere il problema di fondo, anche lui fu sconfitto: l’assemblea del dicembre 2013 elesse a Presidente Piero Giarda.

Più chiaro di così non si può. Il problema delle popolari non è risolvibile per linee interne: ci vuole una legge.

Fiat lex

Che il problema potesse essere risolto solo con un intervento legislativo l’aveva già detto Draghi, da governatore della Banca d’Italia nelle sue consi­derazioni finali del 31 maggio 2011:
Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministra­tori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in as­semblea anche mediante deleghe. Come ho già osser­vato in passato, un intervento legislativo è necessario. La sconfitta dei privilegi con la riforma delle Popolari e modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive.

Ma il Governo non si mosse: e c’è da ritenere che avrebbe continuato a fare orecchie da mercante se non fosse intervenuta la BCE. Con l’entrata in vigore della Banking Union, con la presa in carica della vigilanza sul sistema bancario da parte del Single Supervisory Mechanism (il 4 novembre 2014), con l’esito degli stress test, è partito un pro­cesso che ha messo il Governo in condizione, o forse persino nella necessità, di procedere per legge alla riforma delle popolari.

Parte proprio di lì, dalla rivendicazione delle ripetute richieste della Banca d’Italia, la testimo­nianza che il suo Direttore generale Salvatore Rossi rende alle Commissioni riunite Finanza e Attività Produttive della Camera dei Deputati, il 12 febbraio 2015. Nel suo intervento egli tratta prima gli aspetti generali del tema: effetti positivi attesi, effetti negativi
temuti e analisi della loro fondatezza; e poi gli aspetti tecnici del provvedi­mento.

Effetti positivi

L’obbiettivo che ci si attende dalla riforma è di mettere in condizione le maggiori banche popola­ri «di aumentare il loro capitale nella misura e so­prattutto con la rapidità» che le circostanze po­trebbero richiedere, accedendo senza ostacoli o ri­tardi al mercato dei capitali. Questo è l’obbiettivo prioritario: ottenere che le banche «siano costantemente dotate» di un cuscinetto per assorbire per­dite potenziali, cuscinetto che la crisi ha dimostra­to dover essere di dimensioni maggiori di quello che si pensava. Dove le parole chiave sono «costan­temente» e «potenziali»: cioè essere sempre pronti ad affrontare quello che potrebbe accadere.

L’esperienza della crisi ha portato l’Europa a darsi nuove norme di regolazione. Il Sistema di vi­gilanza comune entrato in funzione nell’area del­l’euro «pone al suo centro il tema del capitale» quale è messo in evidenza dall’esercizio del comprehensive assessment svoltosi nel 2014. Se le circostanze imponessero a più banche di ricapitalizzarsi contemporaneamente, bisogna evitare che alcune banche abbiano svantaggi competitivi nell’adire a un mercato sempre più concorrenziale e selettivo.

«La forma giuridica cooperativa è uno svantag­gio competitivo»: Rossi è lapidario nell’affermar­lo. Se il capitale richiesto è ingente, e deve essere reperito con urgenza, il voto capitario e i limiti al possesso azionario rendono l’investimento poco attraente a investitori istituzionali che vogliono tutelare il loro investimento e per questo voglio­no contare nelle scelte gestionali.

Bisogna poi ricordare che, anche se l’Italia è in ritardo nel recepirla, esiste una normativa europea per il risanamento e la risoluzione delle crisi ban­carie. In base ad essa, se non si risponde prontamente alla richiesta di aumentare il capitale, può scattare il meccanismo di «risoluzione»: il bail-in di azionisti e creditori diversi dai depositanti che ven­gono chiamati a ricapitalizzare, condizione perché il sostegno dello Stato, sia pure come extrema ratio, non sia considerato aiuto di stato.

A settembre 2014 la situazione, quanto a patri­monio di miglior qualità era la seguente: banche popolari maggiori 10,6%; le altre sei banche ita­liane «significative» 11,7%; altre banche europee, e già un anno prima, 12,1%. Non solo ma quel 10,6% è stato raggiunto in extremis, grazie alle mi­sure di rafforzamento «faticosamente prese nel 2013 e 2014 dietro insistenza della Banca d’Ita­lia». Siccome i dati che sono stati resi pubblici ri­guardavano la situazione a fine 2013, la percezio­ne in Europa è che le maggiori banche popolari italiane siano state rimandate, causando così un danno reputazionale non solo a se stesse ma al­l’intero sistema italiano.

«Il patrimonio va commisurato ai rischi». La crisi ha lasciato i segni nelle dieci maggiori ban­che popolari: il 18,7 % di partite deteriorate, due punti sopra la media; 12% di copertura con ac­cantonamenti in bilancio, dieci punti meno della media; 2% di ROE (ritorno su capitale e riserve) inferiore a quello già basso del sistema.

Spiega il Direttore Generale di Banca d’Italia:
Rispetto alla tradizionale impresa capitalistica incor­porata in una società per azioni, il modello cooperati­vo espone, nelle moderne economie avanzate, a ten­sioni fra l’originario spirito di mutuo servizio e l’esi­genza, soprattutto se l’azienda ha raggiunto dimen­sioni cospicue, di stare su mercato in un contesto con­correnziale, a ciò orientando la gestione aziendale.

Questo è il dato strutturale, questa è la ragione del mutamento di forma societaria. Bisogna evita­re i conflitti di interesse tra soci e amministratori, che introducono elementi di opacità, quando non si configurano come esplicita ingerenza nel­le scelte gestionali. Nella recessione e nella crisi del debito sovrano, Bankitalia è dovuta interveni­re per sanare situazioni di gravi difficoltà: «L’ege­monia prolungata e incontrollata di una singola figura o di un gruppo di potere espressione di una minoranza», hanno acuito tali difficoltà.

Tale è la tipica situazione delle banche popola­ri, dove alle assemblee partecipa poco più di un socio su dieci (media 2014), dove migliaia di per­sone devono essere mobilitate come se fosse «una vera e propria campagna elettorale, con ovvi ri­schi di clientelismo». E in futuro sarà sempre peg­gio, perché gli standard organizzativi e di gover­nance che la vigilanza europea richiederà, saran­no sempre più stringenti nei prossimi anni.

Effetti negativi temuti

Banche cooperative esistono in tutta Europa, in molti paesi rappresentano il 30% dei prestiti, in Germania il 20%, soprattutto verso le piccole e medie imprese. Però il modello complessivo è di­verso: a banche simili alle nostre BCC si aggiungo­no associazioni, banche regionali e istituti centra­li che operano su larga scala.

Da noi invece oltre alle BCC ci sono le banche popolari, e anche queste formano due gruppi di­stinti sia per caratteristiche dimensionali, sia per quelle dell’attività svolta. Le minori, radicate nel loro territorio di origine, nelle quali è ancora for­te il rapporto con la realtà locale; le maggiori, for­mate per aggregazione di varie banche, di norma quotate in Borsa, che operano su scala nazionale, e dove «il legame cooperativo tende a diventare più debole, fino a scomparire».

Le BCC sono simili al modello europeo, e la nor­ma italiana mette vincoli alla loro espansione terri­toriale; ma non hanno le strutture in rete centraliz­zate e integrate delle simili estere. Le popolari an­corché nate nel XIX secolo a imitazione dei model­li d’Oltralpe, non sono paragonabili con le forme di credito cooperativo europeo, e hanno perso molto dello spirito cooperativo originario.

Non sono più «banche del territorio». Con questa locuzione si intendono banche che raccol­gono risparmio ed erogano credito in un territo­rio circoscritto, rappresentando una quota im­portante dei prestiti erogati in quel territorio: è un legame reciproco, basato sulla fiducia da un lato e sulla conoscenza dall’altro. La dimensione del fenomeno è rilevante, 300 banche del territo­rio che rappresentano il 4% in termini di attivo e il 6% in termini di prestiti alle imprese.

Ma non è questo il modello delle 10 maggiori popolari italiane, che in media hanno sportelli in 60 province, una diffusione sul territorio nazionale pari a quella delle prime 3 grandi banche, il cui rag­gio d’azione è di 70 province. Il relationship lending può presentare aspetti favorevoli, perché riduce il costo dell’informazione sul cliente, e quindi il ri­schio.

Naturalmente se anche i clienti hanno la stes­sa caratteristica, cioè se anche le loro sono «imprese del territorio». E i risultati si sono visti durante la crisi globale, dove la bassa esposizione alla volatilità della raccolta all’ingrosso e il minore ricorso a stru­menti finanziari sofisticati hanno protetto le ban­che, e dove il disporre di più informazioni ha attuti­to le conseguenze del credit crunch che invece ha ca­ratterizzato le banche di dimensione maggiore. Questo è il lato positivo: quello negativo è la minore diversificazione dell’attivo, che le rende intrinseca­mente fragili, e incapaci di dare risposta alla richiesta di ammortizzatori economici. «Il territorio è un cliente molto esigente in tempi difficili e raramente restituisce quello che ha ricevuto nei tempi buoni».

