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Cambiano i governi resta il “braccio armato”

Pubblicato il 25/07/2018 @ 08:44 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Governo del Cambiamento, si è voluto chiamare: e le occasioni per dimostrarlo, più in un modo che in quell’altro, certo la maggioranza non se le è fatte mancare. Non così nel caso della Cassa Depositi e Prestiti: lì, se poniamo mente non alle persone che ricopriranno le posizioni apicali, ma alle politiche che verranno perseguite, è prevedibile che il governo giallo-verde si ponga in linea di continuità con quelli precedenti. Per ragioni che risulteranno chiare esaminandone l’attività caso per caso.

La nuova vita della CDP inizia quando, chiusa la partita Partecipazioni Statali, vietati gli aiuti di Stato, i governi si trovarono privati dello strumento per l’amato gioco della politica industriale: passi il non più poter “scegliere i vincitori”, ma almeno poter “salvare i perdenti”! La Francia ha la sua Caisse des Consignations, la Germania il suo imponente KfW: e noi niente? C’erano le Fondazioni, ricche dei proventi delle vendite delle partecipazioni bancarie, a cui si era (quasi) riusciti interdire che li impiegassero per controllare imprese. Offrire alle Fondazioni il modo di farlo insieme allo Stato, e al tempo stesso consentire allo Stato di portare il debito postale “sotto la riga”, cioè l’analogo di quello che più tardi si sarebbe chiamato “ottenere flessibilità da Bruxelles”: questa la geniale idea di Tremonti. Sempre per trovare risorse senza aumentare il debito, alla CDP vennero trasferite le partecipazioni, ormai di minoranza, da ENI a Enel a Terna a Snam; in tutta tranquillità, c’era la bandierina di CDP a garantire quella che allora si chiamava “italianità”, e oggi “sovranità”.

L’accelerazione si ha col governo Renzi: che nel 2014 regala alla Cassa tassi ben superiori a quelli di mercato, pagati dai risparmiatori postali: un aiuto di Stato, che probabilmente oggi susciterebbe critiche e ammonimenti ben più indignati di quelli che (non) risonarono allora. Parlare di nuova IRI è improprio, ma certo è che con Renzi e il suo governo siamo di nuovo in piena politica industriale, e che CDP è lo strumento per realizzarla. Magari pensando, allora come adesso, di farne la Banca di Stato, salvo accorgersi che la cosa è, allora come adesso, tecnicamente impossibile. Renzi promette agli italiani la connessione in fibra in casa? Certo è di Enel la bizzarra idea di sfruttare la ”sinergia” (sinistra parola in bocca agli statalisti) con la posa dei contatori elettronici, ma è CDP che, tramite un suo fondo di investimento, aveva già acquisito Metroweb: un passo verso la società (pubblica) delle reti, telefonica, elettrica e dei gasdotti, l’”oscuro oggetto del desiderio” di Franco Bassanini, già presidente della Cassa. E quando Elliott e i fondi attivisti scatenano contro Vivendi la contesa per il controllo di TIM, CDP, ente gestito dallo Stato, interviene in una battaglia di Borsa tra due soggetti privati, acquista poco meno del 5% del capitale, e determina la vittoria dei fondi. Così si riapre l’annosa vicenda dello scorporo della rete di proprietà TIM, in cui questa volta sono in gioco, da un lato la chiusura non indecorosa dell’avventura Openfibre, dall’altro la consistenza stessa di TIM, una delle poche grandi aziende italiane rimaste. Questa è la partita che ora la CDP giallo-verde dovrà gestire: una partita di politica industriale dove è difficile sapere quale sarà il vincitore prescelto (se ce ne sarà uno) e quale il perdente da salvare (se non saranno due).

“La questione ILVA? La risolvo io”. E’ ancora Renzi a prometterlo, naturalmente con l’aiuto della CDP. Esaurite altre più fantasiose ipotesi, economiche e tecniche, si opta per la gara: l’offerta della cordata in cui l’acciaiere straniero è affiancato da una pattuglia di imprenditori italiani e di CDP, risulta perdente rispetto a quella di Arcelor Mittal. E’ verosimile che questi sia stato indotto a presentare offerta per evitare che ILVA potesse andare al concorrente, ma è palese che l’offerta della cordata con CDP è stata strumentalizzata per proporre soluzioni balzane e tenere in piedi ipotesi disastrose. Il MISE ha il controllo di CDP: avrebbe dovuto, con maggiore determinazione, chiudere la gara assegnando ILVA al vincente, avviare il risanamento e la ripresa produttiva: facendo di tutto per evitare che l’impantanamento si trasferisse nel populismo grillino.

E l’Alitalia? Era chiaro come il sole che la possibilità tecnica di un’Alitalia a maggioranza pubblica sarebbe diventata un imperativo categorico per populisti e sovranisti; impegno prioritario era quindi levare questa possibilità dal tavolo, chiudere con una discontinuità una vicenda che ha superato i limiti, non solo di sopportabilità economica, ma di decenza gestionale. E invece CDP ha erogato il prestito che ha consentito di non prendere la decisione, che quindi si trasferisce ai successori.

La CDP va molto fiera dei suoi fondi e delle aziende in cui ha investito; ma un fondo di Stato è strutturalmente diverso da uno privato, e la stessa decisione di investimento ha effetti profondamente diversi se presa dall’uno o dall’altro. Semplicemente perché nel primo caso si tratta sempre, per definizione, di una decisione di politica industriale, che legittima le altre che allo stesso titolo verranno prese. Chi ha investito in alberghi o in maglioni, quali argomenti userà per criticare gli investimenti di chi gli è succeduto?

Cambieranno le persone e questo avrà pure la sua importanza. Ma, come si è visto, nelle grandi questioni lasciate aperte la politica passata della CDP è in linea di continuità con quella che sarà verosimilmente o necessariamente seguita. In quello che ha fatto e in quello che non ha fatto, l’ha preceduta. Se una delle caratteristiche del populismo – almeno di quello italiano – è sostenere che lo Stato – nella fattispecie il suo braccio armato, la CDP –è la soluzione di tutti i problemi, con che faccia l’establishment lo potrà contrastare, se ha fatto le stesse cose?

Franco Debenedetti
Autore di “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea della politica industriale”.

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di Ferruccio De Bortoli – Corriere della Sera, 23 luglio 2018

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