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Cantami un Lied

Pubblicato il 22/08/2013 @ 09:40 in Giornali,Il Foglio

Intervento tenuto il 14 Agosto alla 46esima edizione del Festival Musicale di Asiago

Invecchiando, c’è chi scrive la propria autobiografia. E c’è chi si limita a rievocare episodi: per fissare un ricordo, magari per professare un amore.

Il mio primo lavoro, appena laureato, fu di acquisire la tecnologia di un componente per il motore della Fiat 500 simile a quello montato sul maggiolino Volkswagen e prodotto in una fabbrica di Pforzheim. E fu allora che li conobbi: erano i nipoti dei fondatori di quell’azienda e quindi figli di quelli che, trent’anni e una guerra – e qualcos’altro – prima, avevano aiutato mio padre a iniziare in Italia la sua attività di industriale.v La nostra fabbrica distrutta dalle bombe del 1942, la loro tre giorni prima della fine della guerra, in un bombardamento in cui morì un terzo della popolazione.

D’accordo le “vite parallele”, il comune “mestiere”, le comuni vicissitudini, ma se alcune persone di quella famiglia sono state le più profonde amicizie della mia vita, non è solo perché ne apprezzavo la profonda cultura e il gusto raffinato, è perché erano per me l’espressione, sopravvissuta a una dittatura e a due guerre, della borghesia tedesca. Pforzheim come Lubecca.

Una sera, invitato a cena da uno dei miei amici, la padrona di casa, levate le mense, si mise a cantare dei Lied. La signora era stata una cantante lirica, ma anche se non possedeva la Stehstimme di una Schwarzkopf, quegli Schubert e Wolf fatti propri, sentiti come parte della propria vita, introdotti nella conversazione domestica, quell’intimità propria della Hausmusik, li ricordo come fosse ieri. Alla passione per i Lied romantici si unì l’amore per la cultura della borghesia tedesca.
Il Lied romantico non è una continuazione dei canti popolari né della tradizione dei Meistersinger: è un fenomeno quasi ex nihilo della musica. E’ dal riconoscimento di questo fatto che deve partire ogni “introduzione al Lied romantico”, sostiene Mario Bortolotto nell’omonimo libro per Adelphi (“Introduzione al Lied romantico”, 1984). L’ho saccheggiato ampiamente, anche oltre il virgolettato: le frasi acute e le osservazioni fulminanti quasi certamente nascondono un debito verso quel libro. Lo ripago consigliandone la lettura.

Il Lied è romantico e proprio perché il Romanticismo rappresenta una cesura nella tradizione tedesca, esso non deve nulla se non il nome all’antico. Il grande scoppio dello Sturm und Drang fa saltare i ponti con la cultura della vecchia Germania. Proprio questa coscienza di essere nuovi e diversi, questa ubriacatura di giovinezza e di nazionalismo scatenantesi nell’animo dello Sturm-und-Dränger da un lato fa volgere a forme musicali impensabili, dall’altro all’immissione di richiami ed echi di civiltà sepolte. La letteratura liederistica nasce da quella situazione di ambivalenza, di distacco e attrazione, cui il Romanticismo deve la sua ragion d’essere.

Prendere il Romanticismo alla lettera, come rivendicazione del sentimento diretto e irrefrenabile, significa smarrirne la portata storica. Il Lied recepisce anche apporti della tradizione popolare (ad esempio dal ciclo di poesie e canti popolari pubblicati tra il 1805 e il 1809, quasi un secolo dopo Mahler ne musicherà 24); a volte si notano ricalchi di maniere della musica di consumo. Ma il Lied appartiene per intero alla musica colta.

Composizione da camera, generalmente per una sola voce e pianoforte, il Lied è la lettura musicale di un testo poetico volta alla ricerca di un nucleo originario avente i mitici caratteri di popolarità e di germanicità. La scelta stessa degli autori e dei testi si presta a un’analisi non musicologica del Lied. Nell’indice per autori della, ahimè introvabile, raccolta di testi di Garzanti (“Lieder”, a cura di Vanna Massarotti Piazza, Garzanti, 1982), Goethe risulta il più frequentato. Goethe non è romantico, allo Sturm und Drang del Göetz von Berlichingen è presto subentrata una visione più ampia, aulica e profonda. Il Goethe del “Viaggio in Italia” è rappresentato nel famosissimo quadro di Tischbein nella postura di un dio fluviale, seduto su un obelisco egizio rovesciato, accanto a un bassorilievo greco, con architetture romane nella campagna: vi sono rappresentate tutte le vestigia dell’antichità, su cui si sarebbe eretto il classicismo di Weimar. Al romantico Friedrich Schlegel, Goethe appare come “il primo artista di un’epoca totalmente nuova”, il primo a muoversi verso “l’unificazione di ciò che è essenzialmente moderno con ciò che è essenzialmente antico”.