C’è poi, al solito, la paura del taglio dei posti di lavoro. Nel settore bancario nei 5 anni dal 2007 al 2013 l’occupazione si è ridotta del 10%, 30.000 persone su 300.000: la tecnologia cambia il modo con cui si usa la banca, a questo conducono le eco­nomie di scala, che sono la ragione per integrarsi. Potersi fondere è proprio una delle ragioni per cui si fa la riforma della governance. Rossi non lo dice, la riforma non lo incentiva, ma oltre a ciò c’è an­che, in prospettiva, il maggior ricorso delle impre­se a canali di finanziamento non bancari.

Rossi si limita a osservare che le aggregazioni, e le riduzioni di organici che esse necessariamen­te comportano, non sono un fine, ma un mezzo per avere banche più solide e più stabili.

L’esperienza di questi ultimi difficili anni hanno mo­strato chiaramente come la prima e più seria minac­cia ai livelli occupazionali nel settore bancario non derivi tanto dalle azioni per aumentare la produttività e contenere i costi digestione di una banca, quanto dalla mancanza di tali azioni, che finisce per porre quella banca in una condizione di crisi.

Cosa, aggiungiamo noi, che ben si può dire non solo del sistema bancario ma del sistema indu­striale nel suo complesso.

Alcuni interrogativi tecnici sulla riforma

«La soglia degli 8 miliardi è fissata su base consoli­data per i gruppi bancari ed è calcolata rispetto al totale dell’attivo». Una norma chiara e oggettiva, che si ispira a due criteri: rispondere al principio di neutralità rispetto all’articolazione dell’impresa; porsi in linea con i più recenti indirizzi della rego­lamentazione, che considera questo l’indicatore in grado di ricomprendere la complessità dell’inter­mediario e la sua rilevanza rispetto al sistema.

Un numero non scelto a caso ma che risulta dalla tassonomia delle 37 banche popolari italia­ne, che presenta una distinzione netta tra le pri­me 10, con attivi a doppia cifra, e le restanti 27. Il gruppo delle 10 comprende le 7 soggette alla vigi­lanza europea e tutte le quotate.

Le banche avranno 18 mesi di tempo dall’ema­nazione delle disposizioni attuative per trasformar­si in società per azioni, o ritornare al di sotto della soglia. La scelta spetta all’assemblea, e la legge fissa i quorum costitutivi e deliberativi. In mancanza di questo interverrà la Banca d’Italia. La norma è ri­spettosa del principio di proporzionalità rispetto agli obbiettivi di tutela del risparmio e di stabilità del sistema finanziario. Per le banche sotto la soglia la legge salvaguarda i tratti essenziali del modello cooperativo, voto capitario, limiti al possesso azionario, clausola di gradimento ai nuovi soci.

Però cerca comunque di favorire l’efficienza e l’accesso al mercato dei capitali. Così le banche potranno emettere strumenti finanziari partecipativi, che possono anche conferire diritti rafforzati, ad esem­pio la nomina di una parte degli amministratori. Si conferma che la maggioranza degli amministratori debba essere scelta tra soci cooperatori, e si innalza il limite delle deleghe da 10 a 20, per favorire un coinvolgimento più ampio possibile della base so­ciale. Misura sull’efficacia della quale il sottoscritto si permette di esprimere qualche dubbio.

Nel corso del dibattito si sono avanzate varie ipo­tesi emendative: mantenere il voto capitario limi­tandosi a dare agli investitori istituzionali una rap­presentanza negli organi societari proporzionale al numero di azioni possedute; cosa però che non ga­rantisce l’obbiettivo vero della riforma, mettere le maggiori banche popolari in condizione di accede­re al mercato dei capitali. Le proposte emendative si dispongono su tre linee: limiti al possesso aziona­rio, limiti al diritto di voto, maggiorazione per chi è socio da lungo tempo al momento dell’entrata in vigore della legge. Le prime due sono chiaramente contrarie alla finalità stessa della riforma. La terza, le cosiddette loyalty shares, sono già consentite alle società per azioni, ma entro limiti che non compro­mettono la contendibilità delle aziende, che in questo caso è invece il (neppur tanto) segreto ob­biettivo di chi le propone. In ogni modo queste norme dovrebbero essere derogabili facilmente e rapidamente in caso di necessità, essere volte solo a facilitare la transizione, l’obbiettivo essendo sem­pre quello di ripristinare «la piena proporzionalità tra proprietà e controllo, uno dei principali vantag­gi della società per azioni». La conclusione del Di­rettore Generale di Bankitalia è perentoria:

Poter adeguare, al bisogno, il capitale in modo cospi­cuo e rapido è oggi per una banca prerequisito fonda­mentale per la stessa sopravvivenza. Può essere necessa­rio farlo accedendo tempestivamente al mercato dei ca­pitali, nel qual caso non bisogna avere vincoli impropri. Per intermediari della dimensione e della complessità delle 19 maggiori popolari italiane la forma societaria cooperativa è un handicap che va rimosso al più presto.

Nel suo intervento Rossi non ha voluto neppure accennare all’opacità che può caratterizzare i rap­porti di vicinanza. Inutile innestare elementi di dif­ficile prova e di facile appiglio per la contestazio­ne, in un ragionamento tutto positivo: ma noi sap­piamo che queste cose esistono, e non solo in Ita­lia. E quindi chiuderemo con le sue parole: «L’ap­provazione della norma è auspicabile, quindi, non perché lo impongano i regolatori o i mercati inter­nazionali: perché lo suggerisce il buon senso».

Un paragone citato a vanvera

Banche popolari sono presenti in molti Paesi d’Europa, e sovente ad esse, in particolare a quel­le tedesche, si fa riferimento parlando di quelle italiane. C’è in effetti una certa somiglianza negli obbiettivi, nel tipo di clientela e di rapporto con essa. Invece, dal punto di vista della governance, cioè proprio quella a cui più sovente si fa riferi­mento, le differenze sono macroscopiche e il pa­ragone del tutto fuori luogo. Oltretutto non sa­rebbe un modello da prendere ad esempio, dato che le Landesbanken sono oggetto di giustificate critiche per i loro risultati economici e per la soli­dità dei loro asset patrimoniali. Per questo è utile investigarlo e chiarire un equivoco che ricorre ri­petutamente nel discorso pubblico. Lo si fa sulla base di un accurato e completo saggio di Giovan­ni Boggero, da cui è ampiamente tratto quanto segue, e che qui cordialmente si ringrazia.

Il sistema bancario tedesco è storicamente in­cardinato su tre pilastri fondamentali: privato, pubblico e cooperativo. Tale segmentazione isti­tuzionale è riflessa in un panorama competitivo che si snoda per gruppi separati e che impedisce ancora oggi le aggregazioni tra banche pubbliche e banche private. Di fatto, però, sin dagli anni Ot­tanta, banche private e banche pubbliche concor­rono tra loro, a fronte di un core business ormai praticamente indifferenziato. A dispetto degli isti­tuti privati, quelli di natura pubblicistica e coope­rativa non hanno come scopo principale la massi­mizzazione del prodotto e la distribuzione di utili agli azionisti, bensì finalità sociali quali l’eroga­zione di credito a condizioni agevolate per ampie fasce della popolazione, nonché l’assistenza cre­ditizia alle istituzioni territoriali. Il settore pubbli­co ha una quota di mercato pari a circa il 40% del totale in termini e sostanzialmente coincide con il settore delle casse di risparmio.

Questo sistema si articola su tre livelli:
casse di risparmio propriamente dette (Spar­kassen);
banche regionali (Landesbanken);
federale (Dekabank).

All’interno del sistema bancario pubblico va an­noverato anche il xFV (Kreditanstalt fair Wiederauf­bau) istituto di finanziamento per la ricostruzione e lo sviluppo fondato nel 1948, del tutto affine al­la nostra Cassa depositi e prestiti. Partecipato da Bund (80%) e Länder (20%), esso si occupa di coordinare gli interventi nel settore pubblico nonché di approntare strumenti di garanzia e prestiti per le PMI.

Casse di risparmio

Sono enti autonomi di diritto pubblico dal 1931. Alle casse non può essere concesso capitale da parte degli enti territoriali cui fanno capo(comu­ni, distretti governativi e distretti rurali), giacché la loro capitalizzazione deriva esclusivamente da­gli utili maturati, che di norma non possono esse­re distribuiti. Sono banche universali, capaci cioè di eseguire qualsiasi operazione bancaria, purché rientrante tra quelle di interesse generale, indica­te dalle diverse leggi regionali che disciplinano il settore. Di regola sono infatti escluse le attività speculative, quali la compravendita di azioni. Svi­luppatesi tra la fine del Settecento e l’inizio del­l’Ottocento con lo scopo di garantire il risparmio degli strati meno facoltosi della popolazione, esse fungono anche da forziere a uso e consumo dei comuni (Hausbank), i quali ne redigono lo statu­to e attraverso il consiglio di sorveglianza control­lano il consiglio di amministrazione; secondo gli intenti originari esse avrebbero infine dovuto fungere da argine a una concentrazione bancaria troppo elevata, quale sarebbe derivata dal libero gioco della concorrenza.

