Caro Rutelli, che cos'ha contro le parole straniere?

novembre 16, 2006


Pubblicato In: Giornali, Vanity Fair

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da Peccati Capitali

A uno della mia età, leggere che Francesco Rutelli vuole procedere a una revisione completa del linguaggio del suo ministero e dei musei che amministra, per espungervi gli anglicismi, fa venire in mente la crociata contro le parole straniere indetta dal fascismo.

Con le perle uscite dal concorso, indetto dalla Tribuna nel 1932, si potevano confezionare collane di autarchica comicità: “Un vitaiolo va dalla signora con cui ha un filarino, la trova ancora in negletto, ne riceve uno squasso, poi la porta al tabarino, dove bevono sciampagna al suono del giazzo.” La toponomastica subì memorabili devastazioni: a Prè Saint Didier toccò di essere ribattezzato Prato San Desiderio, (e i ragazzini, con malizia da oratorio, a storpiarlo in prete senza didietro). Pochi anni dopo, il fascismo dai nomi passò ai cognomi, Tedeschi, Morpurgo, Treves: e fu altra storia.
Rutelli ha ragione: l’italiano è forse il primo dei beni che il suo Ministero deve proteggere e valorizzare, “per difesa e per amore”, come è il titolo del bel libro di Gianluigi Beccaria (La lingua italiana oggi, Garzanti). Dipendesse da me, il primo colpo di piccone lo darei a giacimenti culturali: l’avidità mineraria dell’espressione se lo merita.
“Nave genovese, mercato fiorentino”: come dice il proverbio, le parole viaggiano nella storia sulla scia di dominanze, tecniche, economiche, culturali. L’italiano ha dato a quasi tutte le lingue le parole della finanza – banca, cassa, fattura; quelle dell’architettura – balcone, cupola, duomo. Italiane sono le indicazioni agogiche della musica classica – adagio, allegro, presto, con sentimento. Per la stessa ragione, siamo noi ad avere importato le parole dell’informatica, computer, software, mouse. I francesi invece hanno ordinateur, logiciel, souris: c’è da aspettarselo da un Paese che ha tenuto in piedi, a forza di sovvenzioni, il suo campione nazionale Bull. Ci sono anche parole che esprimono servilismo culturale, come quelle che abbondano nella consulenza manageriale, job enrichment, quality control, advertising, trucchi di packaging per fare apparire il prodotto più sofisticato (e in effetti ci riescono…). Ci sono parole intraducibili: chi direbbe transfocatore per zoom? Altre si sono perfettamente naturalizzate: senza risalire agli arabi azzurro o algebra, può apparire intrigante ma è assolutamente esatto che l’uso di molte parole sulla carta italiane è importato.
Lapidario il giudizio di Machiavelli: “Non si può trovare una sola lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri”.
Nel far pulizia, Rutelli lo ricordi: accattare (parole o citazioni) non sempre è peccato.

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