In Germania ferve il dibattito sui fondamenti e i modelli di una poesia che risponda alle nuove istanze di intuizione e di sensibilità, a quell’anelito di infinito che mancava all’uomo greco. Ci si rende conto che nell’arte classica non c’è solo la quieta grandezza e la nobile semplicità descritta da Winkelmann; ben prima che Nietzsche portasse l’analisi alle sue più compiute conseguenze (nella “Nascita della Tragedia”), a Friedrich Schlegel è evidente che accanto alla perfezione apollinea si agitano sempre le pulsioni del dio dionisiaco. Il saggio di Friedrich Schiller “Sulla poesia ingenua e sentimentale” segna un’epoca”: “Il poeta ingenuo obbedisce soltanto alla natura e si limita a imitare la realtà”. Ingenui erano i poeti greci, che “con familiarità vivevano con la libera natura sotto il suo cielo felice”. Il poeta sentimentale invece riflette sull’impressione che gli oggetti suscitano in lui: “Solo su quella riflessione è fondata la commozione da cui viene egli stesso vinto e che riesce a comunicarci.” Il nostro senso della natura assomiglia al senso che il malato ha della salute. Il poeta sentimentale tende a un’ideale che non può mai compiutamente risolversi nella perfezione, ha un rapporto infinito con la natura. Per questo è un Wanderer.

Un amore non corrisposto quello dei musicisti per il vate. Goethe pensava che solo Mozart sarebbe stato in grado di musicare il “Faust”. Beethoven inutilmente gli aveva scritto una lettera adorante nel 1825 in cui parlava dell’ “ammirazione, l’amore e la stima che nutro dalla gioventù”, si dichiarava “continuamente spinto da uno strano desiderio di dirvi tutto ciò, dato che io vivo nei vostri scritti”. E, quanto a Schubert, la lettera “di commovente modestia e di trepida attesa” con cui accompagnò, tra gli altri, “Erlkoenig”, di una così perfetta devozione da sfiorare l’equivalenza (Bortolotto) non ebbe neppure l’onore di una risposta, diede anzi luogo a uno spiacevole equivoco, dovuto all’omonimia con il Franz Schubert di Dresda, che pure si offese dello scambio. La prova più salda dell’atteggiamento romantico di fronte a Goethe è data proprio dall’utilizzo di suoi frammenti nell’esperienza musicale. Non è certo un caso se il canto di Mignon, “Kennst Du das Land”, dal Wilhelm Meister, è stato musicato da Beethoven, Schubert, Schumann, Wolf e, per voce e orchestra, da Liszt (anche da Tchaikowsky, che però qui non c’entra). Circostanza che offre lo spunto per una rapida carrellata su quasi un secolo di Lied.

Al “Meister”, come al “Faust”, Goethe ha dedicato tutta la vita, dal 1777 al 1829; il Lied di Mignon si trova negli “Anni di apprendistato” del 1796. Mignon è appena un’adolescente quando viene rapita in Italia da una compagnia di zingari e condotta in Germania. Dopo varie disavventure, viene liberata da Wilhelm, che diviene il suo benefattore. In questa ballata la fanciulla, presa dalla nostalgia per l’Italia, lo prega di ricondurla in patria. Mignon, un essere delicato, quasi androgino, incarna una sorta di solitudine e dolore cosmici esprimendone la verità assoluta e, nel contempo, il disordine patologico. E’ la voce della poesia pura, della liricità essenziale e solitaria, incapace di ogni patteggiamento con il mondo; in lei si concentra tutto ciò che spezza la serena legge della vita e ne impedisce l’accettazione, la passionalità anarchica ed anomala, l’infrazione dei tabù sociali e naturali, la follia e l’incomunicabilità. E l’Italia, terra del sole e dell’azzurro cielo, è il commosso ricordo di una patria ideale a cui lo stesso Goethe ritornava.

Scrive Goethe (III, 1):
“Ella cominciava ogni verso festosamente, con voce sonora, come volesse richiamare l’attenzione su qualche cosa di straordinario, come volesse dire qualche cosa d’importante. Al terzo verso il canto diventava più fosco e cupo; il Kennst Du es wohl? Ella lo esprimeva assorta e piena di mistero; nel Dahin! Dahin! c’era un’irresistibile malinconia; e ad ogni ripetizione sapeva modificare talmente il suo lass uns zieh’n che ora era supplichevole e stringente, ora incalzante e pieno di promesse”.