A guidare le Sparkassen è infatti il cosiddetto Regionalprinzip, che sottrae alla competizione gli istituti facenti capo a enti territoriali diversi e fa in modo che i clienti di ciascuna cassa siano in mas­sima parte i residenti della zona stessa in cui essa opera. Fino al 1968 le casse di risparmio hanno inoltre beneficiato di ampi favori fiscali, abrogati poi a seguito delle furiose proteste degli istituti privati. Al 31 dicembre 2008 in Germania figura­vano ancora 432 casse di risparmio, in continua diminuzione rispetto all’esorbitante numero ori­ginario, dovuto a un problema di eccesso di capa­cità (overbanking) davvero cronico per il sistema bancario tedesco. Le fusioni hanno a poco a poco alleggerito la frammentarietà del panorama nel corso degli anni. A livello regionale le casse di ri­sparmio sono riunite in associazioni (enti di dirit­to pubblico), che ne rappresentano gli interessi e ne coordinano le attività.

Banche regionali

Sono anch’esse enti di diritto pubblico dal 1931 ed esercitano tutte quelle funzioni che, in parte per motivi legati a divieti legislativi, in altra parte per ragioni di economicità, non possono essere esercitate dalle Sparkassen. In linea di principio, mentre le casse di risparmio sono attive nel retail banking e nel private banking per il sistema delle imprese medio-piccole locali (il cosiddetto Mittel­stand), le banche regionali si occupano di soste­nere imprese di dimensioni medio-grandi, svol­gendo un’attività identica a quella delle banche commerciali, nonché i Länder nell’adempimento dei propri scopi di politica industriale. A questo proposito alcuni economisti, anche sulla scorta dell’esempio proveniente da altri paesi, si dicono scettici sulla reale necessità che un tale compito sia svolto da banche pubbliche, tanto più che le banche private sono già attive in questo campo e avrebbero quindi un’adeguata esperienza. L’atti­vità di natura privatistica è comunque ormai di gran lunga più ampia di quella pubblicistica. In Baviera la funzione di Hausbank regionale non è peraltro mai stata svolta dalla BayernLB ma dal Landesanstalt fair Wiederaufbau.

A favore delle casse di risparmio le banche re­gionali svolgono inoltre il compito di bancogiro (Girozentrale), provvedendo alla compensazione di pagamenti e incassi, amministrandone la liqui­dità e se del caso rifinanziandole attraverso l’e – missione di obbligazioni. Il loro ambito di opera­tività non è circoscritto ope legis , tanto che alcune di esse sono diventate nel corso degli anni importanti istituti commerciali su scala globale. A diffe­renza delle casse di risparmio, esse sono munite di un capitale di dotazione e quindi sono diretta­mente partecipate dal Land di riferimento, non­ché dalle diverse associazioni regionali delle Spar­kassen. Si dà peraltro il caso di partecipazioni in­crociate tra Landesbanken.

Ad eccezione di HSH Nordbank AG e di WestLB AG (diventate società per azioni rispettivamente nel 2002 e nel 2003) le altre sette banche regiona­li oggi esistenti (BayernLB, LBBW, Landesbank Ber-lin, Helaba, NorddeutscheLB, SaarLB, Bremer LB) sono enti di diritto pubblico. Come per le cas­se di risparmio, anche per le Landesbanken i pro­cessi di fusione sono stati assai numerosi negli ul­timi anni. L’organismo federale di vertice di cui sono membri tanto le casse di risparmio quanto le banche regionali è il DSGV (Deutsche Sparkassen und Giroverband), la cui mission è quella di rappre­sentare gli interessi degli istituti pubblici presso il Governo e le autorità di vigilanza.

Dekabank Deutsche Girozentrale

È il principale centro di investimento finanziario delle casse di risparmio tedesche, ne gestisce i fondi comuni e svolge le funzioni di compensa­zione (clearing) dei pagamenti tra istituti. Attivo nell’asset management sui mercati immobiliari e finanziari, nel mercato dei capitali e nel corporate banking, ha filiali in tutto il mondo.

Le garanzie: situazione fino al 2001

A tutti gli enti summenzionati, fino al 2001, ovve­ro fino a che non è intervenuta l’inchiesta della Commissione Europea, sono stati applicati istituti di favore volti alla protezione del consumatore (rectius veri e propri privilegi) quali l’Anstaltslast e la Gewährträgerhaftung. Il KFW, non interessato dal­la vicenda svoltasi in sede europea, continua a go­derne a tutt’oggi.

L’Anstaltslast è il principio consuetudinario, se­condo il quale ciascun ente di diritto pubblico de­ve essere sempre messo nella condizione di esple­tare la sua missione, attraverso la predisposizione di una base economica adeguata. Di qui, la re­sponsabilità degli enti territoriali (comuni o di­stretti per le Sparkassen, Länder per le Landesban­ken) per le eventuali perdite, nonché l’inassogget­tabilità degli istituti garantiti alla disciplina del fallimento. Si tratta, cioè, di una garanzia nei rap­porti interni (Innenverhältnis).

La Gewährträgerhaftung è il principio normati­vo del tutto complementare all’Anstaltslast, in ba­se al quale delle obbligazioni assunte dalle banche pubbliche è responsabile illimitatamente l’ente territoriale di riferimento (il cosiddetto Ge­währträger). Si tratta di un ulteriore scudo nei rap­porti esterni (Außenverhältnis) contro il rischio di illiquidità e di insolvenza dell’ente. Nella prassi, l’intervento ai sensi del primo ha sempre scongiu­rato l’esperimento del secondo.

Si ricordi ad esempio il celebre caso della Hes­sische Landesbank (anche noto come He-laba Skandal), entrata in crisi all’inizio degli anni Set­tanta a causa di investimenti a dir poco avventati nel settore immobiliare, e tuttavia approvati an­che dal presidente della regione del Land nonché presidente del consiglio di sorveglianza Albert Osswald, poi costretto alle dimissioni. Ebbene, al fine di evitare la bancarotta, il governo dell’Assia dovette provvedere, tra il 1974 e il 1976, a versare alla banca ben 2,6 miliardi di marchi dei contri­buenti.

È insomma agevole intuire come nel corso de­gli anni il combinato disposto di queste due ga­ranzie abbia palesemente falsato la concorrenza nel settore bancario, impedendo una corretta al­locazione del capitale. Tali guarentigie hanno in­fatti assicurato agli istituti in questione un grado di solidità e solvibilità fuori dalla norma, incenti­vando i terzi a intrattenere rapporti con essi piuttosto che con altri istituti privati. Ciò ha peraltro comportato una vera e propria narcotizzazione dei meccanismi di rating, sempre a tutto svantag­gio dei concorrenti privati. Alle Landesbanken, in­fatti, è stato a lungo corrisposto un livello di ra­ting molto elevato, sostanzialmente in linea con quello della Repubblica federale (AAA): in ragio ne del salvagente pubblico, il rischio del­l’emittente connesso al rapporto obbligazionario si è infatti sempre mantenuto molto basso. Non stupisce più di tanto, dunque, se nel 1995 le tre agenzie di rating più celebri (Standard&Poor’s, Moody e IBCA) accordavano la tripla A soltanto a otto banche, cinque delle quali tedesche e quat­tro delle quali pubbliche (BayernLB, SúdwestLB, Helaba, LBBW).

Tutto ciò ha comportato oneri di rifinanzia­mento sul mercato molto contenuti, data la ten­denza dei grandi investitori a cercare sicurezza proprio in tali botti di ferro custodite dall’occhio vigile dello Stato. Le banche regionali, a loro vol­ta, hanno potuto prestare denaro a tassi conside­revolmente più bassi di quelli di mercato e dietro minori assicurazioni, nonché intraprendere ope­razioni finanziarie molto spericolate (in partico­lare nel settore dei derivati), il cui rischio è sempre stato sostenuto dai contribuenti tedeschi. Il tutto senza contare l’enorme influsso esercitato dalla politica nell’assumere le decisioni. Il caso macroscopicamente più lampante della distorsio­ne a fini politici dell’attività bancaria pubblica ri­sale al 2001 e in particolare allo scandalo della Berliner Bankgesellschaft. La banca, in mano al go­verno democristiano locale, aveva infatti celato at­traverso falsificazioni del bilancio una politica di credito assai disinvolta e clientelare, la quale ave­va alimentato la corruzione e prodotto una vora­gine nei conti dell’istituto. La nuova maggioranza di sinistra fu così costretta a farsi carico del disse­sto per circa 21 miliardi di euro, una cifra valuta­ta poi del tutto sproporzionata dalla Commissio­ne, che la definì «un assegno in bianco a copertu­ra delle perdite future».

Garanzie pubbliche: vertenza UE-Germania

Che un simile impianto normativo fosse difficil­mente conciliabile con il mercato comune, con le norme sulla libera concorrenza e con gli aiuti di Stato lecitamente erogabili era da tempo sin trop­po chiaro. La violazione macroscopica dei Trattati da parte della Germania è però diventata vieppiù palmare, allorché, a seguito dell’approvazione della direttiva comunitaria sul capitale proprio che se­guì agli accordi di Basilea del 1988, le banche tede­sche furono costrette ad operare aumenti di capi­tale per soddisfare i criteri inerenti al cosiddetto coefficiente di solvibilità. Quelle private lo fecero attraverso l’emissione di nuove azioni, quelle pub­bliche (facenti capo alla Bassa Sassonia, al Land di Berlino, allo Schleswig-Holstein, al Nord-Reno We­stfalia, alla Baviera e al Land di Amburgo) attraver­so il trasferimento per incorporazione di alcuni en­ti sottoposti al controllo regionale.

