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Basta "coniugare". Meglio modernizzare

Pubblicato il 23/10/2003 @ 13:11 in Giornali,Il Riformista

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Come intercettare il vento che spinse Berlusconi

Come saremo, come dovremo essere nel 2006? E’ una domanda vera, non una domanda di assunzione nel cantiere dove si lavora alla strutturazione del partito e della coalizione in vista di quel traguardo. Avremo, nel 2006, la capacità di intercettare la richiesta di modernizzazione, e di darvi una risposta? Perché questa é, se non la ricetta sicura per vincere le elezioni, di certo quella che più le si avvicina.

Così fu per il primo Craxi, come riconosce Piero Fassino nella sua autobiografia. Così fu per Berlusconi: che non vinse nel 94 e nel 2001 per circonvenzione di un popolo reso incapace da decenni di istupidimento televisivo. Così fu per l’Ulivo nel 96: che vinse anche perché seppe entrare in sintonia con una richiesta di modernità, che facesse uscire il Paese dalle secche di anni di instabilità politica e di bilanci disastrati. Fu, la prima parte di quella legislatura, uno straordinario periodo di riforme: l’Euro, le grandi privatizzazioni, un pezzetto di riforma delle pensioni, il pacchetto Treu sul lavoro, il testo unico della finanza, l’avvio di alcune liberalizzazioni, alcune intuizioni su scuola e università; e, più tardi, l’intervento in Kosovo.
Oggi, a ripensarci, sembra perfino che fosse facile. Di certo, almeno la direzione era chiara, tanta era la necessità di liberalizzare. Nelle nostre vele entrava anche il vento che spirava in Europa: raccontava di banche centrali indipendenti e di fine delle politiche di deficit spending, di corporate governance e di mercati concorrenziali. Non più così oggi: il libero mercato, che il trattato di Maastricht poneva a fondamento dell’Unione, é diventato, nella bozza di Costituzione europea, l’ambiguo “coniugare” di concetti in cui ognuno può leggere quello che vuole. I monopoli nazionali, che Karel Van Miert credeva di smantellare, resistono: e Mario Monti deve fare buon viso a cattivo gioco con i francesi della Alstom, e inventarsi la teoria della “modica quantità” negli aiuti di stato: non più di uno grande e qualcuno minore ogni 10 anni.

Oggi il vento é incerto e le onde incrociate: è meno chiaro di allora dove mettere la prua. L’attesa di un nuovo miracolo economico é andata delusa, non (solo) per l’abbattersi del terrorismo e della crisi economica mondiale, ma per l’incapacità di questa maggioranza di affrontarla in tempi, e con diagnosi e strumenti adeguati: la sola riforma avviata finora é quella della legge Biagi. Nel frattempo il Paese ha subito un impressionante processo di deindustrializzazione, il nostro modello industriale ha perso competitività: l’indebitamento in rapporto al valore aggiunto di un campione di 3183 aziende, analizzato dalla Centrale Bilanci, è aumentato del 50% in 13 anni, e risulta in media nel 2001 pari al 90%, molto più alto di quello di imprese tedesche, francesi o spagnole ( pari rispettivamente al 20, 25 e 40%). Una delusione per chi aveva sperato che bastasse un governo amico per svegliare gli animal spirit. Ma una delusione patita per colpa loro non diventa automaticamente consenso per noi. Per guadagnare quei voti, decisivi per vincere ed ancor più per governare, non servirà il cemento dell’antiberlusconismo. Non varranno neppure generiche credenziali di serietà e rispettabilità: anche le biografie si consumano. Per ricostruire fiducia e entusiasmo, bisognerà ritrovare il filo delle aspettative su cui Berlusconi aveva basato il suo successo nel 2001.

Meno chiari i riferimenti all’esterno, più deboli le basi materiali e sociali all’interno. Il progetto riformista, per trovare terreno solido su cui fondarsi, dovrà scavare in profondità, e dovrà farlo da solo. Far lavorare tutte le risorse del paese, mettendo le risorse a disposizione di chi se lo merita, assicurando certezza dei propri diritti: la formula che proponiamo ai paesi in difficoltà dobbiamo applicarla a noi stessi. Interpretata a dovere ha conseguenze non ovvie né comode sugli snodi fondamentali della nostra società. Alcuni esempi.

Sulla concorrenza, per eliminare le posizioni di rendita: incominciando da quelle che le liberalizzazioni incompiute hanno permesso si costruissero a partire dalle privatizzazioni; per finire con quelle di cui godono gli ordini professionali.

Sul sistema finanziario. Sui criteri con cui il risparmio viene applicato alle iniziative degli individui e delle imprese. Dunque sulla necessità di consentire l’ingresso di operatori abituati ad operare in ambienti economici più vibranti, capaci di rompere un’uniformità culturale, che rasenta comportamenti collusivi, conseguenza del modo come é stata realizzata la ristrutturazione del nostro sistema bancario. Dunque sulla necessità di separare le ragioni della stabilità da quelle della concorrenza.

Sulle “fabbriche delle idee”, gli istituti di formazione. Incominciando dall’alto, dalle università, introducendovi criteri rigidamente meritocratici: per i docenti non solo nella selezione, ma per tutto l’arco della loro carriera; per gli allievi; e tra istituti.

Sulle tasse: perché i vincoli dei conti pubblici non possono far perdere di vista che la riduzione del carico fiscale mette più danaro a disposizione per gli investimenti in capitale umano, sola e vera ricchezza di un paese.

Sulla giustizia: quella civile per dare garanzia dei diritti di proprietà, e quella penale, con la separazione tra PM e giudici, e con una lettura realistica e non mitologica dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Sull’informazione: la sinistra, ha detto Claudio Petruccioli, non é stata capace di avere un suo progetto sui media, proprio là dove Berlusconi si é costruito il suo “capitale di credibilità” quanto a capacità di innovare. Abbacinata dal conflitto di interessi che fa capo a Berlusconi, non vede né quello che fa capo alla proprietà partitica della RAI, né quello per cui i maggiori quotidiani nazionali sono di proprietà di grandi gruppi industriali.

Sono convinto che nel Paese c’è una maggioranza di persone pronta a cogliere questi propositi non come un’amara medicina, o come un doloroso elettroshock, ma come una prospettiva di liberazione e di equità. Di liberazione da costrizioni, da favoritismi, da opacità, da defatiganti lentezze. E di equità: che è un’aspirazione di tutti, e che non dipende dal censo.

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