Wilhelm si accorge che, trascrivendo la canzone, va irrimediabilmente perduta l’originalità e l’ “ingenuità infantile dell’espressione”. “Con tanta vita e verità espresse il Lied, da parere che l’avesse poetato in quel momento e in quell’occasione”: la verità del cuore, che il canto rivela con immediatezza, è un tratto sbalorditivamente romantico di Goethe. La canzone, in tre strofe, rievoca das Land, das Haus, den Berg; l’esortazione Dahin! Dahin! è rivolta prima all’amato, poi al difensore, e infine al padre.

Beethoven musica il canto di Mignon seguendo rigorosamente la composizione strofica, con minime variazioni tra una strofa e l’altra, ogni strofa divisa in due parti, la seconda a ritmo ternario, accelerata rispetto alla prima, un assolo del pianoforte di due battute a introdurre il Kennst Du es wohl?, i Dahin! ripetuti, prima in moto ascendente, e che poi si immalinconiscono.

Nel 1815 Schubert scrisse 150 Lied, di cui 30 su testi di Goethe, tra cui “Kennst Du das Land”. Formalmente il trattamento del testo è molto simile: i primi quattro versi divisi in due parti, la seconda più veloce. Le terzine, che in Beethoven sono affidate alla mano sinistra, qui sono alla mano destra, iniziano per entrambi a “ein sanfter Wind”, qui finiscono al “Dahin”. Un passaggio per piano solo a introdurre il “Kennst Du es wohl?”. Ma l’effetto è totalmente diverso. Schubert rompe la rigida ripetizione, di Beethoven, la terza strofa passa al minore. E con il “Dahin!”, scrive Bortolotto nella sua citata “Introduzione”, “il pianoforte avanza incontrastato, irresistibile marea”, e quando sembra finito riparte con “quasi frenetica e distruttiva nostalgia”, ascendendo in ff.

L’op. 98 di Schumann è di 34 anni dopo. Quasi dimenticato è il tempo in cui il Land da conoscere è quello dove fioriscono i limoni, quando la natura è ancora quella dipinta da Tischbein, popolata dalle vestigia della classicità, che il vate domina tranquillo in costume arcadico. Adesso è il “Berg in seinem Wolkensteg”, la natura senza confini della poesia sentimentale, quella di Caspar David Friedrich, nel Monaco sul bordo del mare della Nationalgalerie di Berlino.

Mentre non si sa se Schubert avesse sentito il Lied di Beethoven, con Schumann è già un “poetare su poemi dati”: la strofa non è più divisa in due da quel ponte solistico del pianoforte, ma è un tutt’uno, il “Kennst Du es wohl” ripetuto due volte, in una concitazione crescente verso il Dahin, che poi ripiega nella rassegnazione.

Ancora Bortolotto:
“Se il Lied di Schubert era un crescendo, questo di Schumann ripropone, il tema romantico, la tentata fuga verso un Hoehepunkt destinato a sfaldarsi in catastrofi finali. La Mignon di Schubert può illudersi sul ritorno, il Lied di Schumann è invece senza sole. […] L’approdo della condizione equivoca può essere solo la morte: il principio che rende romantica la nostra vita, aveva detto Novalis. […] La domanda dell’inizio Goethe la intendeva sonora e festosa, Schubert ne ha attenuato l’intensità, Schumann l’ha soffocata in un tedio senza via d’uscita. Resta , unica apertura, la liberazione nel non-essere”.

E’ il 1890 quando Wolf riprende il testo. Schopenhauer e Nietzsche hanno smascherato le ultime possibilità di illusione, le prospettive di scampo. L’acme di ogni strofa sono le “suppliche conclusive risolte in invocazioni e quasi in Urschrei”, il “Kennst Du es wohl?” ripetuto quasi supplicante, ruhiger, preceduto dal belebt del pianoforte, la seconda volta con ottave cromatiche discendenti, sulle terzine ribattute della mano sinistra.

La scrittura estrae dal testo tutte le sfumature, tutte le differenze del testo nella simmetria delle strofe. Ad esempio nell’esposizione delle domande:
“La prima, essendo una domanda retorica, la linea non accenna neppure a carattere d’interrogativo; nella seconda un salto ascendente di terza permette di indagare Kennst Du das Haus, nella terza la richiesta è sopraffatta dal prevalente interesse visivo, il paesaggio pauroso”.
Della versione di Liszt per voce e orchestra, basta sentire l’attacco per rendersi conto di essere in un mondo affatto diverso: quello della vocalità d’opera, e neppure della più ispirata. Il carattere di borghese intimità, che del Lied è il tratto più prezioso, si perde in una borghese volgarità, “in cui l’interiorità del sentimento romantico viene adulterata a una sensibilità da boudoir”. Le parole sono sempre quelle di Goethe, e non è questione se ad accompagnarle sia il pianoforte o l’orchestra: Mahler ha scritto per voce e orchestra alcuni dei più bei Lied romantici.