La vicenda ebbe inizio nel 1993 con un espo­sto dell’associazione federale delle banche tede­sche contro WestLB. Quando nel 1997 la Commis­sione manifestò l’intenzione di aprire un’inchie­sta formale, l’associazione delle banche pubbli­che insieme con quella delle casse di risparmio minacciò addirittura di far saltare gli accordi sul­l’Unione Monetaria, pur di non perdere i loro privilegi. Con l’impegno del cancelliere Helmut Kohl si arrivò al compromesso della dichiarazio­ne di Amsterdam, allegata al trattato, a cui però si diede valore indicativo e non vincolante. Nel 1999 la Commissione condannò WestLB a pagare la differenza tra gli interessi pagati e quelli che avrebbe dovuto pagare un investitore privato.

So­lo nel 2004 la commissione licenziò analoghe pronunce contro sei istituti di credito regionali, rei di avere incorporato asset facenti capo al Land di riferimento a tassi inferiori rispetto a quelli concorrenziali.

Nel maggio del 2001, Mario Monti firmò lo sto­rico accordo che evitò alla Germania l’avvio della procedura formale di infrazione. La Gewdhrtrdger­haftung sarebbe stata abrogata, mentre l’Anstal­tslast avrebbe d’ora innanzi dovuto soggiacere ai principi di mercato: il proprietario della cassa di risparmio o della banca pubblica regionale sareb­be cioè stato d’ora in poi responsabile limitata­mente al capitale sociale previsto dallo statuto. Non è quindi stato vietato il supporto finanziario da parte dei governi, ma è stata sancita l’abolizio­ne della responsabilità illimitata a carico degli en­ti territoriali e l’assoggettamento delle banche al­la disciplina tedesca sul fallimento. Il compromes­so dispose anche l’inizio di un periodo di transi­zione entro il quale Anstaltslast e Gewdhrtrdgerhaf­tung sarebbero state mantenute, funzionale a un passaggio graduale dal vecchio al nuovo regime.

La fase più delicata della vertenza fu comun­que quella relativa all’implementazione della normativa a livello federale e regionale. E questo perché con il venir meno delle garanzie pubbli­che (la cui entità come aiuto di Stato è stata calco­lata nell’ordine dei 1000 milioni di euro l’an­no), le casse di risparmio e le banche regionali pubbliche avrebbero dovuto far fronte a maggiori costi di rifinanziamento come conse­guenza dell’abbassamento del rating. Di qui il ti­more diffuso che, a seguito di un rapido iter di privatizzazione delle banche pubbliche regionali cagionato da gravi problemi di liquidità, il siste­ma bancario tedesco dei tre pilastri potesse in breve tempo implodere. In realtà le cose so­no andate assai diversamente. Innanzitutto, ben­ché fosse stato da più parti ipotizzato un drastico ridimensionamento delle valutazioni sulla solidi­tà delle banche regionali, nulla di ciò si è verifica­to nella prassi. Il rating è rimasto sostanzialmente stabile fino alla fine del 2006 e questo per quattro ordini di ragioni: in primo luogo perché le garan­zie degli enti territoriali rimangono valide per tut­te le obbligazioni assunte entro il 2005, ma con scadenza anteriore al 2015; in secondo luogo per­ché de facto la proprietà statale degli istituti ha continuato a esercitare una sorta di garanzia im­plicita sulle attività bancarie; in terzo luogo per­ché l’ampliamento nel 2003 del fondo istituziona­le di garanzia (Haftungsverbund) realizzato con mezzi finanziari pubblici in cooperazione con la federazione delle casse di risparmio ha notevol­mente contribuito a mantenere basso il rischio; in ultimo, in ragione delle pressioni esercitate da Berlino sui vertici delle agenzie di rating.

Seguirono significative ristrutturazioni, e opera­zioni di maquillage, tutte le banche operarono cor­posi aumenti di capitale, attraverso i quali si è ve­nuta a rafforzare la componente di controllo del­le casse di risparmio. Ma la crisi finanziaria, già a partire dall’estate del 2007, ha scoperchiato real­tà fino a poco tempo prima sottovalutate. Nono­stante la supervisione politica nei rispettivi consi­gli di sorveglianza, le banche pubbliche tedesche hanno concentrato i propri affari su investimenti ad alto rischio e questo non si è verificato, come spesso si ripete sia sui media tedeschi sia su quelli italiani, a causa del venir meno delle garanzie pubbliche e alle conseguenti difficoltà legate ai costi di rifinanziamento. Le Landesbanken erano impegnate in questo genere di attività anche mol­to prima che la Commissione europea intervenis­se e precisamente sin dagli anni Settanta-Ottanta. Nel 1996 WestLB, definita dal settimanale Der Spie-gel come la «cassa rossa dei compagni» in ragione delle sospette contaminazioni tra attività istituzio­nali e propaganda per il partito socialdemocrati­co, acquistò la banca di investimenti Panmure uscendone in tutta fretta nel 2003 per le perdite da capogiro fatte registrare da un management cer­tamente inetto e arruffone, ma comunque spalleggiato dai quadri politici locali. Questo per dire che «il fatto che le banche di stato sono colpite così fortemente dalla crisi dei sub-prime non è un caso, è un fatto sistemico» (Hans Werner Sinn). E infatti, come ricorda anche Wolf gang Reuter su Der Spiegel:

Perfettamente coscienti di questa rete di salvataggio, i dirigenti specularono con i soldi delle loro banche, la BayernLB con azioni a Singapore, la Berliner Bankgesell – schaft con l’immobiliare, la WestLB con holding in compagnie inglesi.

Tutt’alpiù l’abolizione delle garanzie avrebbe do­vuto produrre l’effetto opposto, riducendo sensi­bilmente il moral hazard. In realtà, la permanenza di una garanzia implicita legata alla proprietà pubblica delle banche regionali non ha fatto altro che protrarre e consolidare tale status quo. In par­ticolare, come ha sottolineato Hans-Joachim Dú‑
bel sulle colonne del quotidiano Tagesspiegel sono state le pressioni lobbistiche dell’allora Ministro delle Finanze del Nord-Reno Westfalia Peer Stein­brúck a far sì che fino al 2005 le banche potessero emettere obbligazioni garantite, la più parte delle quali finirono proprio negli Stati Uniti. Nulla da stupirsi, dunque, se a causa di investimenti speri­colati nei mutui ipotecari americani, IxB e Sachsen LB prima, WestLB, BayernLB e HSH Nord – bank siano state poco dopo le prime vittime tede­sche dell’odierna crisi finanziaria. A loro, nean­che a dirlo, in parte i Länder di riferimento, in parte il fondo istituito ad hoc dal gabinetto tede­sco nel novembre del 2008 hanno accordato ge­nerose garanzie che ne hanno scongiurato la ban­carotta, facendole così nuovamente precipitare in una situazione ante-accordo di Bruxelles. Chi og­gi si oppone pervicacemente a una privatizzazio­ne delle banche pubbliche regionali e a una loro separazione dal sistema delle casse di risparmio, continuando a preferire le ingenti iniezioni di de­naro pubblico che alla bisogna lo Stato azionista dispone, ricorda spesso come per risolvere il pro­blema sia in realtà necessario un maggiore e mi­gliore controllo su manager incompetenti. Ma il controllo non è un’entità astratta o metafisica. Tocca sempre a qualcuno in carne ed ossa con­trollare. Oggigiorno, nelle banche pubbliche ne sono incaricati proprio i politici, considerati mi­gliori custodi per una presunzione fatale e perni­ciosa. Invero, il problema principale risiede pro­prio nella lottizzazione politica dei consigli di sor­veglianza, come i più recenti accadimenti dimo­strano in maniera palmare. Se la soluzione doves­se passare da un ulteriore controllo dei politici da parte di altri politici, verrebbe solamente da chiedersi: quis custodiet ipsos custodes? In questo modo il circolo vizioso sarebbe destinato a non esaurirsi mai, mentre il conto arriverebbe inevitabilmente sempre ai contribuenti.

Confutatis maledictis…

Romano Prodi ha scelto il centro studi della CISL sulle colline di Fiesole, frequentate un tempo da Pierre Carniti e da Franco Marini, per criticare il decreto Renzi di riforma delle popolari. Lo ha fat­to, come è suo solito, approfittando dell’occasione per levarsi più di un sassolino dalle scarpe. Assimi­lando questa riforma alla rottamazione di una sto­ria importante, con chiaro riferimento alla scelta fatta da Renzi di fare eleggere Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, carica alla quale Prodi non aveva mai pensato, e che, se qualcuno l’avesse invece pensata, avrebbe con fermezza rifiutato. Le popolari, ha detto, «sono un esperimento interes­sante, unico, che ora si vuole chiudere in un atti­mo», lasciando in dubbio se l’accento sia sul «chiu­dere» o sull’«attimo». Tanto per non perder l’occa­sione di un altro sassolino, fa il paragone con le Landesbanken che sono più politicizzate che da noi, e stanno peggio. In questo avendo probabilmente ragione sui giudizi, ma non sul termine del parago­ne, come abbiamo visto. D’altra parte le banche so­no solo un pretesto, quello che gli interessa è pole­mizzare con la Cancelliera, e ricordare quello che, da Presidente della Commissione Europea, aveva cercato di fare con Kohl: «Sono l’economista più fi­lotedesco mai apparso in Italia, ma questa politica rovina l’Europa. O c’è un cambiamento radicale o tra qualche anno avremo una nuova Grecia».

