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Capitani delle notizie

Pubblicato il 26/11/2006 @ 14:48 in Consigliati e recensiti,Giornali,Il Sole 24 Ore,Libri

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“Se una parola può essere grossolanamente adoperata, scriveva Luigi Einaudi, si può dire che [i grandi giornali nati a cavallo tra l’Otto e Novecento] rappresentavano a lungo andare una delle correnti dominanti nel Paese di quella cosa indistinta e inafferrabile, ma tuttavia reale ed esistente, che è l’opinione pubblica.” E tra “i grandi giornali”, insieme a Times, Frankfurter Allgemeine Zeitung, New York Times, Chicago Tribune, metteva il Corriere. La citazione è tratta da “Il baco del Corriere” il nuovo libro di Massimo Mucchetti, appassionato e denso di fatti e di idee.

E che stimola altre riflessioni su un tema generale e attualissimo, quello del rapporto tra media, proprietà e opinione pubblica. Sono passati 80 anni, da quando Einaudi lo scriveva, siamo immersi nella comunicazione di massa, ma è ancora il giornale, non la TV , il pensiero consegnato alla pagina scritta, non l’impressione affidata alla memoria, ciò che più forma l’opinione pubblica. In questo meccanismo, la proprietà conta: intendo dire. non solo nel senso generico, per cui la cultura dominante è la cultura della classe dominante, ma in quello specifico dell’omogeneità tra l’opinione pubblica e gli imprenditori che ai grandi giornali hanno dato vita, e che oggi ne hanno preso il posto.
Questo vale in particolare per il Corriere, che più di ogni altro giornale forma la pubblica opinione italiana, e dove questa omogeneità si è mantenuta negli anni, attraverso il fascismo e l’esproprio ai danni di Luigi Alberini, gli scandali (si pensi a quello legato all’Ambrosiano e alla P2), le tante vicende industriali e finanziarie (gli ingressi degli Agnelli, l’acquisto della Fabbri, la coabitazione in Gemina e poi HDP), fino alla complessa architettura di governo societario che oggi regge il gruppo editoriale. Vedo un’analogia con un’altra omogeneità, quella che esiste in campo finanziario, per cui i risparmiatori continuano ad investire in imprese dove pure, invece di creare, si è distrutto valore, che Mucchetti aveva già quantificato nel suo “Licenziare i padroni”, e che qui aggiorna: “per i soci Telecom c’è stata una distruzione teorica di valore pari a 6,7 miliardi in 5 anni”. “Dal 1992 (…), quando Marco Tronchetti Provera ne prese il timone, al settembre 2006, Pirelli ha bruciato ricchezza per 1,3 miliardi”.