Il rapporto musica poesia non è solo quello dei musicisti con le poesie che scelgono – e vi fu anche chi, come Brahms, mostrò una certa indifferenza, preferendo musicare poeti minori – , ma anche dei poeti con le musiche scritte sui loro versi.

Nell’epoca del Biedermeier molte tensioni si sono attutite, i buoni tedeschi nei loro attardati staterelli erano in tutti i sensi gente pacifica. E’ dopo che le cose sono cambiate.

Sovente si nota un ritardo nell’evoluzione del gusto musicale proprio in quei poeti che avevano contribuito al formarsi di quel gusto. Si è detto di Schubert e Goethe con l’“Erlkoenig”, ma non andò meglio tra Schumann e Heine con il “Liederkreis” op. 24.

Del Lied c’è l’evoluzione espressionista di Schönberg, Berg e Webern; e c’è l’estrema manifestazione romantica. Uno fra tanti, quello scritto da Richard Strauss per orchestra su un testo di Joseph von Eichendorff del 1841: tema, romantico quant’altri mai, il “wandern”. Ma non più quello schubertiano, pieno di entusiasmo, des “Müllers Lust”. Qui, fattasi sera, la coppia è “Wandermüde: ist dies etwa der Tod?”.

Il manoscritto dei Vier Letzte Lieder reca l’indicazione Montreux 9 giugno 1948: un secolo dopo il testo di Eichendorff (1841), pochi anni prima dei miei Lehrjahre a Pforzheim.

Il Lied è forma musicale centrale del romanticismo, senza il Lied non ci sarebbe romanticismo. Si può dire che senza romanticismo non ci sarebbe la cultura tedesca moderna?

Credo non sia azzardato, se penso alla cultura della borghesia tedesca che ritrovavo nella casa dei miei amici; ancor meno, se penso a quella in cui ha vissuto e che ha descritto Thomas Mann. Il romanticismo dunque come identità fondante per la Germania moderna? Lo Schiller che con il saggio “Sulla poesia ingenua e sentimentale” pone i canoni del romanticismo è anche quello che in una conferenza a Jena nel 1789 su “Sparta e Atene” (F. Schiller “Sparta e Atene”, Classici della Libertà, IBL Libri), appassionatamente traccia le caratteristiche di una società liberale, aperta al mutamento e alla creatività, poiché se “uno stato impedisce lo sviluppo delle capacità che vi sono in ogni essere umano e se esso interferisce con il progresso dello spirito, allora esso è da condannare”.

Gli elementi di reazione all’illuminismo francese, presenti nel romanticismo fin dall’origine, si perpetuano, un secolo dopo, nelle “Betrachtungen eines Unpolitischen”, là dove Mann contrappone il radicalismo, inteso come esercizio intellettualistico propriamente francese e occidentale, all’ideale di conio classico e conservatore della Kultur proprio della tradizione tedesca. Era intorno al 1915, ma sono temi che ancor oggi, un secolo dopo, si agitano sottotraccia.

Questa, dicevo, è per me anche l’occasione per professare un amore. Lo farò con le parole con cui Tonio Kroeger (ancora Thomas Mann!) si accommiata dalla sua amica.
“Schelten Sie diese Liebe nicht, Lisaweta; sie ist gut und fruchtbar. Sehnsucht ist darin und schwermütiger Neid und ein klein wenig Verachtung und eine ganze keusche Seligkeit”
“(Non trascuri quest’amore Lisaweta, è buono e fecondo: è un misto di struggimento, di invidia, di malinconia, di un pochino di disprezzo, e d’una immensa e casta beatitudine”).

Tonio Kroeger “saß im Süden”, l’Italia non è il paese verso cui andare seguendo Manon – “Dahin! Dahin!”; è il paese da cui guardare al mondo ordinato dei “Blonden”, dei “Blauäugigen”. Quel mondo borghese. Il mondo borghese.

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Musiche

    Ludwing van Beethoven – Kennst Du das Land – Ascolta

    Franz Schubert – Kennst Du das Land – Ascolta

    Robert Schumann – Kennst Du das Land – Ascolta

    Hugo Wolf – Kennst Du das Land – Ascolta

    Richard Strauss – Im Abendrot – Ascolta

Partiture

Testi

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