Prodi dice anche: «Si discute da 25 anni, poi arriva la valanga. È un rischio che riguarda anche il sindacato e i corpi intermedi». Uno spunto inte­ressante, questo dei corpi intermedi, forse rivela­tore, che converrà riprendere.
«È stato un colpo al cuore a tutto il sistema del­le popolari», dice Gianni Zonin, presidente della popolare di Vicenza, la settima delle 10. Anche lui lamenta la fine di una storia: «È finito un mondo, cercheremo di far sì che 170 anni di storia del cre­dito cooperativo e popolare non vengano cancella­ti». Rivendica titoli di merito: «Questo mondo è stato fondamentale per la crescita delle aziende italiane e delle PMI in particolare, non ce lo merita­vamo». Riconosce gli errori: «C’è stata una colpe­vole inerzia da parte del mondo delle popolari». Accenna la difesa: «Avevamo già (sic!) allo studio un progetto di modifica dello statuto, che avrebbe portato a uno scorporo dell’attività bancaria pura, dove alla cooperativa sarebbero rimasti gli asset immobiliari, il patrimonio artistico e alcune parte­cipazioni, mentre un’altra società, per metà della cooperativa e per metà aperta al mercato, avrebbe gestito il business bancario». Cioè qualcosa di simi­le allo schema che avevo proposto per BPM, si sa quanto entusiasmo suscitando. Ha stima di Renzi, ma «stavolta non ha ascoltato la voce delle parti in­teressate, si sarebbe capito meglio che cosa valeva la pena di salvare e che cosa rottamare».

Nel Veneto, di popolari ce ne sono tre, Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Banco Popolare a Ve­rona, di tutte la maggiore. A leggere l’elenco dei soci illustri che redige Stefano Righi sul Corriere Economia, vi si trovano praticamente tutte le fami­glie industriali del Nord-Est geografico. Se si allar­ga il panorama a comprendere Bergamo e Bre­scia (Popolare Commercio e industria, short UBI) e la Popolare Emilia Romagna, con cui ha flirtato Roberto Mazzotta, si ha la mappa del Nord-Est economico.

Anche per loro, la trasformazione in SpA è «un colpo al cuore»? E perché mai? Buone azien­de oggi non hanno problemi a finanziarsi, ed è poco credibile che, nella «loro» banca trovassero condizioni più favorevoli. Non sembra che ci sia un premio al controllo che vada perso nella tra­sformazione forzosa. Per molti di loro si tratterà di investimenti fatti molti anni fa, forse dalla ge­nerazione precedente, quando essere soci di una banca del territorio rispondeva a un interesse preciso, e la forma cooperativa aveva un senso. Esattamente come era successo per le Casse di Ri­sparmio nell’Italia centrale dell’Ottocento. Oggi però è difficile che operatori economici così avve­duti investano con elevate concentrazioni di ri­schio, come hanno fatto certe Fondazioni banca­rie nelle ex-loro banche. L’investimento in banca avrà rappresentato una quota modesta del loro patrimonio, che rende bene; la banca, ancor più della Confindustria locale, è il punto dove si incontrano senso di appartenenza, orgogli indu­striali, storie famigliari, vantaggi reputazionali, e, perché no?, interessi.

Sicuramente c’è anche l’idea di fare così qualcosa di utile per il loro territo­rio: pur essendo i primi a sapere che quello non è più il Piccolo Mondo Antico, dove artigiani e pic­coli industriali portano fiduciosi allo sportello i sudati risparmi, certi di trovare una faccia amica nel momento del bisogno.

Con la legge di riforma, quelle diventano «banche in cerca di padrone», per parafrasare il celebre titolo di Fabrizio Barca.

La riforma obbli­ga a trovare, ricomponendoli, nuovi assetti di controllo. Finisce un mondo, più che della finan­za, del capitalismo relazionale. Se il cambiamento suscita tante proteste, vuol dire che nel cambia­mento si perde qualcosa. In che cosa consista, non si sa, ma come si chiama sì: beneficio privato del controllo. Che, come si sa, non è solo monetario: o non immediatamente monetario. Finché è andata, è andata: meglio riconoscere, con Gio­vanni Bazoli, che definire questo come un attacco al modello popolare e al territorio è un errore madornale, e che il decreto si applica a istituti i quali, loro sì, a quel modello non corrispondono più.

È pensando alle piccole e medie aziende cui la trasformazione in SpA di 10 grandi banche, alcu­ne quotate in Borsa, sottrarranno crediti e aiuti, che tanti industriali di successo «sono feriti al cuore»? È per difenderle che si oppongono le rappresentanze dei dipendenti che oggi condizio­nano scelte gestionali e funzionalità delle «loro» banche? Le banche in generale non sono istituzioni che godano di tenero affetto e solida fidu­cia: non sono popolari.

Ma il concetto di cooperazione è elemento fon­dante dei corpi intermedi, attraverso i quali gli in­teressi, i bisogni, i valori presenti nella società si manifestano sulla scena pubblica; accade in tutte le democrazie avanzate, accade in Italia, dove i corpi intermedi hanno una storia lunga parecchi secoli. E se la scena politica è occupata da uno che assume la disintermediazione come metodo, uno che ha la straordinaria capacità di «arrivare» al­l’opinione pubblica parlando la lingua degli italia­ni qualunque, uno che dice «chissenefrega dei sindacati, io parlo direttamente ai lavoratori, chissenefrega di Confindustria, io parlo direttamente alle imprese»: se questa è la situazione politica in Italia, allora la questione delle banche cooperative entra nel cuore della battaglia politica. «Se Renzi è il politico sceso dalla Leopolda per sabotare i corpi intermedi, per provare a creare un’alternati­va o una resistenza alla valanga del renzismo il mo­do migliore è quello di puntare le proprie carte sulla protezione e la rivalutazione del corpo inter­medio. Il PdN (Partito della Nazione) contro il PdCI (Partito dei Corpi Intermedi)».Inutile chiedersi se i famosi corpi intermedi so­no ancora intermedi, se sono ancora in grado di mediare tra società e politica, se rappresentano ancora qualcuno oltre a se stessi. Giuseppe De Rita può invitare (Corriere della Sera, 16 novembre) a «non demonizzare i corpi intermedi», a concen­trare l’attenzione della politica su temi concreti, a riconoscere la «funzione e i meriti del sindacalista di reparto o del dirigente delle rappresentanze da­toriali che si spendono per la fidelizzazione degli iscritti, del quadro di partito che si sbatte sul terri­torio», in sostanza valorizzando chi, ogni giorno, lavora «sul pezzo», su una porzione di società viva e, in astratto, produttiva. Ma qui mica si fa i socio­loghi, qui si fa battaglia politica, anzi la battaglia politica: per questo a difendere lo status quo tro­viamo Matteo Salvini, Stefano Fassina, il lettiano Francesco Boccia, Guglielmo Epifani e Daniele Capezzone, Susanna Camusso, ovviamente, e il ciellino Maurizio Lupi, «lord difensore» delle po­polari. Non si capisce la reale forza dell’opposizio­ne alla riforma delle banche popolari se non po­nendola nel contesto della opposizione PdCI-PdN e degli argomenti che vengono chiamati in causa.

In primo luogo c’è la difesa della Costituzione più bella del mondo e quindi l’opposizione alla riforma costituzionale e alla legge elettorale, che da­rebbero tutto il potere a un piccolo capo, saltando pesi e contrappesi, dando a un partito che prende il 40 per cento il diritto di vita o di morte del Parla­mento. «Dietro la battaglia delle preferenze c’è la volontà, a destra e a sinistra, nell’area bersaniana come in quella fittiana, di non avere una legge elet­torale che premi solo i capilista nominati dal capo del partito e c’è insomma la volontà di avere un si­stema come quello delle preferenze che dia alle correnti di bilanciare, all’interno del corpo inter­medio del partito, il potere di chi guida il partito».

Strumenti dei corpi intermedi sono stati l’art. 18 e il diritto al reintegro; lo stesso principio mette uno contro l’altro chi vorrebbe che in RAI conti­nuasse un sistema duale, con filtri e cuscinetti, e chi vorrebbe una RAI più legata alla catena di co­mando del Governo. Corpo intermedio sono i sin­dacati e la loro storica cinghia di trasmissione. Cor­po intermedio è, manco a dirlo, perfino la magi­stratura. «Tirando ancora questo filo si scopre del­l’altro: coloro che temono che l’indebolimento dei corpi intermedi coincida con un indebolimen­to della democrazia sono gli stessi che temono che un Governo che fa un passo indietro rispetto al mercato sia un Governo che contribuisce a indebolire la democrazia e a lasciare più o meno tutto al caso, al mercato, al fato, all’imprevedibilità».