Dopo l’attacco dell’hacker, Mucchetti ha l’impressione di vivere tra specchi. C’è un altro gioco di specchi, dove il giornale forma opinione pubblica e questa restituisce consenso: e in cui la proprietà conta. Nel caso del Corriere, i gironi concentrici in cui si articola il suo governo societario – consiglio di amministrazione, comitato esecutivo, patto di sindacato, direzione del patto di sindacato, i cui membri sono, alcuni a loro volta espressione di analoghi equilibri pattizi, e tutti portatori di propri riferimenti politici – fanno sì che RCS rappresenti il capitalismo italiano col massimo grado di concentrazione.
E’ a causa di questa struttura proprietaria che il Corriere pubblica, come scrive Mucchetti, “su due e non su quattro colonne la notizia della transazione tra Banca Intesa e il commissario straordinario di Parmalat perché era un semplice accordo stragiudiziale e non anche una pur parziale ammissione di colpa o di errore da parte della banca presieduta da Giovanni Bazoli. Che [trascura] i verbali piuttosto che le ville di Cesare Geronzi, oggetto di più di un procedimento giudiziario, perché le inchieste su Capitalia sono meno interessanti di quelle su Unipol o sulla Popolare di Lodi. Che [misura] le cronache e i commenti sul caso dell’equity-swap Exor-Ifil (…). [E ritiene] che Marco Tronchetti Provera si sia dimesso per protesta contro le ingerenze del governo Prodi e non perché, dopo cinque anni, i conti dell’investimenti in Telecom ancora non tornano.” Il Corriere lo “deve” fare, lo “può” fare: perché è un’istituzione.
E, se istituzione è il giornale, istituzione è anche la complessa costruzione societaria che lo regge. Nel gioco degli specchi, non si distingue più la realtà dall’immagine, la causa dall’effetto; i ruoli si scambiano, il giornale, da espressione di una consistente parte della nostra imprenditoria, diventa esso stesso artefice dell’intesa tra quegli imprenditori; e quando è attaccato, da preda si fa protettore di coloro che avrebbero dovuto difenderlo. Era già evidente, e Mucchetti lo dimostra in modo inoppugnabile, che la “scalata” di Ricucci non aveva nessuna possibilità di riuscire. Ma per l’istituzione serviva rendere l’attacco credibile, e la difesa provvidenziale: per questo si ingigantì la minaccia, si proiettò sull’improbabile barbaro alle porte la ancora più improbabile figura del Cavaliere nero, la si denunciò come l’elemento finale di una strategia in tre stadi, facendo quindi tutt’uno di due vicende diversissime come Lodi-Antonveneta e Unipol-BNL, e si poté così dimostrare di avere smontato una trama pericolosa e dagli oscuri risvolti politici.

Per evitare che “ il liberalismo benpensante degli economisti” entri in contraddizione con “la sua versione di convenienza praticata dai capitalisti”, stante il rapporto, mediato dal giornale, tra opinione pubblica e assetto proprietario, è su quest’ultimo che si deve operare, ovviamente nel rispetto dei diritti proprietari. Incominciando a riconsiderare l’opportunità della presenza delle banche nel capitale dell’azienda editoriale. Fu nel 1977 che il divieto ad assumere partecipazioni in imprese editoriali venne aggirato per consentire alla DC di controllare testate meridionali tramite il Banco di Napoli. Oggi, mentre si parla di ampliare il limite del 15% alle quote di capitale che le banche possono detenere in imprese non finanziarie, per le editrici di giornali quel divieto andrebbe ripristinato. I giornali, assai più che le TV, formano l’opinione pubblica; le banche, aggregatesi per evitare scalate indesiderate, hanno dimensioni troppo grandi rispetto a quelle di un giornale, hanno un potere finanziario troppo grande rispetto agi altri soci, soprattutto se ne sono creditrici: si crea una concentrazione di potere eccessiva ed opaca.
Per Mucchetti la soluzione è una public company con uno statuto che la protegga da rischi di scalate ostili, in cui le figure del direttore e del gerente siano unificate. La proposta non mi convince. Ovvio che libertà e autonomia del direttore sono fondamentali e devono essere garantite. Ma, contrariamente a Mucchetti, credo che i conflitti di interesse sono inevitabili, ce se ne difende rendendoli espliciti, non nascondendoli in un mitologico Azionista Speciale. Nei casi in cui la proprietà del giornale è ben riconoscibile, è la stessa loro evidenza – che si tratti di auto, o di costruzioni, o di energia – a proteggere l’indipendenza del giornale. E poi, è riduttivo pensare che a produrre conflitti siano solo gli interessi economici: gusto del potere e ambizione personale possono essere motori ancora più potenti. Essere considerati alla stregua del segretario di un partito, come ricorda Tonino Tatò nelle sue memorie riferendosi a Eugenio Scalfari, avere un ruolo decisorio in certe scelte politiche decisive, possono essere incentivi ancora più forti. Per me i giornali, o rispondono a una proprietà con interessi ben identificabili, o devono essere contendibili. Ritornando alla circolarità del rapporto tra assetti proprietari e opinione pubblica, da cui è partita questa riflessione, credo che sia proprio la contendibilità, dunque la concorrenza, la piattaforma comune su cui fare incontrare “liberalismo benpensante” e “convenienza praticata”.

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