Corpo intermedio è la Cassa Depositi e Presti­ti, intermedio tra la innegabile natura pubblica e la proclamata attività privata. Intermedio quindi in un modo formalmente diverso, ma sostanzial­mente paradigmatico di quell’ambiguità che del corpo intermedio è la fatale degenerazione.

Certo, nessuno vuole eliminare o distruggere tutti i corpi intermedi. E non tutti hanno, in passa­to, mostrato abusi quali quello che il sindacato ha fatto della concertazione, o trasformazioni, quali quella di tante organizzazioni di rappresentanza economico-sociale in strutture burocratiche ten­denzialmente autoreferenziali. Ma le banche po­polari non si possono chiamare fuori da fenomeni tipicamente italiani, le strade opache del clienteli­smo, del familismo, dei comitati d’affari incistati nella politica.

… voca me cum benedictis

«Popolari, la riforma è legge», è il titolo del Sole 24 Ore del 25 marzo. E a pagina 2: «Si preparano le fusioni» «BPM perno del riassetto» «Vicenza e Veneto Banca prime a cambiare».

«Le Fondazioni pronte a entrare nelle nuove SpA»: ma guarda tu, chi l’avrebbe mai detto?

Vedremo come andrà a finire. In ogni caso la reazione dimostra quanto il vincolo del voto capi­tario non soltanto influisse sugli assetti interni al­le banche, ma anche impedisse di trovare i propri assetti nel sistema. Assetti entrambi che, a vedere la competizione che si è messa in moto per arriva­re per primi ad attuarli, dovrebbero essere più ef­ficienti.

Anche il voto capitario è stato «rottamato», al­meno nelle 10 Popolari di rilevanza sistemica. Non di poco conto il risultato che Renzi ha porta­to a casa, anche nei riguardi dei notabilati annida­ti nelle sedicenti banche del territorio. Politica­mente il colpo al voto capitario va visto insieme al cosiddetto «atto negoziale» del 10 marzo tra il MEF e le fondazioni: memore delle nasate che si era preso Tremonti con le sentenze della Cassazione, Renzi con le Fondazioni bancarie ha usato il pugno di ferro in tema di eccessiva concentrazione nell’allocazione del patrimonio, indifendibili do­po i disastri MPS e Carige, e il guanto di velluto in tema di partecipazione al controllo delle banche, dove evidentemente vuole evitare scossoni.

Eliminare i vincoli che impediscono alle singole banche di organizzarsi al proprio interno e di riaggregarsi sotto la pressione della concorrenza, è tanto più necessario quanto ben più radicali so­no i cambiamenti che il sistema bancario tutto, non solo quello cooperativo, dovrà affrontare. Le grandi banche, soggette ai requisiti di capitale imposti dalla banking union, diventano sempre più simili a utility: regolamentazione pesantissi­ma, prodotti standard, margini contenuti. Tutte, grandi e meno grandi, devono affrontare cambia­menti radicali, di organizzazione e di mentalità, di ruolo.

L’organizzazione. Le banche hanno speso delle fortune per informatizzare le procedure. Prima, milioni di linee di codice scritte in linguaggio Co­bol. Poi, la migrazione sulla piattaforma web, pri­ma come home banking, adesso come strumento generalizzato di interfaccia, che non solo crea un front office virtuale, ma investe tutto il back office, l’organizzazione dei dati e quella delle persone.

La mentalità. L’e-commerce ci ha abituati a comperare beni e servizi in modi semplici, rapidi, poco costosi. Con il one click di Amazon abbiamo sviluppato una mentalità diversa: le procedure che ci impongono le banche per servizi anche elemen­tari ci appaiono di un’altra era geologica. Lo smar­tphone diventerà il centro finanziario personale, anche le procedure di investimento possono diventare meno complicate ed essere espletate in mobili­tà. Che bisogno c’è di andare in una banca, quan­do in un secondo posso avere caratteristiche, per­formance, valutazioni di migliaia di fondi nel pal­mo della mano? Prevale invece nelle banche la cul­tura burocratica, e gran parte degli investimenti vanno a mantenere la tecnologia attuale. Ma quan­do sarà diffuso il pagamento con lo smartphone, diventerà per le banche difficile difendere rendite tipo il Bancomat all’estero: c’è la banking union, che senso ha che esistano dei dazi sui trasferimenti di danaro all’interno dell’eurozona?

Il ruolo. Cambierà anche la prima e più impor­tante funzione della banca, quella di fare prestiti, a individui e aziende, e la relativa competenza di assegnare il merito di credito. Big Data ha dimo­strato quanti risultati si possano ricavare applican­do algoritmi per lavorare sui dati. Per ora questi al­goritmi, a quanto ne sappiamo, sono volti alla pro­filatura di noi in quanto consumatori, ma certa­mente verranno – vengono? – usati anche per ave­re informazioni quando si deve decidere un inve­stimento, deliberare un prestito. Ci affidiamo a Big Data per individuare i terroristi prima che col­piscano, per analizzare l’andamento dell’econo­mia di un Paese e per prevederne l’evoluzione: davvero riteniamo che faccia meglio il piccolo mondo antico della cooperazione, che operi meglio la prossimità fisica, la conoscenza personale, con vantaggio per i clienti e per le banche? Si stu­dia come applicare queste tecnologie per la scelta degli investimenti finanziari, e ci
sono venture ca­pital che investono nelle start up che sviluppano i modelli di emotional intelligence.

E poi c’è il grande tema della disintermediazio­ne bancaria. È improbabile che la disintermedia­zione delle banche nella loro funzione di erogatri­ci del credito raggiunga i livelli degli USA. Ma la di­rezione è quella, aumento della quota che passa per il mercato dei capitali, e diminuzione di quella intermediata dalle banche. Il problema rimane lo stesso – attribuire il merito di credito – e vincerà chi avrà i migliori strumenti per valutarlo. Il merca­to degli ABS (Asset Backed Securities) è piccolo in Europa, il programma di acquisto della BCE a pri­ma vista non ha avuto grande impatto: in tre mesi sono stati comperati solo 6,4 miliardi di euro. La BCE comperava solo le tranche meno rischiose, e non avrebbe senso, in questo momento, se compe­rasse tranche più rischiose. Ma il programma con­tribuirà certamente allo sviluppo di un più effi­ciente mercato di cartolarizzazione del debito.

Queste sono le sfide, questa è la partita. Per vincere, o anche solo per sopravvivere, alle ban­che è necessario un cambiamento di mentalità. Stare abbarbicati al vecchio modello cooperativo, pensare che quella sia la forma mentis (si può dire forma societatis?) per sopravvivere potrebbe essere un errore fatale. L’obbligo di cambiare, di socie­tarizzarsi, è una straordinaria occasione per cam­biare anche mentalità. Le banche popolari, per la loro dimensione, intermedia tra quella delle BCC e quelle della grandi banche commerciali, per il processo di consolidamento messo in atto, anche per la peculiarità della loro storia, hanno la possi­bilità di giocarsela bene. Di essere cioè tra coloro che sopravvivranno in questa nuova vita.

Controdeduzioni ai rilievi della Vigilanza
CONTRODEDUZIONI ALLE CONTESTAZIONI ALL’ESITO DELLE VERIFI­CHE ISPETTIVE CONDOTTE PRESSO BANCA POPOLARE DI MILANO S.C.R.L. DAL 27 SETTEMBRE 2010 AL 4 MARZO 2011
(Estratto)
Spettabile Autorità,
non c’è la mia firma in calce alla risposta preparata dalla diri­genza della Banca alle contestazioni mosse dall’Organo di Vigi­lanza. Nella riunione del Consiglio di Amministrazione del 7 giu­gno ho consegnato una nota, letta dal Presidente, messa agli at­ti e qui allegata, in cui preciso la ragione per cui mi dissociavo dalla bozza, consegnataci nella precedente riunione, e che il consiglio stava per iniziare a discutere: il denial su cui essa è ba­sata. Ora l’impostazione della bozza è stata modificata, ma ri­mangono la diversa posizione sui problemi di governance e l’as­senza di ogni intervento, volto ad adeguarsi ai rilievi dell’Autori­tà; alcuni, che ho indicato nel mio intervento, e più volte richie­sto nel corso della seduta consiliare, potrebbero essere assunti facilmente e subito, come preciserò meglio nel prosieguo. Per questa ragione ritengo necessario inviare una risposta mia alla nota contestativa del 13 aprile 2011 di codesta Autorità.
«Sono stato nominato consigliere di amministrazione di BPM nell’aprile 2009, incluso nella lista presentata da Assogestioni, poi confluita nella lista che faceva capo al dottor Roberto Maz­zotta, già presidente della Banca. Ho fatto parte del Comitato di Controllo Interno e del Comitato Remunerazioni fino a luglio 2010.
I doveri fiduciari verso chi mi ha indicato; l’essere stato elet­to nella lista del dottor Mazzotta che, nel corso del proprio mandato e nel (ri)presentare nel 2009 la propria candidatura aveva posto al centro del proprio impegno la soluzione dei problemi di governance delle società a voto capitario, specie se quotate; i miei personali riferimenti culturali e politici: sono questi i presupposti per considerare prioritari, nell’esercizio del mio mandato, gli aspetti di governance, di cui quelli gestionali sono una conseguenza. Quello che non mi era noto era lo specifico modo in cui il voto capitario è usato in BPM per dare un «peso predominante delle rappresentanze dei soci dipen­denti [...] un loro improprio coinvolgimento nelle scelte gestio­nali». (Contestazione n. 1). Sono divenuto via via avvertito del­la degenerazione della cooperazione che si è instaurata in BPM: esiste una governance di fatto, che vede il ruolo preponderan­te di soggetti associati, senza ruolo istituzionale, senza respon­sabilità, non sanzionabile. Centrali nel meccanismo di trasmis­sione sono, in ambito CdA, il comitato remunerazioni, in ambi­to operativo la direzione del personale. Il «funzionamento del Consiglio [...] non soddisfacente» (punto 6 dei rilievi) è la con­seguenza di questo stato di cose. I dati forniti in sovrabbon­danza al CdA, ma senza graduazione di importanza, senza suf­ficiente presidio su aree fondamentali, ad esempio i finanzia­menti, contribuiscono a creare opacità verso le questioni stra­tegiche e i problemi di fondo. Credo di avere agito per contra­stare le manifestazioni del macroscopico conflitto di interessi in capo alle organizzazioni che di fatto controllano la banca. Ex post appare chiaro che si poteva fare di più: si deve però an­che tener conto dei limiti oggettivi per consiglieri di minoranza che ritengono proprio dovere lavorare nel consiglio in cui so­no stati eletti.
Mi sia consentito rileggere la mia attività sulla base dei ver­bali delle riunioni anche se questi ovviamente riportano solo gli interventi più organici, e non dànno conto delle dinamiche con cui si esprimono opinioni e si formano consensi. E organizzarne la presentazione per aree tematiche: governance, personale, gestione, profili di rischio, iniziative a breve.
Governance.
Già predisponendosi la risposta alle precedenti osservazioni dell’Organo di Vigilanza, rilevavo un «modo abbastanza macchi­noso e talvolta poco chiaro di porsi [...] sintetizzabile in espres­sioni del tipo sì, ma… oppure no, però…, che potrebbero forse essere condivise se seguite da domani farò». (9/3/2010 punto 2).
Nella successiva riunione del 23/3/2010 il tema dei rapporti con l’Organo di Vigilanza e della governance era oggetto di aperta discussione, partendo da una lettera presentata insieme ai colleghi Mazzotta, Lonardi, Fusilli. In essa i «non facili rapporti con i Regolatori di vigilanza e di mercato» vengono ricondotti «al problema di fondo, quello della governance della banca»; e si denuncia il fatto che «mancando le riforme, una minoranza organizzata di soci vuole continuare ad esercitare il controllo di fatto sull’Assemblea, sugli Organi Statutari e quindi sugli indirizzi e sull’andamento operativo della Banca e del Gruppo».
La resistenza a ogni cambiamento della governance si è no­tata anche discutendosi dell’eventualità di acquisire la Banca del Monte di Parma: la possibilità di aprire il capitale a un soggetto come la Fondazione MP veniva da alcuni colleghi considerata ra­gione preclusiva dell’acquisto. (12/10/2010 punto 1). Dato che l’intervento delle Fondazioni è uno dei mezzi che si stanno pro­spettando per risolvere il problema della governance nelle po­polari, ritengo «fondamentale capire i motivi alla base delle per­plessità ad avere la Fondazione MP nella compagine sociale».
Sensazioni di disagio per il funzionamento degli organi statu­tari, in particolare del comitato esecutivo sono diffuse e condi­vise. I verbali della seduta del 18/01/2011 riportano le osserva­zioni dei colleghi Bianchi e Fusilli soprattutto per il cattivo o mancato funzionamento del Comitato Esecutivo. Per il vicepre­sidente Artali, «il comitato esecutivo potrebbe adeguatamente supportare… l’organo consiliare, sempre a condizione di una sua rinnovata valorizzazione». Critiche che metto per iscritto anche nei moduli di autocertificazione, a inizio marzo 2011.
Personale.

Nel comitato remunerazioni, trovo una situazione di opaci­tà e di totale chiusura. Ogni volta che si accenna all’introduzio­ne di qualcosa che potrebbe sembrare un sistema di remunera­zioni incentivanti si alza la barriera: sarebbe in contrasto con lo spirito della cooperazione. Dopo poco più di un anno, preso atto dell’inutilità di una contrapposizione frontale, ritenendo che il CdA sia la sede propria per modificare situazioni che han­no origine nella governance, chiedo di essere sostituito.
In diverse occasioni esprimo dissenso su alcune decisioni del consiglio di amministrazione che mi paiono rispondere a logi­che riferibili alle varie componenti delle associazioni. (Nomine di vice direttori del personale il 21/7/2009 punto 5; nomine nel­le società partecipate il 29/9/2009 punto 3).
La banca ha adottato un «piano di solidarietà» finalizzato al­la riduzione del personale del gruppo. Poteva essere l’occasione «non solo per tagliare i rami secchi, ma per una reingegnerizza­zione dei processi». Ma di fronte alle evidenti contraddizioni, ri­badisco «di non credere, pur con il massimo rispetto per il si­stema di governo cooperativo, a modelli in cui il corpo sociale rappresentato dall’assemblea dei soci, il management e i dipen­denti procedono senza conflitti e con perfetto equilibrio verso il comune obiettivo» e mi astengo in sede di delibera. (27/10/2009 punto 4).
Il piano di solidarietà prevede una corsia preferenziale per i figli dei dipendenti, creando ovvi problemi di equità e di effi­cienza: richiamo la «necessità di un maggiore bilanciamento tra le assunzioni di figli di ex dipendenti e quelle riferite a esterni, in quanto entrambe sono utili all’azienda». (22/12/2009 punto 3).
Esprimo voto contrario alla proposta di assegnazione del bonus ai dirigenti per l’esercizio 2009: prima ancora e a prescin­dere dal merito, ciò che appare incongruo è il metodo per l’as­sunzione delle relative decisioni, «per i tempi istruttori non ade­guati, per la mancata definizione di criteri chiari di valutazione e per la scarsa organizzazione dei lavori». (29 giugno 2010, punto 12).
Propongo (18/01/2011 punto 2) di aprire «un approfondi­mento/confronto coi colleghi… [sulla] politica del personale… [evidenziando] come la selezione e remunerazione delle risorse abbiano oramai acquistata una valenza strategica e come tali [vadano] analizzate e definite».
L’insoddisfacente funzionamento dei servizi informatici ri­torna sovente nelle riunioni consiliari, è oggetto di specifici rilie­vi da parte dell’Autorità di Vigilanza. Rivelatrici a questo propo­sito le trattative con Credit Mutuel sulla Bancassicurazione, che ha nel proprio sistema informatico un vantaggio competitivo. Nel determinare il fallimento della trattativa, la resistenza ad af­frontare problemi di personale, anche e soprattutto nel settore IT, appare ex post aver giocato un ruolo maggiore di quanto so­spettassi nel mio intervento nella riunione del 27/10/ 2009, punto 3.
Gestione.
Il giudizio (contestazione n. 6) di un «funzionamento del Consiglio… non soddisfacente», di una «insufficiente cura ai pro­fili tecnici e all’operatività core, anche in conseguenza di infor­mative non sempre esaurienti e tempestive da parte dell’esecu­tivo» è condiviso. Come già detto, la gran copia di dati non ac­compagnata da una lettura che evidenzi le criticità, ritarda la presa di coscienza della situazione reale; rivelano una dirigenza preoccupata di difendere le proprie posizioni anziché di mette­re in atto misure correttive.
Il fatto più significativo in sé e per le conseguenze che ne so­no scaturite, è l’episodio dell’aumento di capitale da 600 milioni di euro, discusso il 29/3/2011 e preceduto da un seminario a porte chiuse. Ho sostenuto l’aumento di capitale, portando una pluralità di argomenti in diversi interventi. Ho preteso che si vo­tasse, e il risultato ha fotografato la divisione all’interno del con­siglio. La proposta del Presidente è stata bocciata e il collega Bianchi, che anche lui aveva votato a favore, si è dimesso. Do­po essermi consultato con il Presidente di Assogestioni, decido di non farlo.
Iniziative a breve.
Come accennato all’inizio, per rispondere ad alcuni dei rilie­vi dell’Organo di Vigilanza, ci sono iniziative che possono essere prese immediatamente dal CdA. Questo servirebbe anche a dare significato positivo agli importanti fatti avvenuti dopo la bocciatura in CdA della proposta di aumento di capitale da 600/800 milioni, e sostanza all’asserita volontà di operare in di­scontinuità con il passato.
Le dimissioni del consigliere Bianchi.
La proposta di aumento di capitale da 1.200 milioni.
Le dimissioni del DG Dalu.
L’adozione del sistema incentivante in sostituzione di quello premiante.
La nomina del nuovo DG Chiesa.
In particolare, ho chiesto la personale garanzia dal Presidente sul fatto che la nomina del Vice Direttore a Direttore, motivata a suo dire dalla constatata impraticabilità di altre soluzioni, rap­presentasse nei fatti discontinuità e non continuità con il passa­to.
Sulla vicenda dell’aumento delle deleghe a 5, il CdA ha deli­berato di portare la proposta alla prossima assemblea straordi­naria. Alla prima occasione e comunque prima dell’assemblea, dirò in consiglio che l’eventuale bocciatura dovrebbe essere in­terpretata come sfiducia, che ciò dovrebbe comportare le di­missioni dell’intero consiglio, comunque le mie, e che ciò debba essere reso noto ai soci, perché possano valutarne le conse­guenze prima di assumere deliberazioni.
A questo fine avrebbe qualche significato richiamare all’ordi­ne le rappresentanze sindacali perché usino solo i locali loro as­segnati, non frequentino gli uffici dei consiglieri, se non quando da essi ufficialmente convocati, ed evitino di stazionare nelle adiacenze della sala consiglio, specie quando sono in corso riu­nioni. La mia reiterata richiesta di dare mandato seduta stante al DG, come risposta simbolica al rilievo n. 3, non è stata per ora accolta. La ripresenterò.
Il problema della fuga di notizie (richiamato nelle ultime ri­ghe del rilievo n. 1), dipende anche dalla mancanza di una co­municazione chiara da parte della Banca stessa che anticipi le ri­chieste di autorità e investitori. Come le recenti vicende hanno esemplarmente dimostrato. Richiamerò il consiglio alla traspa­renza.
L’organo di trasmissione del potere dalle rappresentanze dei soci dipendenti è la direzione del personale. Presenterò ri­chiesta per sapere in che modo la discontinuità richiesta al nuo­vo DG si traduca in discontinuità di quella direzione, quanto a uomini, struttura organizzativa, deleghe.
La modifica statutaria che imponga che il CdA sia costituito in maggioranza da consiglieri indipendenti, selezionati dalle più reputate società specializzate, servirebbe a maggiormente di­stanziare i consiglieri, di maggioranza come di minoranza, dalle organizzazioni sindacali. Intendo proporla al Consiglio.
L’aumento di capitale, per cui il numero delle azioni potrebbe risultare quadruplicato, pone, oltre che aspetti tecnici ed economici, anche temi di governance. Ripresenterò la richiesta, già avanzata nel consiglio del 7/6/2011, di una riunione speciale dedicata al tema.
Milano, 13 giugno 2011

INTERVENTO DEL CONSIGLIERE DEBENEDETTI SULLA BOZZA «DEDUZIONI ALLE CONSTATAZIONI DELLA BANCA D’ITALIA» CONSEGNATO NELLA PRECEDENTE RIUNIONE DEL CDA

Non apporrò la mia firma nello spazio indicato in calce al docu­mento. Non ne condivido l’impostazione, basata sul denial, ar­roccata in difesa dell’operato di amministratori e direttori, dove l’obbiettivo tattico di difendersi dagli addebiti prevale su quello strategico di eliminarne le cause.
Ciò emerge in primo luogo dalle risposte ai rilievi sui «pro­fili gestionali», cioè quelli che toccano l’assetto di governo. Questo è il problema strutturale di tutte le banche popolari ol­tre una certa dimensione; in quelle quotate, il voto capitario crea problemi di agenzia irrisolubili. Ma solo in BPM c’è una go­vernance di fatto, per cui le rappresentanze dei soci dipendenti nominano un CdA che proponga e approvi nomine, organi­grammi e strategie rispondenti ai loro interessi. Il CdA finisce così per avere il ruolo di ratificatore passivo anziché quello di controllore informato e di propositore attivo. A sproposito vengono invocati i meriti del sistema cooperativo: quello vigen­te in BPM ne è la versione degenerata.
La bozza si preoccupa invece di dimostrare le «important iniziative al riguardo» già assunte, arrivando perfino a dire (p. 2) che lo statuto della BPM la pone «all’avanguardia rispetto alle re­gole di governance non solo delle altre popolari, ma addirittura dalle altre società quotate». Poiché i «profili di conformità» so­no conseguenza dei «profili gestionali», la bozza cade in con­traddizione: il mancato riconoscimento della necessità di inter­venire su questi indebolisce la difesa tecnica di quelli, e i fatti contestati, anziché episodi su cui argomentare e discutere, si confermano sintomi a rischio di riproduzione.
Ci sono poi constatazioni sulle quali il consiglio ha non solo la facoltà di esprimere opinioni ma, ora che ne è informato, la responsabilità di assumere deliberazioni. Mi riferisco, particola-mente ma non esaustivamente, alla appostazione in bilancio delle posizioni di rischio, di cui alla constatazione n 7. In questo intervento non entro nel merito, certo che saranno fatti ogget­to di specifica trattazione e votazione.
Discontinuità con il passato: questo è il significato dei fatti recentemente accaduti e delle decisioni ultimamente prese. Col deniol se ne smarrisce il senso e se ne vanifica la portata. Mi ri­ferisco a:
La bocciatura in CdA della proposta di aumento di capitale da 600/800 milioni di euro.
Le dimissioni del consigliere Bianchi.
La proposta di aumento di capitale da 1.200 milioni di euro.
Le dimissioni del DG Dalu.
L’adozione del sistema incentivante in sostituzione di quello premiante.
La nomina del nuovo DG Chiesa.
Discontinuità è la esplicita motivazione per cui è stato introdot­to il sistema incentivante, di cui avevo caldeggiato l’adozione quando facevo parte del comitato remunerazioni, prima che, vi­sti i reiterati rifiuti, chiedessi di essere sostituito. Discontinuità deve essere il segno dell’azione del nuovo direttore generale: l’ho votato solo dopo aver richiesto e ottenuto assicurazioni dal Presidente.
La soluzione radicale del problema della governance è irta di difficoltà anche giuridiche. Ma qualcosa si può fare. Ecco alcu­ne iniziative che propongo al consiglio. Alcune potrebbero es­sere assunte seduta stante, altre richiedono più precise formu­lazioni e approfondite discussioni.
Aumento delle deleghe a 5: non dovrebbe neppure più es­sere citato tra le cose ancora da fare, se il collega Benvenu­to non segnalasse di incontrare incomprensibili resistenze nel comitato soci.
L’organo di trasmissione del potere dalle rappresentanze dei soci dipendenti è la direzione del personale. La disconti­nuità richiesta al nuovo DG deve tradursi in discontinuità di quella direzione, negli uomini, nella struttura organizzativa, nel sistema di deleghe.
Ristabilimento anche formale della distinzione dei ruoli: le rappresentanze sindacali vanno richiamate perché usino so­lo i locali loro assegnati, non frequentino gli uffici dei consi­glieri, se non quando da essi ufficialmente convocati, ed evi­tino di stazionare nelle adiacenze della sala consiglio, specie quando sono in corso riunioni.
Modifica statutaria che imponga che il CdA sia costituito in maggioranza da consiglieri indipendenti, selezionati dalle più reputate società specializzate.
Il punto ultimo è quanto possiamo fare per segnalare, al merca­to e all’Organo di Vigilanza, che questo consiglio è cosciente delle implicazioni di un aumento di capitale di queste dimensioni, in questo mercato, per questa Banca. Quando il numero del­le azioni si moltiplica per 3 lo squilibrio tra diritti di voto e dirit­ti di proprietà diventa macroscopico. Nell’ultimo Consiglio ho chiesto una riunione speciale dedicata al tema: oltre agli aspetti tecnici ed economici, ci sono problemi di governance su cui di­scutere ed eventualmente prendere iniziative. Prima che siano i fatti a prenderle per noi.
Milano, 6 giugno 2011

→  maggio 15, 2015


AOL has 4,000 employees but only one Digital Prophet. That would be David Shing, or rather Shingy . He earns his six-figure salary by telling companies about branding and the internet, and has an elaborate mullet.

One of Shingy’s go-to platitudes is that mindshare (whatever that means) equals market share. In AOL ‘s case the two seem to diverge. The public perception of the company – among those who realise that it still exists – is associated with the dial-up modems of the 1990s. In terms of market share, AOL has carved out a niche in the advertising business. In online video advertising, it has the fourth-largest reach in the US, MoffettNathanson reckons. Its programmatic advertising sales – using automation to distribute ads across AOL-owned content and sites such as Facebook and Twitter – grew 80 per cent from a year ago in the most recent quarter.

Verizon ‘s $4.4bn acquisition of AOL is the latest in a string of ad-tech deals, which include Yahoo ‘s purchase of BrightRoll and Comcast ‘s of Freewheel. Set aside AOL’s content and dial-up businesses, and the price tag is slightly more than two times its trailing annual ad sales. That looks cheap next to the Freewheel deal, at 10 times, or the BrightRoll deal, at six. Verizon plans to integrate some of AOL’s video advertising technology into an à la carte mobile video offering to be launched this summer.

The big question is how much more Verizon will have to do to make its new ad business profitable; it makes no money at present. Few details have been disclosed. But licensing or creating content is costly (just ask Netflix ). Shingy approves of the deal, of course, saying that the world of context and content is replacing the age of social media.

For Verizon, buying an ad tech company is the first and easiest step towards creating a video business. Will the next steps will go as smoothly? Shingy’s confidence is not infectious.